Riflessioni sul linguaggio

Se, spesso, ogni testo letterario racchiude in sé una riflessione sul linguaggio stesso, ciò vale ancora di più per un testo teatrale, in quanto meditato e composto per divenire parola detta, che vive dell’immediatezza effimera della messa in scena ma, anche, di una forza potenziata dall’enunciazione. Per la drammaturgia, quindi, questa riflessione è ancor più legata al potere del linguaggio, e non può tralasciare, in questo suo intrinseco ragionamento, il rapporto con il pubblico.

In linea con queste considerazioni, importanti contributi sono stati elaborati in seno alla produzione drammaturgica spagnola, che a buon diritto occupa un ruolo di rilievo anche nella programmazione della Settimana di Drammaturgia Contemporanea  – Il teatro in tempo di crisi, che prevede infatti, tra gli altri, la presenza di José Sanchis Sinisterra (fondatore nel ’77 a Barcellona del gruppo sperimentale Teatro Fronterizo, autore, critico e studioso), Juan Mayorga (con la messa in scena da parte di VeneziaInScena del suo Il ragazzo dell’ultimo banco) e di Beth Escudé (autrice di Aurora De Collata, uno degli spettacoli in cartellone della rassegna).

Autori che hanno elaborato interessanti ed originali strategie drammatiche, volte alla costruzione di un rinnovato rapporto con il pubblico ma aperte, anche, a riflessioni metalinguistiche dal più ampio respiro filosofico che affondano le loro radici nella ormai millenaria discussione sul linguaggio umano. A partire da Socrate, esso è stato scarnificato, studiato, smascherato nelle sue capacità demagogiche, nelle sue più pericolose potenzialità, e nel suo più ontologico paradosso: in questa analisi oggetto e mezzo coincidono inevitabilmente. Un teatro in grado di coniugarsi con la filosofia alla ricerca di una riflessione più profonda e consapevole sul linguaggio; un teatro, quindi, capace di rendere concreto l’astratto, facendo leva sulle caratteristiche dialettiche che gli sono proprie per presentare la complessità senza aver bisogno di semplificazioni.

Non si tratta mai di considerazioni autoreferenziali, ma di riflessioni interne al lavoro autoriale in vista di una messa in scena pubblica: per instaurare un nuovo rapporto con lo spettatore, per attivare in esso processi creativi, attivi e produttivi; affinché divenga in grado di completare il testo liberamente, di trasformarlo, di “digerirlo”. Come racconta Sinisterra in un’intervista di pochi anni fa: «Per me il teatro deve esprimere quello che la parola non dice. Ci deve essere spazio per la “attivazione del ricettore”, deve essere stimolata la capacità del pubblico di interpretare e di diventare coautore. Mi interessa cioè che ci sia una lettura diversa da parte di ogni spettatore, in modo che l’opera prosegua dopo la sua messa in scena».

Qui il carattere eminentemente politico del teatro, nel senso più ampio e positivo del termine (perché, direbbe Mayorga è «un’arte della comunità, un’arte che fa società, che fa tessuto») si esprime alla massima potenza, e trova proprio nel linguaggio e nel suo uso drammaturgico il veicolo principale, in quanto strumento di disvelamento del potere del linguaggio stesso, e quindi di prevenzione da facili ipnosi comunicative. Un uso della parola che vuole aprire la mente di chi la ascolta, e non saturarla: per lasciare libero il pubblico di meditare, riflettere, elaborare ed allenare quel pensiero critico che sta alla base della vera Democrazia.

 

Silvia Gatto

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