Live Works_Performance Act Award vol. 3

Live Works è un premio, quest’anno alla sua terza edizione, creato da Centrale Fies con Viafarini e curato da Barbara Boninsegna, Simone Frangi, Daniel Blanga-Gubbay, Denis Isaia. È stato possibile fruire l’esito 2015 nelle 3 serate dedicate dal 27 al 29 luglio durante il festival Drodesera, quest’anno intitolato Motherlode. Ma Live Works è anche un ciclo di residenze (quelle preparatorie, riservate ai finalisti a inizio luglio, più la successiva offerta al vincitore), che si svolgono fra teoria, pratiche, confronto e condivisione. E poi è un progetto di ricerca ma anche di formazione, con The Free School of Performance. Alla fine, appare nel complesso anche come un carotaggio composito e condiviso nel campo della progettualità intorno al linguaggio performativo diretto insieme da due dei più importanti centri italiani per la creazione artistica.
I 3 giorni di Live Works a Centrale Fies – ognuno dei quali ha ospitato 3 progetti finalisti, accompagnati dall’opera di un ospite d’eccezione (Jérôme Bel, Santiago Sierra, Alessandro Sciarroni) e conclusi da Controvena, nuova opera di Riccardo Giacconi, vincitore dell’edizione 2014 – diventano un’occasione per dare un’occhiata ai territori della performance art emergente. Certo, non per rendere una cartografia esaustiva e completa delle tendenze e tensioni che agitano quegli orizzonti, ma per individuare qualche punto di un certo interesse e per intercettare alcune riflessioni che da qui si possono innescare. Fra questi, un livello particolarmente ricorrente, sviluppato in diverse direzioni e modi, è quello della parola, del testo, del racconto.

IL POTERE DELLA PAROLA
Buona parte delle performance finaliste di questa edizione di Live Works parlano al proprio pubblico. In senso stretto e letterale: dialogano, raccontano e si raccontano.

Il lavoro di Riccardo Giacconi è emblematico: lo scorso anno aveva presentato in concorso una performance basata sulla ri-creazione di una testualità perduta, partendo da una traduzione italiana dei frammenti di un diario tedesco (recuperato dal suo bisnonno in una trincea della prima guerra mondiale) e proponendo in scena una nuova versione live del testo originale mancante; nel 2015 è la volta ancora della parola, della biografia, della memoria e del racconto, in quanto al centro di Controvena sono testimonianze del bisnonno dell’artista, inventore di inizio Novecento. Ma la situazione performativa è ancora più scarna: se nel lavoro precedente il fulcro dell’azione era affidato a due interpreti, nella nuova opera non c’è alcuna presenza umana e il racconto è narrato da una singolare macchina scenica, fatta principalmente di luce. Come a testimoniare una focalizzazione ancora più mirata sul potere della parola, sulla sua riscoperta: sull’individuazione della parola come strumento performativo capace di portare alla riattivazione della memoria, da condividere con gli spettatori.

27 luglio: GDSF Gregory Dapra + Stefano Faoro; Simon Asencio; Robert B. Lisek [foto B-Fies: Alessandro Sala, Gianluca Panareo]

27 luglio: GDSF Gregory Dapra + Stefano Faoro; Simon Asencio; Robert B. Lisek

Lo story-telling nella sua versione live e condivisa sembra essere uno dei punti nodali delle pratiche performative del nostro tempo, anche ad esempio in I’ll fly with you di Styrmir Örn Guðmundsson.
Spesso si tratta di memoria storica, perché il percorso di Giacconi richiama nell’uno e nell’altro caso contesti e atmosfere dell’inizio del secolo scorso; ma anche di conoscenza più in generale, basti pensare al lavoro della vincitrice, Vanja Smiljanic, che si concentra sul movimento dei Cosmic People, a quello sul tema della schiavitù di Justin Randolph Thompson, alla ricerca sull’informazione virtuale Jazra Khaleed, Timos Alexandropoulos e Antonis Kalagkatis.
A un raggio di pensiero più ampio, si potrebbe ipotizzare che quello della parola si dimostri uno strumento efficace per tessere in scena dei rapporti fra la dimensione fictional della performance e quella del reale.

FRA PERFORMANCE E REALTÀ
La scelta di Roberto Fassone è particolarmente rappresentativa in questo senso. Chiamando in causa la vertigine dell’ampio spettro performativo disegnato da Richard Schechner, in cui quello artistico è solo uno dei punti di un arco piuttosto lungo che raggiunge anche le pratiche performative quotidiane, in Gold Digger è in scena come performer una (vera) avvocato a difendere le ragioni del progetto davanti alla (vera) giuria del premio. La performance non solo si svolge eminentemente sul piano del parlato, ma più specificamente si fonda sulla parola detta, sul flusso che genera e sulla sua efficacia.
Un rapporto così pregnante con la dimensione della realtà, fonte e fine ultimo, fra gli altri, della pratica performativa, sembra naturalmente al centro anche dei lavori già menzionati e di altri che ci apprestiamo a riprendere su un livello ulteriore.

