biennale teatro 2013

Marketplace 76: i brandelli della società contemporanea

foto di Wonge Bergmann, Ruhrtriennale 2012

foto di Wonge Bergmann, Ruhrtriennale 2012

Un anno fa, nella piazza del mercato di un piccolo paese, esplose un bombola del gas che causò la morte di 24 persone, tra cui tanti bambini.
Inizia così, con la narrazione di una tragedia, Marketplace 76, il lavoro che Jan Lauwers ha presentato al 42. Festival Internazionale del Teatro di Venezia. Al centro della scena una fontana: il vuoto che si crea dal disegno perimetrale di tavoli disposti a quadrato, una «fontana che dovrebbe donare amore, ma è arida come l’anima di un piccione morto». Attorno: molteplici stazioni teatrali per restituire una visione multifocale, cifra stilistica propria della Needcompany, riproposta in questo nuovo progetto a riprova del fatto che «nel palco non c’è un centro unico – come racconta il regista all’incontro svoltosi a Ca’ Giustinian, il giorno seguente la rappresentazione – il pubblico può scegliere cosa guardare. Non si comunica con la platea, ma con lo spettatore singolo».
Dopo Isabella’s room – lavoro del 2004 ospitato dalla precedente edizione della Biennale Teatro (2011) – la poetica della compagnia belga torna a investire lo spettatore che, se da un lato si trova sovraccaricato dal susseguirsi di informazioni, dall’altro può lasciarsi catturare dall’immaginario che Lauwers costruisce. Partendo da un fatto ambientato in un non meglio specificato paese, il regista esplora dinamiche ed eventi propri della società contemporanea, esasperandone le declinazioni fino all’esplosione psicologica degli abitanti di questo mondo.
Dalla festa di commemorazione per le vittime dell’incidente, Marketplace 76 sviluppa una serie di microstorie – concatenate e allo stesso tempo drammaturgicamente autonome – provocatorie ed eccessive, ma così plausibilmente vere da apparire pungenti: storie di reclusioni e violenze, pedofilie e stupri, omicidi e suicidi, il tutto risolto in scena dagli attori con la continua – e ironica – ricerca dell’elemento drammatico.

«Tutto finirà in una patetica bevuta».
Dal dolore intimo e personale del lutto familiare, alla voce spezzata di una mamma che ha perso la propria figlia; dall’intromissione esasperata della figura femminile conosciuta in tutto il paese, alla presenza dello spazzino – quasi un angelo (in uniforme arancione) in cui trovare riposo, tutto concorre verso la costruzione di un ritratto della piccola comunità chiusa ed egoista. La lucidità degli abitanti, tanto incapaci di trovare conforto nella propria vita quanto complici e generatori di nuovo dolore, viene continuamente messa in gioco, nascosta dall’alcolismo, come a identificare una condizione accettabile solo in uno stato di ubriachezza. E «tutto finirà in una patetica bevuta».

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Un dramma, dunque, ma colorato e vitale grazie all’energia degli attori e del regista (in scena). La copresenza di danza, musica e performatività fanno di Marketplace 76 una possibilità teatrale per fare entrare lo spettatore nel lavoro, in un clima di festa. Un’irrequietezza di composizione – così come definita dal regista – che consente uno scambio di energie sulla scena e lascia interagire tutti questi elementi in un’unica opera provocando una situazione in cui l’attore può trovare la propria libertà. «Si ha un buon teatro – dichiara Jan Lauwers – quando c’è un bravo performer che distrugge l’autorità del regista. Nell’ensemble è importante instaurare un equilibrio tra produzione e riproduzione, tra performer – attento alla produzione – e attore – macchina per la riproduzione. Scrivo sulla pelle di attori e performer e la loro pelle è per me, la pelle del mondo».

