Visioni di teatro del nostro tempo. Da Taranto

L’idea di relazione per avvicinare StartUp
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Cresce bene e forte il festival StartUp di Taranto: al suo debutto due anni fa con l’organizzazione del Crest (leggi l’articolo), giunge ora alla terza edizione, con il coordinamento della rete Una.net, formata da sei gruppi dei Teatri Abitati pugliesi (oltre al Crest, Bottega degli Apocrifi, Armamaxa, La luna nel letto, ResExtensa, Teatro delle Forche).

Dal 24 al 27 settembre, si è sviluppata una rassegna dai livelli e dai volti molteplici: un’attività intensissima che si inaugurava ogni giorno in mattinata, con incontri di ampio respiro che hanno di volta in volta affrontato temi legati alle politiche culturali e alle questioni dello spettacolo in senso lato (il network IETM in vista di Luoghi Comuni 2015, le residenze e il nuovo Decreto, punti di vista sui linguaggi del contemporaneo affrontati dall’ANTC); per proseguire nel pomeriggio, con visite organizzate nel centro storico della città e più tardi incontri di carattere più “frontale” (presentazioni di libri, approfondimenti); e terminare ogni sera con diversi spettacoli, momento in cui si è colta l’occasione da un lato di presentare diverse produzioni pugliesi, dall’altro di portare a Taranto importanti lavori di altra provenienza (come le ultime opere di Teatro Sotterraneo o Roberto Latini).

Sono molti i livelli di approccio e approfondimento dello spettacolo che esprime questa piccola ma intensa rassegna, capace di combinare discorsi sulla critica alle questioni più calde della politica culturale, diversi modi, geografie, linguaggi teatrali, momenti di discussione pubblica e altri più informali. Comunità del teatro che si incontrano, è questo il pensiero più forte che rimane dopo StartUp: artisti, critici, operatori, spettatori di differente provenienza, età, approccio; sotto-territori che, pure facendo parte della stessa macro-area delle arti performative, spesso rimangono chiusi nei loro confini (di ruolo, geografici, ecc.) e invece a Taranto si vedono discutere insieme, incontrarsi, confrontarsi, in pubblico e in privato.
Una forte linea di lavoro di questa edizione, fra l’altro, è quella del tentativo di approccio alla città, con una serie di incontri e performance realizzati nel centro storico e pensati per un coinvolgimento più concreto e continuativo di cittadini e spettatori: piccole chiesette restaurate, musei, palazzi aprono le proprie porte al festival e, così, anche alla città che lo ospita.
Forse è l’idea di relazione lo strumento più adeguato per descrivere il senso di questo StartUp, che non a caso è ora organizzato da una rete di artisti e compagnie e altrettanto non casualmente è forse uno dei fondamenti più solidi dell’esperienza teatrale e della sua differenza rispetto alle altre arti o produzioni culturali.

Il teatro della crisi e dell’eterno presente

Salvatore Marci "Sette opere di misericordia e mezzo" - foto di Salvatore Magrone

Salvatore Marci “Sette opere di misericordia e mezzo” – foto di Salvatore Magrone

Molti degli spettacoli creati in questi ultimi mesi sembra vogliano essere un ritratto – certo vibrante e mosso – dei nostri tempi: riflettono (anche in senso letterale) un disagio inquieto a 360 gradi, quel gusto amaro che resta in bocca e nelle ossa quando ci si trova spiazzati, disarmati di fronte a un tempo bloccato; un eterno presente di cui è impossibile indovinare con sicurezza il passato e anche immaginare il futuro. È quello che capita ogni giorno, nell’arte ma anche nella più materiale quotidianità.
Si potrebbe dire che tante volte questo prenda (anche) le forme di un autoritratto generazionale; sulle scene di questi ultimi tempi lo si è visto spesso, e così anche a StartUp.

Sette opere di misericordia e mezzo di Salvatore Marci (25 settembre) è una storia esplosa nei diversi punti di vista dei protagonisti che la vivono. Ma non c’è trama, personaggio che tenga: in scena questi si presentano allo stato residuale, brandelli il cui senso si rivela man mano che lo spettacolo procede. Sono lei, lui, l’altro: Giovanna, moglie che diventa una strana puttana vestita di bianco davanti alla discoteca Paradiso; il marito coi suoi integratori; l’altro, giovane solo che la incontra una notte ed è destinato a risolvere (tragicamente? dipende dai punti di vista) il triangolo.

