Short Theatre 9: quale rivoluzione?

«Quali le parole che possono raccontare il nostro domani imminente (quello che sarà e quello che vogliamo)?» Se lo chiede, e ce lo chiede, Fabrizio Arcuri nel presentare l’ultima edizione di Short Theatre, che sceglie come leit-motiv La Rivoluzione delle parole, e intende porsi come occasione della domanda e della risposta, e come luogo che genera ulteriori domande.
A manifestazione finita, con un bagaglio di spettacoli visti e rivisti, proviamo a interrogarci sulle parole che sono scivolate via e su quelle che sono rimaste. In un percorso che non vuole restituire tutto, ma soffermarsi su alcuni momenti, forse costruire un arco temporale, che inizia con vicende universali per concludersi con episodi particolari.

A.H. ph Claudia Pajewski

A.H. – foto di Claudia Pajewski

Rimandano alla grande storia le parole di A.H., alla guerra, ai campi di concentramento, allo sterminio, alla dittatura, eppure in nessun momento questi vocaboli vengono pronunciati (da DreamCatcher2013 visioni e sonorità di A.H.). Perché non è un lavoro sul Terzo Reich, tanto meno sul Führer, è un lavoro sul male e sulla sua origine, è un lavoro sulla menzogna e il suo potere. È un solo in cui l’azione la fa da padrona, è un solo in cui la drammaturgia è calibrata, in cui i lemmi sono isolati, ripetuti, enumerati, fino a farsi suono, fino a sciogliersi nel corpo e lì dentro continuare a vivere.
Apre e chiude lo spettacolo menzogna, che rimanda alla falsità del linguaggio, e alla lingua come strumento di comando. Riecheggia Io, accostato a Europa – “Io sono Europa, Io ero Europa, Io sarò Europa” – a significare l’influenza di un unico uomo su un intero continente, con l’arco verbale e temporale che rende conto dell’ostinazione del male, della sua permanenza, e dei suoi, infiniti, strascichi. Sciabola. Balestra. Bombarola. Schioppo. Mitragliatrice. Sono elencate, una dopo l’altra, le armi che hanno minacciato, quelle che hanno ferito, quelle che hanno ucciso, una descrizione per oggetto che è determinazione ‘strumentale’ della guerra. Parole, quelle di Bellini e Latella, che stimolano una sorta di esercizio della memoria, per una necessaria, e collettiva, consapevolezza di ciò che è stato.

È un testo novecentesco quello scelto da Roberto Latini, I Giganti della Montagna, opera pirandelliana, metateatrale, mai finita. Campeggia al centro della scena, in uno schermo, immaginazione, come stimolo ad andare oltre un limite non fissato. Il primo atto di questo lavoro affascina per bellezza scenica, per abilità attoriale – perché Latini con la sua voce e la sua presenza è capace di evocare mondi –, stimola la nostra capacità immaginifica, ma forse non è la morbidezza di un campo di grano ciò che cerchiamo.

E allora ci risuonano nelle orecchie le parole di Handke, «non abbiamo bisogno di illusioni per farvi vedere delle illusioni». E in effetti non si vede niente in Insulti al pubblico dell’Accademia degli Artefatti –  nuova edizione di un lavoro del 2006 –  piuttosto si ascolta. Perché il dialogo tra due attori che non andranno mai in scena si nasconde dietro un sipario, o, quando è scoperto, ci arriva filtrato da un megafono. Non personaggi in una scena che non c’è, Daria Deflorian e Pieraldo Girotto discutono di ciò che potrebbe accadere, senza mai farlo accadere. La parola di Handke, parola politica di un tempo e di un luogo che non è il nostro, ci dice molto –  ancora adesso –  del rapporto tra palco e platea, tra spettatore (insultato) e attore (insultante); pone il pubblico, e necessariamente anche l’artista, in una condizione di attesa, di dubbio, e in una possibile (ri)definizione del rapporto.

Mio figlio era come un padre per me

Mio figlio era come un padre per me

E poi ci sono lavori incollati al nostro tempo, spettacoli che parlano una lingua vernacolare, talvolta cantilenante, spesso imprecante.
«Tedio domenicale, quanta droga consumare, quanti amori frantumare»: si apre con una nenia Mio figlio era come un padre per me dei Fratelli Dalla Via, che partono dal microcosmo di Tonezza del Cimone (di cui, peraltro Diego Dalla Via è sindaco) per fotografare uno spaccato del nordest. C’è il miraggio del lavoro e della ricchezza, c’è il fallimento dei padri trasmesso –  come un virus –  ai figli, perché «il miracolo del nordest è la fotocopia smarrita del sogno americano», perché «la prima generazione ha lavorato. La seconda ha lavorato e risparmiato. La terza ha lavorato, risparmiato e sfondato… poi siamo arrivati noi».
I vincitori dello Scenario 2013 (qui una conversazione con Marta e Diego) ci raccontano, con cinismo e non senza un’amarezza di fondo, quella condizione perenne di figli che i 30/40enni di oggi conoscono molto bene, l’inabilità a decidere delle proprie vite, e la frustrazione dei padri, che finiscono per togliersi di mezzo gettandosi sotto un treno, gesto che è ulteriore privazione di azione, ultima etichetta di incapacità apposta sulla fronte dei figli.

E ancora di padri e di figli si parla nella prima apparizione di Jesus, dove ritroviamo Enrico Castellani e Valeria Raimondi alle prese con le domande dei figli, o meglio di Ettore, il più grande, interrogativi che hanno a che vedere con l’educazione, con la religione, che hanno a che vedere con la morte, e con la vita. Nel tentativo di spiegare c’è la difficoltà di mentire, lo sforzo di dire la verità, c’è lo scontro con la società cattolica, ma soprattutto quello che cogliamo (almeno in questa prima apparizione) è la bellezza e la fatica di essere genitori, oggi come ieri.

I Giganti della montagna

I Giganti della montagna – foto di Simone Cecchetti

Come si può pensare il futuro? Con un piena coscienza delle menzogne del passato? O con l’amarezza delle miserie dell’oggi? Ci salveremo con l’immaginazione? O sarà il disicanto a tenerci in piedi? Pirandello nei Giganti ci dice che «non bisogna aver paura delle parole». Latella ci racconta tutta un’altra storia.
Accanto a vocaboli secchi, diretti, violenti, che abbiamo voluto evidenziare, restano le sagome di due uomini (Roberto Latini, Francesco Manetti) accartocciati sul proprio corpo, che nella nudità si fa inerme. E questo ci parla di declino, di deterioramento, e, ancora una volta, di crisi.
A dare un senso di trasformazione, di rivoluzione se vogliamo, sono i corpi svestiti di Valeria e Enrico (Babilonia Teatri) che nell’abbraccio generano la vita.

Rossella Porcheddu

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