 

Visto alla 42° Biennale Teatro di Venezia

Illustrazioni di Mariagiulia Colace

 Elena Conti

Le vie del potere alla Biennale Teatro 2013

Quella del 2013 è una Biennale che può lasciare un segno. Non solo per una programmazione di ampio respiro internazionale, che ha voluto portare in Italia artisti da diversi paesi europei, alcuni difficilmente incontrabili sui palcoscenici nostrani; nemmeno soltanto per l’opportunità di trovare, nelle suggestive sale veneziane, diverse pièce bien fait, nel senso stretto del termine: dove l’attore recita, il testo comunica, la scena li accoglie entrambi, diretta da una prospettiva che si inserisce a pieno nel canone di quella che nel Novecento si è andata definendo come “regia” e che, negli ultimi anni, sembra soffrire di una qualche crisi d’identità. Altissimo livello tecnico e orientamento alla comunicazione, linee poetiche ben distinte, qualità della scena e del pensiero; ma non è solo quella di incontrare un teatro – magari un po’ mainstream, se si volesse rintracciare una qualche rigidità – in tutto e per tutto fatto ad arte, l’occasione della Biennale Teatro 2013, la quarta che vede alla direzione il catalano Àlex Rigola.

In un cartellone così denso di nomi, opere e culture potrebbe essere difficile andare a rintracciare qualche risonanza, qualche messa in condivisione o qualcosa in comune fra l’uno e l’altro artista o spettacolo. Invece, di materiale di riflessione, per provare a intuire tracce di una linea di lavoro, ce n’è parecchio: a un primo sguardo, la crisi che continua a scuotere l’Occidente – con una pressante incombenza della fine (in qualche caso dai risvolti quasi horror), l’incertezza che ci porta a chiederci “che succederà adesso?” e, non ultima, l’incommensurabilità delle macerie che abbondano alla fine di ogni spettacolo.

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In particolare, è visibile una sorta di contrappunto che ha animato i dieci giorni di programmazione di questa Biennale, dal 2 all’11 agosto: quello fra individuo e collettività. Tanti, tantissimi i monologhi, pure lunghi e scenicamente articolati, forti di testi ben stratificati: il Leone d’Argento Angélica Liddell con il suo Riccardo III, una impegnativa serata tutta dedicata all’one-man show con Wajdi Mouawad (Seuls) e Dirk Roofthooft diretto da Guy Cassier in Sunken red, i quattro pezzi dell’Accademia degli Artefatti dal progetto I, Shakespeare su drammaturgia di Tim Crouch. Sull’altro versante, grandi opere corali, il cui capofila è sicuramente Marketplace 76 di Jan Lauwers e della sua Needcompany: un ensemble di base fiamminga che riunisce artisti di differenti formazione e provenienza, mescola linguaggi e stili, componendo opere policentriche, stratificate, sincopate; ma poi anche Motus, con la sua ultima creazione che si rideclina site-specific rispetto ai luoghi che incontra, così come il Picasso di La Veronal.

Nel primo caso, quello dei monologhi, l’affondo tutto interiore, all’interno dello scarto che si divarica sempre più fra individuo e società, dimostra di concentrarsi sul sé, sui limiti del proprio corpo e pensiero, a volte addirittura sull’auto-analisi: al centro, l’espressività del performer, il pensiero del singolo, la sua solitudine e solitarietà; attorno, spesso, il nulla, se non in termini di evocazione e invocazione. In alcuni casi (Liddell e Mouawad in primis), si tratta di artisti a tutto tondo, autori-attori che danno voce a drammaturgie proprie, si scontrano con l’inconcepibile chiusura del mondo e si abbandonano a se stessi, come intrappolati nella propria mente e nel proprio palcoscenico, dando vita a pezzi magnetici, di grande suggestione e virtuosismo (oratorio, fisico, linguistico). Le opere d’assieme, invece, mirano a composizioni a più mani e a più voci; l’esito è spesso quello di una policentricità della scena e del discorso, all’interno di cui è lo spettatore a dover scegliere la prospettiva e collocare il proprio punto di vista, dunque a costruire, da sé, la storia e a definire l’ambiente in cui accade. A differenza della linea dell’autore-attore, in cui tanto il versante creativo che quello scenico sono concentrati in un’unica figura, qui la regia si fa “debole”, aperta, integrata e integrabile.

