babilonia teatri the end

Genealogie da B.Motion: The end di Babilonia Teatri

foto di Adriano Boscato

Negli ultimi anni festival e rassegne sono invasi da una forma abbastanza inedita di creazione teatrale, quella dello “studio”: vuoi per via della struttura di alcuni premi (Scenario sceglie i propri vincitori fra progetti di venti minuti che saranno poi sviluppati), vuoi per le trasformazioni dei limiti della soglia di attenzione o per altre dovute a nuovi modi di fruizione, sempre sotto l’egida dei modelli assorbiti dai nuovi mezzi di comunicazione. Spesso il pubblico si trova dunque di fronte a formati brevi, sempre in divenire, quando addirittura non a veri e propri materiali di lavoro ancora allo stadio embrionale. In questo modo le compagnie possono sottoporre pubblicamente le proprie idee, sperimentare e testare le reazioni degli spettatori, in vista dello spettacolo definitivo.

“Genealogie” è un percorso che Il Tamburo di Kattrin intende offrire agli spettatori di B.Motion 2011: molti degli spettacoli e degli artisti in programma sono già stati presenti alle passate edizioni del Festival o hanno avuto, durante l’anno, la possibilità di lavorare a Bassano alle nuove creazioni. In questa sezione vengono ricostruiti i passaggi, fra presentazioni e diversi studi, che dalle prime fasi di lavoro hanno portato alla realizzazione dello spettacolo, andando a scoprire come i diversi artisti utilizzano questa possibilità e quanto essa diventi un’occasione di confronto capace di incidere sul processo creativo e sugli esiti del lavoro.

Babilonia Teatri è ormai una presenza fissa a B.Motion. Se l’anno scorso uno studio di The End aveva chiuso il Festival, è la versione definitiva dello spettacolo a inaugurare l’edizione 2011, come a segnare la continuità del lavoro che OperaEstate dedica agli artisti in programma. Lo spettacolo, ultima creazione della compagnia veronese, si concentra sulla tematica della morte e sulle modalità in cui è affrontata nella società contemporanea.

Prologo: This Is the End My Only Friend the End
Progetto Speciale per Santarcangelo 40. Festival Internazionale del Teatro in Piazza
Santarcangelo di Romagna, 9-11 luglio 2010

È d’obbligo introdurre la nascita e lo sviluppo di The End attraverso la sua prima tappa di avvicinamento, un progetto speciale concepito per il Festival di Santarcangelo 2010. Questa azione site-specific si può considerare una sorta di “prologo” allo spettacolo , in quanto segna un primo approccio pubblico del gruppo al tema della morte; molti elementi individuati durante la preparazione del lavoro persistono, seppure come tracce, nel prodotto finito, mentre altri sono stati abbandonati.
Questo progetto, si legge nella presentazione, «è prima di tutto l’incontro di Babilonia Teatri con dieci persone, dieci teste, dieci corpi, per aprire nuove strade e lasciarsi spostare da nuove energie».Gli attori sono stati infatti selezionati tramite un bando che la compagnia ha lanciato su YouTube a febbraio 2010, cercando 10 persone per creare un “blob” teatrale per Santarcangelo 40. Si chiedeva di inviare, entro il 15 marzo, una video-risposta al messaggio, sempre tramite il celebre canale video. Al bando arrivarono centinaia di risposte – «un blob di voci, nomi, immagini, desideri» – fra cui i Babilonia selezionarono i 10 che avrebbero dato vita al progetto a Santarcangelo, dopo dieci giorni di residenza-laboratorio.

L’azione ha avuto luogo per tre giorni, dal 9 all’11 luglio, alle Corderie, segnando una consistente apertura per una compagnia il cui lavoro è solitamente affidato a due o tre performer. In fase iniziale sono tutti fermi al muro, nel grande spazio pieno di colonne che ospita l’azione; a un fischio, si gettano di foga a pulire il pavimento. Tutti e dieci i protagonisti corrono avanti e indietro, impegnati poi a pulire freneticamente il grande spazio in cui l’azione ha luogo, mentre prende vita quella forma di blob teatrale – un affastellarsi e rincorrersi di parole – a cui ci ha abituato la compagnia veronese. Ma quel blob di megafoni, che ormai è la cifra con cui i Babilonia si sono fatti conoscere sui palcoscenici d’Italia e non solo, è qui esploso in una polifonia di visioni e di voci, con una identità e una provenienza quasi riconoscibili: è un montaggio di pensieri intorno alla morte, citazioni che si sovrappongono, sguardi che tremano. E ancora tutti saltano, corrono, smuovono il buio con movimenti frenetici. Carcasse appese al soffitto incorniciano uno dei pochi momenti veramente corali: una coreografia su Ciao amore ciao di Tenco che prende le forme di un grande hully gully.

