Galileo, Goldoni e l’editto bulgaro

Veneti Fair - Marta Dalla Via

Padova: 16, 17 e 18 settembre. In scena l’edizione zero della vetrina Sguardi: festival del teatro contemporaneo veneto. Un’occasione di incontro e di visibilità prima di tutto; ma una volta giunti al traguardo della maratona (21 eventi in tre giorni), impeccabilmente organizzata da Labros Mangheras e prodotta da PPTV (Produttori Professionali Teatrali Veneti), sotto il coordinamento del comitato artistico capitanato da Andrea Porcheddu, restano quei piccoli dolori muscolari, l’acido lattico si fa sentire anche per i giorni successivi, costringendo a ripensare alla corsa. Un vero e proprio tour de force, infatti, che, seppur dagli esiti qualitativi altalenanti, ha offerto una finestra sul teatro prodotto in Veneto che può e deve far riflettere. A partire da una constatazione: molti spettacoli presentati avevano come tema la “veniticità”, in numerose sue declinazioni, uno stringere il proprio campo d’azione e di riflessione ad un territorio specifico, sintomatico di movimenti localistici sempre più forti in Italia.

Il Paese dei cento campanili lo chiamano: con un’unità relativamente recente rispetto alla media europea e raggiunta attraverso un’autodeterminazione popolare un po’ pilotata, l’Italia ha da sempre rivendicato con forza le sue differenze interne piuttosto che gli elementi di coesione nazionale. Dalla gastronomia ai dialetti, dal tifo calcistico alle abitudini quotidiane: l’impegno per sottolineare le differenze tra nord e sud, ma anche tra singole regioni fino a paesini limitrofi, occupa da sempre le più accese conversazioni degli italiani. Convenendo che il periodo – un ventennio tristemente noto – di maggiore patriottismo e nazionalismo in Italia non sia stato decisamente un momento di cui andare orgogliosi, va però riscontrato che la progressiva e dilagante crescita di localismi e rivendicazioni di identità legate a limitati territori registrata negli ultimi anni sia un fenomeno perlomenopreoccupante. Preoccupante non solo perché probabilmente anacronistico rispetto alle tendenze globalizzanti e multietniche della modernità, ma ancor più perché prende forza da premesse fuorvianti: l’identità, quando si chiude nei limiti del localismo, glorifica se stessa restando sulla superficie delle sue espressioni meramente folkloristiche, rifugiandosi in un passato edulcorato ed innalzando fortificazioni in sua difesa che agevolmente si tingono di xenofobia. Come se l’identità di un popolo fosse qualcosa che quello stesso popolo abbia perso da qualche parte, o peggio ancora un qualcosa da fissare; come se l’oggi fosse il momento in cui mettere un punto fermo, immobilizzando e rendendo stantia e stagna un’identità fatta di secoli di storia, cambiamenti, immigrazioni ed emigrazioni e soggettività. Ben venga un impegno nel cercare di non perdere canti popolari o feste tradizionali, ma l’identità, come la cultura, assorbono linfa vitale proprio dalle novità, dai cambiamenti, dal loro essere nella contemporaneità: il folklore e le tradizioni ne sono elementi fondanti, ma solo in parte;se si confondono fino a una totale sovrapposizione, il revisionismo reazionario è dietro la porta. Specie se questa confusione è non solo autorizzata dalle istituzioni, ma legittimata e, in molti casi, fomentata e caldamente indirizzata dall’alto. Lungo tutto lo stivale, infatti, è un continuo proliferare di assessorati ed enti locali che inneggiano all’identità: dalla Direzione Generale Culture, Identità e Autonomie della Lombardia, per esempio, ci si imbatte nell’Assessorato identità e futuro del Comune di Caltanissetta o in quello all’identità Veneta della Regione che ha sostenuto l’iniziativa di Sguardi, nell’ambito di un bando regionale che, proponendo di agevolare iniziative su «materie strettamente legate al tema dell’identità (usi e costumi, armi, musiche, arti, conquiste ed esplorazioni, conoscenza delle specificità dei mestieri e della vita quotidiana del Veneto, ecc.)», palesa il disguido di fondo su cosa vada a comporre l’identità. Sorvolando – non per carenza di indignazione ma perché la questione meriterebbe una trattazione dedicata – sul discutibile concetto che le armi possano in qualche modo essere un elemento costituente di un’identità, ci si limiterà a rilevare i sintomi di una più generale “crisi di identità”, che in Veneto sembra ancor più sentita che in altre parti d’Italia, come dimostrato anche da alcuni lavori nel cartellone della vetrina padovana.