Roberto Corradino|Reggimento Carri "L'osso duro" - foto di Vito Mastrolonardo

Roberto Corradino|Reggimento Carri “L’osso duro” – foto di Vito Mastrolonardo

È un’umanità senza scampo, come quella che porta in scena la stessa sera Teatro Sotterraneo. Che si chiede: “cosa fai per vivere?”. Di questo parla Be Normal!, nuovo episodio di un teatro estremamente intelligente che si fa quasi inchiesta senza però rinunciare a darsi come spettacolo: dell’aver visto “le migliori menti della mia generazione perdersi e lasciar perdere”, come recita la presentazione, uccidere il proprio daimon e rinunciare ai propri sogni per sopravvivere.
Così, in qualche modo, anche i personaggi allucinati e allucinatori di Roberto Corradino, che presenta L’osso duro, tratto dalla narrativa kafkiana: Mario e Franco, facce diverse della stessa medaglia, si alternano in scena provando a dialogare con l’assente Nino (il pubblico?), dando vita a una vibrante riflessione sul ruolo dell’artista nel nostro tempo. Sono forse due possibili modi per affrontare il problema della sopravvivenza dell’arte: il primo che accetta di vendersi, l’altro che invece preferisce digiunare e morire.
Poi è così per gli allenamenti di corpo e di voce di Raskolnikov di Leonardo Capuano e, in diverso modo, lo Psychokiller di Ippolito Chiarello. 

Da Taranto. Altri modi di fare teatro e politica
Un discorso a parte va fatto per Capatosta di Gaetano Colella (anche in scena con Andrea Simonetti, per la regia di Enrico Messina). Anche in questo spettacolo si ritrovano quegli elementi di inquietudine e irrequietezza, quel senso di crisi e di frantumazione che abbiamo incrociato velocemente negli altri lavori in rassegna. Ma questo è qualcosa di stampo diverso. Prima di tutto perché è un lavoro sull’Ilva, gigantesco centro industriale tristemente noto alle cronache che sorge a pochi passi dal Teatro TaTà gestito dal Crest (e dalla messinscena dello spettacolo).
I temi che tocca questo spettacolo sono innumerevoli e non solo legati ai problemi dell’inquinamento, dello sfruttamento, delle malattie dell’industria tarantina: questioni come la (presunta) assenza di una classe operaia (che qui invece viene trasversalmente rideclinata rispetto a tutti i lavoratori precari di ogni settore e livello), dell’impossibilità della lotta di classe, della sostenibilità delle proprie scelte di vita e delle reazioni rispetto a quelle altrui travalicano di frequente il caso Ilva – seppure profondamente radicato e radicante nella messinscena – per parlare molto più ampiamente del presente. E delle possibilità di scampo.

Crest "Capatosta" - foto di Lorenzo Palazzo

Crest “Capatosta” – foto di Lorenzo Palazzo

In scena, due operai, un veterano e un neo-assunto. Due generazioni a confronto? Non solo, perché – scopriremo man mano – questi due hanno in comune molto più di quello che sembra. Il primo ormai abituato a chinare la testa, nella speranza di fuggire al più presto; il secondo, neolaureato a pieni voti e figlio di un ex-operaio, invece che l’Ilva l’ha scelta, per dare vita alla sua rivoluzione.

Per chi viene da fuori, il punto, come recita la voce di Enrico Castellani (Babilonia Teatri) nella potente audio-installazione dedicata all’Ilva che era possibile ascoltare nella splendida chiesetta di S. Andrea degli Armeni, è che “se non mi avessero chiesto di parlare dell’Ilva non ne saprei nulla. Se non ci fosse un teatro, dei Tamburi non saprei nulla” (e aggiunge: “dovrei vergognarmi a dirlo, dovrei vergognarmi”). Con la sua voce e con quella delle varie persone intervistate, possiamo riconoscere “tutta l’Ilva che c’è intorno a noi”, dai barattoli di pomodoro ai mobili ai mezzi di trasporto; e assaporare il ruolo che può ancora avere un privato cittadino nelle decisioni che vengono prese a suo discapito (con la storia di quel pastore che, scoprendo la diossina nei suoi formaggi, diventò l’innesco dello scandalo Ilva).
E qui si apre uno spiraglio, rispetto ai temi dell’impotenza, della crisi, del disastro di una generazione e non solo: quello della potenzialità del teatro, che può fare informazione, riflessione, politica. E forse cambiare qualcosa.