This Is the End My Only Friend the End «è poi anche la canzone dei Doors»: citata nel lancio del bando nel video-messaggio di Babilonia Teatri, oggi chiude nel finale lo spettacolo The end.

Leggi l’articolo di Camilla Toso…

 

1° passaggio: The End – fase di lavoro 1
Anteprima per il festival B.Motion
Bassano del Grappa, 4 settembre 2010

Il nuovo lavoro di Babilonia Teatri vede un’ulteriore presentazione al pubblico in chiusura di B.Motion nel 2010. Abbandonata la molteplicità del gruppo dei dieci performer di Santarcangelo, in scena si trovano solo Enrico Castellani e Ilaria Dalle Donne. Anche loro corrono da un lato all’altro della scena; dietro, un grande crocefisso, mentre le carcasse appese hanno lasciato spazio, ai due lati della croce, a una testa di bue e una testa d’asino, penzolanti da un gancio da macellaio. Sfiniti, gli attori si accasciano sul pavimento, o contro un muro, dando vita a un soundscape di respiri e affanni.
Qui, se alcuni elementi già presenti al primo step di Santarcangelo vengono recuperati e sviluppati (dalla corsa alla presenza dell’animale), prendono vita alcuni semi testuali che si ritroveranno poi nei nuclei drammaturgici dello spettacolo definitivo, fra cui il pezzo “del boia” (dedicato all’eutanasia), già presente anche a Santarcangelo.

 

foto di Adriano Boscato

Lo spettacolo: The End
debutto: Teatro CRT – 25 gennaio 2011
visto a B.Motion – 29 agosto 2011

Dei passaggi precedenti, appena passati in rassegna, rimangono alcuni elementi-chiave, che vanno a caratterizzare lo spettacolo conclusivo: oltre l’impianto concettuale, di grande impatto, resta il colpo di pistola (presente anche nelle altre due tappe), le teste del bue e l’asinello ad incorniciare il crocefisso a centro scena, le musiche (Doors in chiusura e l’hully gully su Ciao amore ciao); così come alcuni nuclei testuali, che vengono incastonati in un più ampio affondo per frammenti intorno all’idea della morte.

Ma gli attori in scena diminuiscono ulteriormente: è Valeria Raimondi, sola, a interpretare tutto lo spettacolo. Niente corse, niente salti: l’attrice è quasi sempre immobile, non fosse per alcuni, pochissimi, gesti netti e decisi, di grande pregnanza scenica (dallo sparo all’elevazione del crocefisso). Fra il rumore delle paillettes d’argento del suo abito, capaci di riflettersi tutto intorno e di catalizzare ancora di più l’attenzione sulla sua figura, arriva inferocita a centro scena: all’inizio è una gran fatica per gli occhi, ma poi la luce con le sue rifrazioni e la litania-rap dal taglio precisissimo fanno passare oltre la percezione, per cui non è azzardato parlare quasi di ipnosi. Con The End si riesce a fare luce su un tratto dei lavori di Babilonia, che forse può schiudere anche prospettive sugli eventuali sviluppi del loro lavoro: il ritmo circolare delle parole, una phoné tagliente portata fino all’estremo, con un uso sapiente delle luci e il volto che non tradisce alcuno sforzo, intrappolano l’attenzione e possono trasformare la percezione in trance, in un unione radicale – più pre-concettuale che emotiva – fra scena e platea. Ed è probabilmente la presenza solitaria di Valeria, la monumentalità che trasuda dalla precisione dei suoi gesti, combinata con una (fortuita) visione particolarmente ravvicinata a far emergere questa ulteriore chiave di lettura sul lavoro dei Babilonia, sul dispositivo drammaturgico che stanno man mano affilando per la loro scena.