IL PROCESSO “NEL” PRODOTTO
Se si osservano i propositi e le funzioni con cui la parola è scelta e usata come mezzo espressivo, ad un livello più profondo si può notare un altro elemento condiviso di un certo interesse: sono numerosi i lavori che, attraverso la voce, il racconto, il dialogo, parlano di se stessi e più specificamente delle qualità o modalità del processo sperimentato per la loro attuazione.

28 luglio: Styrmir Örn Guðmundsson; Justin Randolph Thompson; Jazra Khaleed, Timos Alexandropoulos e Antonis Kalagkatis

28 luglio: Styrmir Örn Guðmundsson; Justin Randolph Thompson; Jazra Khaleed, Timos Alexandropoulos e Antonis Kalagkatis

Lavorano in maniera esplicita su questi territori, tessendo un legame di un certo spessore con la dimensione della realtà, Jazra Khaleed, Timos Alexandropoulos e Antonis Kalagkatis: in Poetry is just words in the wrong order vengono proiettate frasi scelte da tweet archiviati secondo certi hashtag (legati al conflitto in Siria) e versi di poesie scritte in inglese da donne arabe, anche interagendo con il live twitting del pubblico. Nel frattempo, un performer coglie il frammento del discorso che compare sul video, completandolo di senso, ma la sua voce è udibile a tratti anch’essa, perché contrappuntata dal rumore di fondo, che richiama in modo piuttosto esplicito il brusio del discorso che si percepisce ogni giorno dentro e fuori dal web. La performance, in questo caso, è un processo, costruito live insieme agli spettatori.
Ci sono esperienze, poi, in cui il racconto diventa la testimonianza unica e ultima, irrinunciabile per – non solo creare – ma riattivare, richiamare o rievocare la performance vera e propria in scena; che diventa resoconto da condividere del processo artistico (spesso ancora in atto), narrazione in primissima persona che si immerge, superando qualsiasi biografismo, nell’esperienza della creazione, punctum in un fluire su cui lo spettatore può affacciarsi per qualche momento. La performance di GDSF Gregory Dapra + Stefano Faoro lavora su questi fronti, portando in scena le modalità d’approccio al lavoro, dagli “ingredienti” dell’opera a un racconto che riflette sulla sua messa in pratica, concentrandosi in particolare sulle articolazioni e caratteristiche dello spazio performativo.

29 luglio: Diego Tonus; Roberto Fassone, Vanja Smiljanic

29 luglio: Diego Tonus; Roberto Fassone, Vanja Smiljanic

Di più, il lavoro di Simon Asencio, senza il suo racconto in Turbina, non sarebbe stato altrimenti particolarmente fruibile: il suo bel discorso a filo di proscenio sull’invisibilità (riflessioni, barzellette, storie e aneddoti) rimanda non solo alla performance che ha realmente svolto a Fies nei giorni di festival (un’intelligente considerazione sul senso del lavoro artistico, per cui Asencio, con il nome di Jessica, si è offerto come collaboratore a pagamento per le attività che lo richiedevano, con tanto di contratto), ma anche meta-artisticamente alla situazione performativa stessa, nel momento esatto in cui veniva agita in scena (l’invisibilità del vero progetto in concorso).
Ma qualcosa di simile si potrebbe dire anche di Vanja Smiljanic, la vincitrice: la performance presentata a Fies è un’apertura temporanea su un’indagine di ampio respiro, che dura da diverso tempo e mira a concludersi nel 2017; e The Anthem of the New Earth/Remastered espone, con la guida dell’autrice, una serie di materiali di diversa provenienza e linguaggio intorno al percorso di indagine che sta svolgendo.

OLTRE LA PAROLA
Al di là del focus che si è voluto seguire in queste righe, sul potere e il senso della parola performata, anche i lavori di Live Works che non si inseriscono a pieno nel contesto dello story-telling mantengono comunque una grande attenzione per il loro radicamento negli interstizi fra la dimensione performativa e quella della realtà, storica o quotidiana: basti pensare a Diego Tonus, il cui intento era quello di mescolare alla folla alcuni sosia delle persone legate alla strage di “Charlie Hebdo”; o alla costruzione live dell’azione sonora di Robert B. Lisek, accompagnata dai movimenti di due performer.