Nei termini del discorso che stiamo svolgendo e del filo che stiamo provando a seguire, Capatosta permette di fare un passo ulteriore: svincolandosi dalla dimensione puramente interiore e personale di senso del tragico che rischia spesso di convertirsi in crisi permanente o addirittura in dato contigente o peggio ancora generazionale, sceglie di affrontare di petto un problema concreto (e a dir poco spinoso, prossimo, vicinissimo). La dimensione dialogica su cui si fonda la struttura dello spettacolo, consente poi di approcciare la materia in termini dialettici, di comprendere come l’unicità e l’esclusività di un punto di vista (magari il proprio io, personale e biografico) vada sempre a giustapporsi a quelli altrui; cioè, prende in carico il problema del rapporto con l’altro, della comunità, della legittimità delle scelte, delle idee, delle posizioni; della complessità dei loro intrecci, dell’avvicendarsi delle motivazioni che spingono all’una o all’altra azione. E, infine e soprattutto, questo spettacolo non si ferma a fotografare l’esistente, non si lascia rapire dall’eterno presente e non resta disarmato di fronte all’impotenza e alla crisi, alla tragedia, ma, appunto, propone di immaginare una possibile via di scampo.

Drammaturgie esplose, estese, diffuse

Ippolito Chiarello "Psychokiller"

Ippolito Chiarello “Psychokiller”

Ma, questa dell’eterno presente di un’umanità senza scampo, non è una questione attiva solo sul piano tematico. Nel lavoro di Marci il testo esplode in diversi punti di vista che si avvicendano e poi si completano reciprocamente; in quello di Corradino si innesca un riverbero dialettico; nel monologo di Chiarello si concretizza vistosamente il ruolo del pubblico; Teatro Sotterraneo attinge a differenti livelli scenici, creando un dispositivo drammaturgico che acquisisce come emittenti (interpreti?) ben altri supporti oltre il testo detto. Ad esempio, come accade anche in altri esiti performativi degli ultimi tempi, alcuni degli spettacoli condividono la centralità della musica sia come fonte drammaturgica (quando l’attore dice i versi di grandi successi pop), che come possibilità espressiva (su tutte le possibilità, il canto). Nel lavoro di Sotterraneo, poi, sono testo drammatico anche i sopratitoli e le didascalie che accompagnano le scene.

È come se i temi della frammentazione del soggetto, della relatività disarmante dei punti di vista, del caos che ribolle in quest’era post-globale si riversassero anche sul piano del lavoro drammaturgico. Però non trasmettendo quel senso di impotenza, non riecheggiando la rassegnazione alla crisi permanente, non scivolando in istinti auto-consolatori; ma sfruttando lo spirito dei tempi per creare nuove ipotesi di approccio.

Di qui, si può tirare un piccolo filo (seppure parziale) per attraversare queste (e forse anche altre) creazioni performative degli ultimi anni. Le macerie in cui ci troviamo a scavare ogni giorno, le difficoltà di rapportarsi a inquadrare il reale, la resistenza e la sopravvivenza sono sì assunte sul piano tematico come inaffrontabile orizzonte definitivo; ma esse forse producono anche un riverbero di non poco interesse sul piano dei dispositivi drammaturgici utilizzabili. Storie esplose e gente senza scampo. Ma raccontate da un teatro che non ha ancora finito di inventarsi nuove risorse, modi, idee per sopravvivere; e forse addirittura provare ad andare avanti.

Roberta Ferraresi

Altre voci, visioni, riflessioni intorno a StartUp
una selezione degli articoli scritti in occasione del festival da alcuni colleghi che hanno voluto condividere i link su questa pagina

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