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Spiando Eleonora Duse da un armadio a Pittsburgh

Ritratto di Eleonora Duse - foto di Mario Nunes Vais, Venezia, Fondazione Giorgio Cini

Recensione a Eleonora. Ultima notte a Pittsburgh – di Maurizio Scaparro con Anna Maria Guarnieri

Intimo, privato, immacolato: una camera d’albergo ospita le ultime parole di Eleonora Duse, che echeggiano in una scenografia spoglia, fatta di candide pareti e umili nobili, al confine tra stanze reali e messe in scena teatrali. Una sottile linea di demarcazione percorre questa ambiguità per tutta la durata di Eleonora. Ultima notte a Pittsburgh, diretto da Maurizio Scaparro per le parole di Ghigo de Chiara. Una capacità di analisi interiore sottile, così come i contenuti veicolati in un testo che riesce a non inciampare in slanci metateatrali, mantenendosi ancorato alla messa a nudo di una delle attrici che maggiormente ha segnato la storia del teatro italiano e non, tracciando un profondo solco, anche nella sua stessa anima. L’ineccepibile interpretazione di Anna Maria Guarnieri trasporta lo spettatore in un viaggio che non si limita a restituire la biografia dell’artista, ma che va a svelare i nodi che ne hanno determinato i tratti peculiari.

Scaparro sceglie una linea registica semplice, tutta giocata sulla capacità della Guarnieri di riempire con voce spezzata, a tratti quasi sussurrata, gli spazi della scena, facendo risuonare con le sue parole quel candido mobilio e le vesti conservate nell’armadio. Centrale sulla scena, una poltrona ospita una Duse avvolta in drappi leggeri e leggiadri, che come durante una messa in scena rievoca il suo passato, i suoi dolori, il suo successo e la sua vita. Un monologo il cui registro si perde nelle sfumature di una personalità che sembra non abbandonare mai il palcoscenico, nemmeno nel momento della rivelazione delle più intime memorie. Il racconto si snoda sinuoso – senza un apparente ordine temporale-cronologico – tra eventi e luoghi che hanno segnato la biografia artistica e personale della protagonista: dall’incontro con D’Annunzio e Arrigo Boito, ai cieli di Napoli e alle colline di Asolo, sino alle grandi città come Parigi e New York, ma anche la guerra, la fame e la paura. Lontano dall’essere un mero riepilogo di un’esistenza dedicata alla recitazione, la personalità della Duse si viene delineando lentamente, grazie a un flusso di parole in cui si confondono ricordi di vita passata e di scene calcate. Leit motiv di questo flusso di coscienza il dolore e la solitudine: «È la sofferenza che forgia l’arte», afferma a un certo punto la protagonista. Anna Maria Guarnieri dimostra un’abilità eccezionale nel dare vita a un movimento che percorre l’intera rappresentazione, lasciando che il pubblico trovi degli appigli che lo aiutino a scivolare nelle pieghe di una personalità complessa e sfaccettata, chiamata però a indossare una maschera che sembra non poter più abbandonare. Una frattura, quella della Duse, che la porta a vivere la vita come uno spettacolo e gli spettacoli come la propria vita. Un’esistenza giocata sul cambio di scena, passando da un personaggio all’altro: ed ecco che le parole di Nora dell’ibseniano Casa di bambola e della shakespeariana Giulietta si insinuano nei ricordi della morte del padre e della madre, quasi a proteggere e nascondere il reale sentimento che scuote Eleonora. A questa dinamica che tende a confondere palco e realtà, ben si adatta quel rivolgersi al pubblico in sala che di tanto in tanto rompe una quarta parete che per Eleonora Duse sembra essersi ispessita nel corso degli anni: mente e corpo della protagonista si trovano divisi tra la realtà della vita e quella della scena, innescando interessanti meccanismi di protezione psicologica. Si potrebbe parlare di una schizofrenia intermittente, se non fosse per la tenerezza e l’amarezza che la Guarnieri riesce a infondere in ogni sillaba.

Eleonora. Ultima notte a Pittsburgh si rivela quindi un lavoro coerente e delicato in grado di intercettare il proprio pubblico senza incorrere in slanci mitizzanti dell’attrice, creando anzi delle piccole fratture in un immaginario collettivo ormai radicato, e capaci di aprire ad interrogativi che coinvolgono la situazione del teatro italiano contemporaneo. Il lavoro non risparmia infatti di concedersi pungenti frasi verso un sistema teatrale polveroso, affidandosi alla Duse/Guarnieri per lanciare una piccola invettiva, che forse come tante altre affermazioni si perde tra le sinuosità del testo:«Per salvare il teatro gli attori dovrebbero morire. Ma anche gli impresari».

Visto alla Multisala MPX, Padova

Giulia Tirell