La rivincita: una ruvida tragedia della normalità per il Teatro Minimo

Recensione a La rivincita – di Teatro Minimo

rivincitaDue muretti dividono una terra malata dal resto del mondo. Voltare le spalle e andarsene è facile, non rassegnarsi e restare molto più difficile. Le due pareti, unici elementi scenografici, fanno da sfondo a una tragedia dei giorni nostri, scritta da Michele Santeramo e portata in scena sul palco del Valle Occupato dal 9 al 20 gennaio in prima nazionale. Una tenitura lunga, due settimane di repliche per il nuovo lavoro di Teatro Minimo, La rivincita, reale, schietto, ruvido, secco nel linguaggio e asciutto nella struttura.
Si incontrano sul proscenio, che assume di volta in volta i contorni di una cucina, di un ospedale, di un bar, di un campo che ingoia veleni e non produce frutti. Sono uomini e donne di un Sud Italia segnato dalla povertà, dalla disoccupazione, dallo strozzinaggio. Sono due fratelli, uno sempre in bolletta, sterile per gli sversamenti, pronto a vendersi la casa per una costosa cura di fertilità, e uno più scaltro, prodigo di espedienti lavorativi e liquido seminale. Sono due mogli, una tenace, ossessionata dal desiderio di maternità, e una fragile, madre due volte e schiava dei gratta e vinci. Sono un impiegato comunale campione di intrallazzi, un bancario, un usuraio, un infermiere. Sono uomini e donne della provincia, che si vedono sottratti uno a uno, e cercano di riconquistare i bisogni primari: mangiare, lavorare, procreare.
La storia si rivela grazie a un gioco di entrate e uscite rapide, a un alternarsi di dialoghi ossuti, macchiati di un’ironia amara e contaminati dall’inflessione barese, che si insinua nelle pieghe di una lingua italiana scarna, essenziale, capace di rivelare quello che le scene non fanno vedere.
Non è necessario portarla sul palco, quella terra gravida di rifiuti, sferzata dal vento e indurita dal gelo. Si possono immaginare un ventre femminile arido, che abortisce sogni e figli, una tavola dove si consumano sempre gli stessi pasti, alte pale eoliche che non producono energia ma alimentano un business e quello squallido capanno dove s’incontrano la moglie di Vincenzo, marito infecondo, e il cognato fertile, non per tradire ma per compiere un atto d’amore. Uno spettacolo che trova forza e ritmo nella ripetitività delle scene e delle battute, nell’umanità e nella verità dei personaggi principali (gli altri, invece, rischiano di tramutarsi in macchiette). Una drammaturgia contemporanea – riadattata da una sceneggiatura cinematografica – che ci mette di fronte alle miserie economiche, ambientali, sanitarie, lavorative, che solcano il nostro paese; che ci parla di legami talmente stretti da diventare corrosivi, di una normalità negata, inseguita e infine riconquistata. Due muretti dividono la propria casa dal resto del mondo. Scavalcarli e andarsene è una possibilità, affondare i piedi nel terreno, sprofondare per poi risalire, una rivincita.

Visto al Teatro Valle Occupato, Roma

Rossella Porcheddu

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