Le immagini sono poche, sempre più rarefatte, ma forse anche per questo assumono un certo impatto scenico, a segnare quel cortocircuito fra morte e vita che ha preso piede nella creazione di questo spettacolo. L’innesco, infatti, era sull’idea di morte e sulla sua rimozione ai giorni nostri. Questo è rimasto: dal discorso sull’eutanasia ai processi di invecchiamento, dalla ricerca dell’eterna giovinezza alla demistificazione o rimistificazione del lutto. Ma, in tensione magnetica rispetto a quella di partenza, vi si è affiancata un’altra dimensione, quella della nascita e della vita, di cui è oggi intessuto l’intero spettacolo. Un caso su tutti: non quarti di maiale a penzoloni, ma il bue e l’asinello, a tracciare una lettura sempre necessariamente doppia e complementare che esplode nel finale, quando l’attrice, sulle note di The End dei Doors, rientra in scena per qualche momento tenendo in braccio il piccolo Ettore, di cui è diventata madre da poco.

Roberta Ferraresi

Babilonia affronta la fine

Recensione a The endBabilonia Teatri

“Non possiamo abituarci a crepare
/ neppure un asino che da noi si racconta l’ha potuto/ 
siamo gente paziente
/ non possiamo abituarci a morire/ 
noi vogliamo vivere/ 
perché la vita ci piace
/ abbiamo il gusto della vita/ 
con le mani che hanno tirato su tutto.”

Scriveva queste parole il poeta recentemente scomparso Luigi Di Ruscio nel suo Non possiamo abituarci a morire. Nello stesso giorno in cui si spegneva a Oslo, il gruppo veronese Babilonia Teatri andava in scena a Venezia con l’ultimo lavoro The end. Coincidenze della vita, o della morte. Proprio quest’ultimo è infatti il tema affrontato dall’ormai affermata compagnia veneta che per la prima volta vede sola sulla scena una sempre impeccabile Valeria Raimondi che, senza sosta, tratta con parole dirette e crude, senza alcun ricamo, quello che nessuno di noi può evitare. Se negli altri lavori la drammaturgia scritta dalla Raimondi e da Enrico Castellani era più affine a una sorta di blob teatrale, con l’accostamento di materiali diversi, schegge impazzite che lo spettatore aveva poi il compito di assemblare, con The end l’accusa alla società e alla realtà che ci circonda è ancora più diretta, esplicita. Con una veste laminata che ricorda una corazza, l’attrice sembra una paladina medievale dei nostri tempi che senza mezzi termini prende una posizione netta, precisa: “voglio il mio boia/ voglio affittarlo/ prenotarlo/ comprarlo ora/ voglio che viaggi con me/ sempre/ fedele al mio fianco/ voglio sia scritto nero su bianco/ sono il tuo boia/ sono il tuo boia”. Proprio in questi giorni al Parlamento si sta votando per una legge che apparentemente sembra regolare l’accanimento terapeutico e il biotestamento – ma che in realtà complica ancor di più la burocrazia che regola l’azione eventuale di “staccare la spina” o interrompere le cure. Babilonia Teatri con questo ultimo lavoro è più che attuale: passa dalla paradossale ironia pungente e critica nei confronti dell’occultamento della morte e della eterna giovinezza, alla ferma posizione per cui non si vuole vivere una volta che si è “morti” per la società e la propria famiglia. Alla vecchiaia e alla malattia spetta infatti un posto di marginalità, un parcheggio in carrozzina davanti alla sala tv di un ospizio, la condivisione di un’agonia infinita con gli altri ospiti della struttura deputata dove si attende la propria fine. Il testo dei Babilonia non chiama in causa la religione, ma la evoca: alle spalle di Valeria Raimondi un Cristo in croce incombe; dopotutto il cristianesimo fa parte del nostro retroterra culturale, coabita in noi: sarà il Padreterno a decidere quando chiamare a sé il nostro corpo, non è previsto un boia personale ed è difficile pensare a lui come a una soluzione finale. Se inizialmente l’attrice sciorina un’infinità di esempi grotteschi, che potrebbero sembraresurreali – tanto sono fantasiosi o assurdi – ma che sempre di più oggi si avvicinano alla realtà, successivamente arriva a un climax dove l’ironia lascia posto alla rabbia. Si va dall’agghiacciante “chiedo un decalogo per la morte/ per la vita ho tempo/ la imparo da sola” alla mitizzazione della giovinezza perenne, alla non vecchiaia, ai genitori che non si ammalano, al campo santo dove “si riposa”. Perfino sulla terminologia si ricama per trovare parole che rendano poetica quella fine così scomoda e lontana da noi che sembra non dover arrivare mai. Ma è lì, c’è sempre stata e ci sarà sempre: “non ci si può abituare a morire” è vero; ma non ci si può neanche abituare a vivere una volta che si dipende esclusivamente da una macchina artificiale.

Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Carlotta Tringali