Caina, la passione nera

Recensione a Caina – di Davide Morganti, regia di Stefano Amatucci

foto di Laura Eboli

Creare magia in meno di dieci metri di profondità. E altrettanto di larghezza. Seducendo occhio, orecchio, e soprattutto anima. A teatro si può. Certo, quando gli attori (in senso lato) ne sono in grado. Se sono capaci di intrappolare lo spettatore in poltrona, di ipnotizzarlo e per il tempo di una messinscena farlo passare da uno stato d’animo a un altro, da una dimensione umorale a un’altra.

Di Caina, di Davide Morganti, diretto da Stefano Amatucci, si potrebbe dire che ha bisogno degli ultimi colpi di scalpello. Potrebbe completarsi un capolavoro. O si può dire che il tessuto narrativo, dipanato mediante il dialogico, l’impersonale, l’immaginifico e il visuale, ha nelle maglie qualche strappo. Sarebbe a dire come delle macchioline scure su un piano di blu intenso. Appena percettibili. Rese pressoché invisibili da tutta la lucentezza del resto. Su tutto la prova da dieci in pagella degli attori Luisa Amatucci e Gabriele Saurio. Per lui dieci più, se non altro perché evita alcune pose televisive in cui la collega talvolta incorre (probabilmente per abitudine). Voti alti per l’impianto audiovisivo: giochi di trasparenze e plasticità nella struttura scenografica. Un telo in nylon divide il palcoscenico (quasi fosse un sipario trasparente calato a metà scena) con tanto di parure di quinte dello stesso materiale. Trasparenze. Confine irrisorio realtà-finzione. Ma ciò a cui si assiste è finto, non falso. Di Caina, in giro, se ne vedono circolare. Di pensieri simili a quelli che l’ossessionano se ne sente il vociare. Di storie verosimiglianti, si viene a sapere o se ne legge.

foto di Laura Eboli

Caina è una serpe alla quale la vita non ha mozzato la testa in tempo. Con un passato da killer camorrista e un presente da reclutatrice di… cadaveri. Corpi senza vita di migranti che il mare napoletano rigurgita sulla battigia. Ci guadagna 15 euro lorde per ognuno, per farli sparire. Opera nella zona del litorale più redditizia, e i suoi concorrenti sono degli extracomunitari “abusivi”, senza licenza della malavita campana. Vogliono farla fuori e rubarle il regno. È in un agguato tesole contro che conosce Nahiri, un tunisino, che fa suo “prigioniero”. Il rapporto vittima-carnefice instaurato tra i due è nocciolo della meccanica dello spettacolo. Pretesto per veicolare pensieri e umori dei protagonisti mediante il botta e risposta; contrapporre concettualità universali e creare contraddittorio: xenofobia e tolleranza; razzismo e solidarietà; cinismo e comprensione. Vomitando i luoghi comuni amplificati e posti a decalogo dai media che individuano, spalmando unguenti sull’opinione pubblica, nuovi nemici da mettere a bersaglio. E Caina, che in attesa dei “tesori” della marea, si intrattiene con una piccola tv che trasmette reality e talk show alla De Filippi, è pianta matura di questi semi germinati. Semi dell’odio. La Amatucci la incarna facendone trasparire la bile, la passionalità nera, la consunzione nervosa d’una donna battuta dalla vita. Diventa perfettamente personaggio serbandosi vera. Insomma, una prova superba dell’attrice, se non fosse per qualche sbavatura da “sceneggiato”. E Nahiri, Gabriele Saurio, rappresenta l’alter ego del veleno iniettato dal razzismo. Rappresenta il feticcio di ciò che si bersaglia. La verità contro il pregiudizio. La verità che si ritorce contro il male, divenendo male maggiore. Nahiri è per Caina ciò che odia e (nascondendolo anche a se stessa) ama, perché dentro quel corpo da camerata c’è una donna, una donna capace anche di innamorarsi. Perché il sentimento unisce e l’idiozia divide, perché si ama ciò che non si è, perché siamo animali e da tali ci annusiamo, ci scrutiamo, ci desideriamo carnalmente.

E la storia si dipana tra ombre e chiari scenici, proiezioni sulla struttura di nylon da ipnosi catartica (con motivo ricorrente l’immagine di una luna che diventa molto altro), surrealismo e aderenza al vero, evocato e visto, parola e immagine, suono e respiro. Da limare, come detto, e curare l’intrecciarsi delle scene (soprattutto nel finale) quando sembrano azzuffarsi per dimostrarsi compiute. Un lavoro di spessore. Emotivo, estetico, registico, interpretativo.

Visto al festival Benevento Città Spettacolo

Emilio Nigro

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