potereFuori da quello che sembra un rigurgito dell’ormai classica (e perciò forse abusata) opposizione che Umberto Eco ha tracciato fra “apocalittici e integrati”, a scavarlo per bene, questo contrappunto, per i dieci giorni di arsura lungo cui si è snodata questa Biennale Teatro, si rischia di trovare un altro filo rosso, ben più sotterraneo e dunque forse ancora più determinante: quello del rapporto con il potere. Va da sé che, a livello di linguaggio scenico, la scelta fra la centralità di un’unica autorialità e il lavoro corale si possa leggere nei termini di un discorso e di una presa di posizione sui meccanismi di potere e di governo, tanto più che la prospettiva registica è figlia proprio di quel tempo neo-capitalista che ha voluto imporre ai sistemi di produzione figure di controllo e mediazione che al giorno d’oggi sembrano, per forza di cose, venir meno o almeno trovarsi con qualche problema di crisi d’identità. Ma i lavori in programma a questa Biennale Teatro non si legano al discorso sul potere soltanto per affinità o metafora: il tema, presente in modo più o meno esplicito, sembra percorrere a tutti i livelli le trame, i dialoghi, le riflessioni e gli assoli di questo 42° Festival. È così per il lavoro dei Motus («Where is the Master?», si chiedono, assieme a Shakespeare), per i personaggi “minori” degli Artefatti, sempre tratti dall’opera del Bardo; l’attenzione e l’interrogazione di un potere occulto, comunque non interamente percepibile, torna anche nei copiosi riferimenti alle tradizioni totalitarie (su tutti, indubbiamente, il franchismo), che ritornano con la Liddell e La Veronal, ma anche con Cassiers, nel sovrannaturale di Peeping Tom e Needcompany.

Che succederà adesso? Come affrontare la crisi? È possibile ricomporre lo scarto insanabile fra individuo e società? E c’è qualcosa di superiore, umano o meno, che ci sta guidando? Sembrano queste le domande che ritornano, come eco fra scena e realtà, lungo gli spettacoli di questa Biennale. Fra incomunicabilità e frantumazione, solitudine e collettività, paura e entusiasmo, la strada sembra quella della scelta di campo, dello schieramento: da soli o insieme, se stessi o gli altri, individuo o società.
Poi ci sono lavori, come Ein Volksfeind diretto da Thomas Ostermeier a chiusura del Festival, che si assumono la responsabilità di provare a rimettere insieme le cose e, dunque, senza scegliere l’uno o l’altro versante, lavorano proprio sullo scarto, sul confine, sulla scivolosità delle zone di frontiera (leggi l’articolo). Lo stesso avviene con El polìcia de las ratas (adattamento e regia del direttore Rigola dal racconto di Roberto Bolaño, leggi l’articolo), che si concentra proprio sulla difesa della differenza rispetto alle spinte omologanti della società e, per certi versi, in El viento en un violìn di Claudio Tolcachir. Certo nemmeno qui c’è via di scampo, né possibilità di salvezza alcuna; anzi, quello che va in scena nell’ibseniano Un nemico del popolo della Schaubühne, nella densità dei dialoghi di Bolaño-Rigola, nella trama agrodolce di Tolcachir è proprio l’irriducibile impossibilità di schierarsi definitivamente dall’una o dall’altra parte, di rifugiarsi soli con se stessi o gettare il proprio specifico nel magma della collettività. Una prospettiva che può diventare una indicazione di lettura attraverso cui ripercorrere dall’inizio alla fine tutta questa Biennale numero 42: fra tutti gli altri stimoli, pure preziosissimi, fra scena e realtà, il merito più interessante di una simile traiettoria è forse quello di provare a ricomporre in se stessa (osservando con precisione i limiti dello spettacolo, rispettando con cura i confini del teatro) la dimensione etica con quella estetica, la necessità politica con il lavoro sul linguaggio scenico.

