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Socrate il sopravvissuto

Recensione a Socrate il sopravvissuto / come le foglie di Anagoor

Mai come oggi c’è bisogno di parlare di istruzione, formazione, educazione. E mai come oggi il tema è tanto chiacchierato quanto eluso nelle piazze istituzionali e di informazione, nel confronto pubblico. Singolare che sia proprio il teatro a rilanciare l’argomento: uno dei mezzi più antichi e (presunti) sorpassati al mondo torna ancora una volta a farsi carico di questioni calde e delicate della società civile. È il tema che scorre sotterraneo dietro la nouvelle vague europea del cosiddetto “audience development”, è la croce e delizia del boom sempre in crescita dell’offerta laboratoriale.
Ma singolare è anche trovare il tema in uno spettacolo della ricerca, in quell’area che si voleva (o si voleva definire) senza o almeno dopo i maestri.
Singolare anche che la questione arrivi da Anagoor, con Socrate il sopravvissuto, ultimo passaggio di un percorso di indagine nella cultura occidentale del nostro tempo che ha affondato solidamente le radici nella storia dell’arte moderna (da Tempesta in poi), che ha sempre guardato con inquieto interesse alla cultura classica e che è passato infine per la necessità di fare i conti con il male assoluto del primo Novecento (da Lingua Imperii). Come se questo itinerario dagli albori del progetto della modernità, di cui l’arte rinascimentale è straziante reperto e specchio, al suo disgregamento nei massacri del XX secolo – implicito forse alle origini di quel progetto stesso – si trovasse ora a un passaggio obbligato e chiave: quello della formazione, della scuola, del luogo in cui continuamente si crea e si ricrea la nostra cultura come storia, memoria e come progetto di futuro.

Socrate è un maestro dell’antichità, Andrea Marescalchi un professore di liceo di oggi. L’uno raccontato dal Fedone di Platone, l’altro da Antonio Scurati nel romanzo Il sopravvissuto (ma il testo si avvale anche di ulteriori innesti drammaturgici). Insegnanti entrambi, alle prese con la complessità del ruolo educativo, con le vie sempre diverse e impervie dell’apprendimento, con il confronto mai scontato con schiere sempre nuove di allievi: le domande, le ingenuità, i desideri, la noia e la voglia di conoscere.
Alla sovrapposizione – mai completa – fra i due si arriva molto gradualmente in Socrate il sopravvissuto. Nel percorso narrativo la temporalità convenzionale cede il passo alle esigenze di coerenza drammaturgica: la storia, la vicenda, la “trama” è importante e nitida, ma in questo approccio i nessi di senso fra le scene arrivano a risplendere più delle azioni stesse. L’autonomia della singola scena/azione così è virata in una composizione dal crescendo ritmico ineccepibile, che si nutre di diversi linguaggi per traghettare la – a volte appassionata, altre frustrata – routine didattica di un professore di scuola superiore alla vicenda di Socrate. Quest’ultima è presente solo in video, proiettata sul fondo, dove interpreti con tanto di tuniche e splendide maschere mimano l’ultimo atto della vita del filosofo. Mentre la prima è performata in carne e ossa, con Marco Menegoni nel ruolo del maestro insieme a una nutrita schiera di allievi che ne accompagnano il racconto.

foto Andrea Macchia

foto Andrea Macchia

All’inizio c’è solo la classe di liceo e gli studenti in aula, il professore di spalle che cerca di dare un senso a una trasmissione di sapere sempre abnorme per chiunque in tempi comunque troppo stretti. Si inizia dalla fine del percorso formativo. Da maggio, in quinta, a poche settimane dall’epilogo dell’esame di maturità. E si inizia (lo spettacolo) e si finisce (le scuole superiori) davvero male: perché da programma ministeriale è qui, nella primavera e nella vita adulta che stanno per sbocciare, che a scuola si situano le lezioni sull’epilogo genocida del Novecento, dove non si può arrivare in profondità a rendere giustizia storica dei milioni di vittime di guerre, violenze, stragi. Ed è per questo che uno studente, Vitaliano Caccia, protesta: non si può chiudere l’intero percorso formativo di un giovane sul massacro senza appello né speranza. E allora, che fare? Niente più di una tesina per l’esame di maturità è la risposta consapevolmente insufficiente ma obbligata del professore.
Socrate e Marescalchi infatti sono sì entrambi insegnanti, ma segnati da un destino diverso. Il primo è condannato al suicidio dalla città, il secondo alla sopravvivenza proprio da quello studente inquieto: la sua risposta al quesito non sarà la tesina suggerita, ma l’eccidio dell’intera commissione durante l’esame di maturità, ad eccezione del professor Marescalchi. Socrate, il sopravvissuto.