Quella stessa crisi che ha colorato sempre più di verde questa Regione, infatti, invade il palco in una sorta di ossimorica denuncia-difesa: come a dire che esiste anche un altro Veneto, che non ama e non condivide quello ufficialmente noto nel resto d’Italia. Non solo capannoni e lavoratori clandestini sfruttati, non solo muri ed espressioni vernacolari, non solo ronde e spritz: ma la critica, la denuncia, la riflessione riguarda proprio (solo) questi elementi. Come nel divertente Veneti Fair della brava e giovane Marta Dalla Via, la satiranon affonda mai davvero il dito nella piaga: si deridono, insieme a un pubblico connivente, quegli altri, ma come si prende in giro un parente buffo, un compagno di scuola un po’ sempliciotto. Niente va mai davvero a sradicare le basi, le radici di questa chiusura che ha come motto la riscoperta e la difesa della propria (presunta) identità regionale: sono sguardi che non allargano il loro orizzonte.

Peccato perché proprio personaggi illustri della tradizione e da sempre motivo di orgoglio per questa regione avevano professato il contrario. Primo tra tutti Goldoni, grandioso riformatore del teatro del suo tempo, fine rivoluzionario e cittadino del mondo, ha usato la sua cultura e la sua tradizione per andare oltre, per scardinarle ed ampliarle. Troppo spesso, invece, gli si fa il torto di ridurlo alla dimensione di simbolo regionale, surgelando la sua opera alla data di edizione – ma, talvolta, fortunatamente il suo lavoro viene rivisto e riletto più in coerenza con il suo messaggio che in rispetto pedissequo della figura ormai divenuta istituzionale: come nell’irriverente e raffinata riscrittura del goldoniano La Bancarotta o sia Mercante fallito presentata in forma di lettura scenica da Vitaliano Trevisan. Operazione riuscitissima che amplia e potenzia il punto di vista, con un uso del dialetto spontaneo, vitale, che conferisce verità ai personaggi senza limitarne i confini di azione. Qui lo sguardo spazia giungendo ad una dimensione universale: come ha insegnato un altro illustre personaggio – “foresto” – che il Veneto ha in passato ospitato: Galileo. Il grande astrofisico ha diretto il cannocchiale verso la volta celeste, andando a confutare con veemenza le certezze catto-aristoteliche che sembravano indiscutibili. Ha guardato oltre, aldilà, aprendo i confini della mente e della conoscenza, rivoluzionando e ribaltando un sistema che sembrava fissato per sempre. Mentre il cannocchiale di molti artisti resta a corto raggio, francamente impiantato nel terreno e mosso a 360°, ma sempre ad altezza d’uomo, veneto. Quello che si genera è un circolo vizioso – anche se si riconoscono gli intenti assolutamente virtuosi. Si crea la paradossale situazione per la quale l’altro Veneto sembra esistere solo di riflesso a quello ufficiale: non rivendica una sua indipendenza, e non riesce ad intaccarne minimamente le dinamiche, non c’è alcun pericolo. E, ironia della sorte, è finanziato, in parte, proprio da quell’area politica che critica così apertamente. Insomma, «butemo le burle da banda e parlemo sul sodo»: è come quando uno dei tanti comici televisivi deride Berlusconi proprio nelle reti di proprietà del Premier. Il potenziale sovversivo dell’operazione è presto scampato: le battute sono principalmente degli sfottò più che dei veri e propri affondi che possano in qualche modo incrinare l’immagine del Presidente, che può però farsi vanto di liberalismo e democrazia proprio in quanto permette libertà di espressione agli oppositori senza esercitare alcuna censura, pur avendone in realtà pieno potere. Detto in altre parole, se si risponde alle spinte conservatrici e retrograde con lo stesso attaccamento al passato e al folklore, senza mettere in crisi il concetto stesso di identità, non si rischia alcun editto bulgaro.

Silvia Gatto

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