Ma qui si possono richiamare anche i lavori presentati dagli ospiti che hanno accompagnato ciascuna giornata di Live Works: l’ipnotico Turning di Alessandro Sciarroni, che concretizza a detta del coreografo un nuovo orizzonte per la sua ricerca, null’altro è se non la rotazione del performer-danzatore (lo stesso Sciarroni) sul proprio asse. Niente di più semplice. Ma l’azione, nella sua purezza performativa ed esattezza (a-)significante, sprigiona una poesia e un senso di grande spessore: la danza diventa una pratica del corpo che chiama a sé esplicitamente la fisica e la psicologia, le scienze naturali e le arti della visione; il movimento, allo stesso tempo plasticissimo e astratto, non ha alcun senso se non in se stesso, e per questo apre a moltissimi altri percorsi di fruizione, che siano a base interpretativo-speculativa, o solo contemplativa, o altro ancora.
L’apertura e il minimalismo dei progetti di Sciarroni danno vita a un’opera in cui il processo è il prodotto stesso, come si può leggere nel corpo dell’interprete, man mano che ruota su se stesso e nello spazio, mentre muta piano, si affatica lentamente, si trasforma irrimediabilmente.
Così anche nel singolare 1000 di Jérôme Bel, dove i numerosi performer contano in coro da 1 fino al numero che dà il titolo al lavoro: anche qui il processo è il prodotto, la performance è il percorso da fare insieme nella sua creazione e nella sua fruizione, l’oggetto d’arte è la trasformazione graduale e sensibile dei suoi partecipanti.
Il senso della performance (teatrale, artistica, rituale, quotidiana, eccetera) è che cambia chi la fa, come anticipava decenni or sono Schechner. Più in dettaglio, sia chi la agisce che chi la guarda. In effetti, al di qua e al di là del limite arbitrario e tendenzioso dello strumento-parola – scelto come tema in questo articolo per ricorrenza, ma non certo con mire di esaustività –, forse è proprio questo il punto.

UN PASSO INDIETRO: LA PERFORMANCE NELLA (NOSTRA) STORIA
Ci sono epoche in cui i diversi campi e linguaggi dell’arte sembrano avvicinarsi, approssimarsi, fino quasi a fondersi o almeno a confondersi: dove la musica diventa immagine, l’azione si fa plastica e suono, la figura si scioglie in mille rivoli di linguaggio e di senso. Lì, artisti di diversa provenienza, formazione, esperienza si trovano spesso a lavorare gomito a gomito. È stata la stagione dell’avanguardia storica − pensando ad esempio al Cubismo, al Futurismo, alla Russia o alla Germania del primo Novecento, fino a Dada − e quella della seconda avanguardia (Fluxus e gli happening).
Non è un caso, forse, che sia proprio nei territori della performatività, dell’arte dal vivo, che ogni volta sembrino riunirsi artisti, visioni e linguaggi. E che la spinta che li conduce a quel punto di condivisione si possa presumibilmente considerare, fra molte altre, quella della ricerca di un rinnovamento del senso e della funzione dell’arte che predilige la qualità del processo creativo, da un lato, e che, dall’altro, sperimenta inedite modalità di relazione con il proprio pubblico.
Si potrebbe dire, alla fine, che quei momenti apicali in cui artisti e arti di diversa natura si incontrano nei territori della performance siano provocati e auspicati da ragioni profondamente (anche se non sempre letteralmente) politiche: avvicinare in modo diverso chi l’arte la fa e chi la fruisce, produttore, spettatore e opera − basti pensare, di nuovo, al senso di movimenti come Dada o Fluxus.
Di questi tempi − complice senza dubbio la new wave di internet, che ci abitua a forme di fruizione diverse, immediate, interattive e partecipate −, sembra che le diverse arti tornino a guardarsi più da vicino, quasi a toccarsi, a collaborare e intrecciarsi. E, di nuovo, il campo della performance dal vivo sembra vivere un nuovo momento di trasversale attenzione. Forse proprio perché − in teatro, nell’arte, nella musica, o altrove − la performance sembra offrire la possibilità di cambiare chi vi partecipa, cioè chi la interpreta, attuandola, e chi la guarda, facendola.

Roberta Ferraresi

foto e video: B-Fies
Alessandro Sala: GDSF Gregory Dapra + Stefano Faoro; Simon Asencio; Styrmir Örn Guðmundsson; Justin Randolph Thompson; Roberto Fassone, Vanja Smiljanic
Gianluca Panareo: Robert B. Lisek; Jazra Khaleed, Timos Alexandropoulos e Antonis Kalagkatis; Diego Tonus

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