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foto Giulio Favotto

Nucleo nevralgico dell’intero spettacolo sia dal punto di vista del linguaggio scenico che da quello narrativo e concettuale è il momento in cui i due percorsi si incontrano, dopo diverse azioni ambientate in classe – fra cui alcune di grande suggestione visiva – e alcuni spezzoni video proiettati.
Socrate sta per morire, Marescalchi sta per fare lezione su questo. Qui, storia, presente, immaginazione, teatro, si fondono, insieme ai diversi piani della rappresentazione. A un certo punto, il discorso di Socrate viene pronunciato dal professore, che comincia a ripetere dal vivo mimica e gesti delle figure proiettate in video sopra di lui. La lezione che il filosofo greco dà al suo allievo Alcibiade diventa quella che il professore di liceo impartisce alla classe – e a noi spettatori. Socrate, Andrea Marescalchi, gli insegnanti di ogni tempo si sovrappongono in un processo di metamorfosi o, meglio, di anamorfosi del mito e della storia nel nostro presente personale, nell’esperienza di tutti noi. “Mi commuovo sempre quando recito la morte di Socrate”, dice il professore di liceo (o forse l’attore che lo interpreta?).

Si parla di utopie di cambiamento in tutta la loro ingenuità, dei limiti e delle virtù della vita concreta rispetto a idee e ideali. Si discute, entrando nello specifico, soprattutto di giustizia, che ha a che fare con chi la deve amministrare, rispettare e subire, cioè con la visione particolare di se stessi e quella degli altri: il punto è la radicale diversità, incolmabile e che però è indispensabile provare a attraversare. L’unico modo di conoscere se stessi è guardarsi specchiati negli occhi dell’altro, suggerisce Socrate-Marescalchi. Non regge l’idea populista di uguaglianza e giustizia, ciò che è giusto per alcuni può non esserlo per altri; ma nemmeno l’individualismo e relativismo assoluto, qui rappresentato dall’estremo dello slogan “a ciascuno il suo”, impresso sui cancelli di Buchenwald. “Empatia” è una parola che si sente ripetere spesso ultimamente in teatro, dal discorso di Declan Donnellan per il conferimento del Leone d’Oro alla Biennale 2016 in poi (leggi l’articolo), per una serie di artisti importanti e diversi che si trovano a riflettere oggi sul teatro come unico o ultimo strumento di incontro e confronto fra le diversità, in tempi sempre più accesi di estremismi e chiusure.
Il discorso verte insomma su un tema quanto mai delicato e caldissimo: l’inconsistenza statutaria delle leggi (presunte) universali e la necessità di confronto con l’altro, l’impossibilità di trovare una soluzione e il dovere etico di sempre cercarla. E si parla dunque infine di apprendimento come ricerca inesausta dentro e al di fuori di sé, come progetto autonomo e condiviso di crescita permanente e totale: “l’unica cosa che i miei allievi possono fare per me è badare a loro stessi”, è per esempio una delle frasi che riecheggia fra l’una e l’altra storia, fra passato e presente e futuro, mentre discorsi e domande, gesti e sguardi di Socrate e di Marescalchi diventano quelli di tutti i maestri di questi ultimi 2500 anni.
Il tema è anche quello del fallimento dei maestri, della statutaria insufficienza dell’opera formativa, e allo stesso tempo della rivalsa implicita nel gesto stesso di continuare a provare a insegnare, di cercare di trasferire un’eredità. Un’eredità però che non viene proposta come verità statica da imparare, ma che consiste in fondo in una pratica sicura e incertissima su cui fare esercizio, rispetto a cui trasmettere fiducia alle generazioni future: una ricerca personale della giustizia che attraversa i secoli e le vite, il cui senso profondo sta proprio nel delicato equilibrio fra la forza del proprio senso critico e la possibilità sempre aperta di rivedere e ridiscutere le proprie posizioni di volta in volta con se stessi e con gli altri.

foto Andrea Macchia

foto Andrea Macchia

Può sembrare retorico, forse didattico: il tema, l’accostamento narrativo, il tipo di trattamento scenico a volte illustrativo (tanto che la compagnia stessa parla di “tableaux vivants”). Ma l’organismo scenico – è certo più che uno spettacolo, più che un dispositivo – dimostra in questo senso una coerenza micidiale. E forse sì porta o riporta anche lo spettatore un po’ a scuola: alcuni compagni attenti e altri distratti in scena come in platea, il professore di spalle che racconta progetti e tragedie fra Otto e Novecento. E poi interpreta – per noi e per loro – la morte di Socrate, dischiudendo la narrazione teatrale a riflessioni che ne travalicano i limiti (estetici, temporali, concettuali). Emozione e straniamento, distanza e partecipazione, verità e finzione diventano strati inestricabili di una fruizione semplicissima, eppure costruita in una grande complessità di livelli.

La pedagogia è il tema e anche paradossalmente il linguaggio di questo spettacolo. Il suo primo merito si trova nei temi scottanti, importanti, tremendi, assolutamente necessari che Anagoor ha la forza di trattare. Ma oltre a questo forse il nodo alla base è anche un altro: quello di una ricerca nel teatro che da anni si svolge fra lingua e materia, concetto e azione, dove gli argomenti sono sostenuti dal linguaggio che li dice, dove la lingua scenica trae nutrimento e stimolo continuo dai temi che si trova ad affrontare. Una ricerca che con Socrate il sopravvissuto sembra essere arrivata a un punto di equilibrio importante, coerente con il percorso del gruppo ma per certi versi nuovo, inaspettato e travolgente dentro e fuori il teatro.

Visto al Teatro Astra, Vicenza

Roberta Ferraresi