Roberta Ferraresi

Illustrazioni di Mariagiulia Colace

Un giallo teatrale di Rigola ad aprire la Biennale Teatro

Recensione a El polìcia de las ratas – adattamento e regia Àlex Rigola

Una serie di delitti di assurda crudeltà, di efferatezza inaudita arriva a sconvolgere il pacifico equilibrio della vita quotidiana di una piccola comunità. Un detective, Pepe el Tira, è incaricato delle indagini, ma non basterà risolvere il caso per far tornare tutto alla normalità, perché in questo giallo teatrale – genere raro da trovare sui nostri palcoscenici – niente è destinato a essere più come prima, dopo questa escalation di violenza e paura. Non tanto per la ferocia o il terrore che avvolgono gli omicidi che presto si scoprono essere opera di un serial killer, quanto perché, anche se nessuno vorrebbe ammetterlo, il modus operandi e le tracce che ritornano su ogni scena del crimine concretizzano sempre più un’unica possibilità e costringono i protagonisti ad approssimarsi sempre più pericolosamente a una tremenda, innominabile verità: cioè che l’autore dei delitti non sia un predatore qualunque, ma un topo, uno di loro, un membro stesso della comunità.
Sì, perché Pepe el Tira, il detective protagonista di El polìcia de las ratas – così come tutti gli altri personaggi del racconto di Roberto Bolaño adattato e diretto per il teatro da Àlex Rigola al debutto italiano in apertura della Biennale Teatro 2013 – è un topo e tutto lo spettacolo si svolge nel mondo sotterraneo dove si snodano piccole e grandi colonie di queste creature ordinate, meticolose, la cui vita e socialità sono organizzate con precisione e cura estreme. Ma l’accettabilità di un ordine socio-politico così consolidato e apparentemente perfetto, imperturbabile, dove ognuno ha un suo ruolo e niente esce dallo schema prestabilito, verrà messa in discussione e a repentaglio proprio dalla catena di omicidi che è al centro dello spettacolo.
Perché nel mondo dei topi (e forse non soltanto nel loro) ci sono due regole cristalline che sostengono l’equilibrio dell’intero apparato collettivo: primo, “ratas no matan a las ratas” (i topi non uccidono i topi) e, secondo ma non meno importante, «l’arte e la contemplazione dell’arte sono un esercizio che non ci possiamo permettere», come dice il protagonista stesso. E invece qua si parla proprio di quelle due cose che nel mondo dei topi non possono esistere: artisti e assassini. Ovvero della differenza, dell’interferenza, della diversità e della messa in crisi della cosiddetta normalità. In sottofondo, tutta l’ampiezza incommensurabile degli squarci possibili fra il soggetto e la comunità, quel gap statutariamente incolmabile che, pur lavorando a normalizzare la differenza, ne esalta invece la specificità irrimediabile.

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El polìcia de las ratas: due uomini soli in scena, in una scelta di adattamento che porta il racconto in teatro attraverso la divaricazione della prima persona narrante in un tagliente dispositivo dialogico incarnato da due straordinari attori, Joan Carreras nei panni di Pepe El Tira e Andreu Benito per gli altri personaggi. Una intensissima ora di teatro ridotto all’osso, in una irriducibile scarnificazione dei media scenici che riverbera attraverso un minimalismo sempre sul filo del rasoio, i cui imponenti vuoti sono scolpiti appositamente per accogliere la verbosità del testo, che non lascia scampo nella densa interpretazione dei due attori.
La scena è vuota (un pavimento e due sedie, più qualche sorpresa), gli eventi sono suggeriti da segni minimi – ad esempio l’omicidio è evocato da un leggero gocciolare di sangue –, i personaggi chiamati in scena da piccole modulazioni recitative: un cambiamento nel tono della voce, un rivolgere dello sguardo, una spalla che si abbassa di poco, un profilo del viso più accentuato da un taglio luci leggermente diverso. Pochi movimenti netti, un plasticismo essenziale: in questo allestimento tutto è giocato su micro-movimenti, cambi di postura al limite della percettibilità, giochi d’occhi e di sguardi, l’incidenza dell’annodarsi delle mani o della posizione dei piedi, l’inclinazione delle teste.

L’introduzione nella spirale di tensione densissima che modella questo giallo teatrale procede per gradi; si muove piano, pianissimo, un microgesto dopo l’altro, assieme al succedersi ipercalibrato delle parole, dei fatti, dei pensieri. Ma non è uno schema compositivo che si trova solo a livello di racconto, di trama: nella scelta registica di El polícia de las ratas contenuto e forma si intrecciano in un dialogo inestricabile, dando vita a un unicum che scandisce, passo dopo passo, il crescere della tensione, lo sprofondamento nella storia, il precipitare di eventi, stati d’animo, rimandi.
Un esempio è il dispositivo che si vede all’opera nell’approfondimento del catalogo delle diverse modalità recitative che Carreras e Benito esplorano sul palcoscenico, sempre riflesse e rifratte fra dimensione oggettiva e soggettiva, prima e terza persona, racconto e emozione, identificazione e straniamento: per convertire il monologo iniziale al pubblico, che presenta i personaggi e la situazione, in un dialogo fra i due attori è sufficiente girare la sedia di qualche grado, guardarsi qualche secondo negli occhi per concretizzare il cambiamento di stato; poi, l’avvicendarsi dei differenti personaggi si materializza in un ventaglio di differenti prossimità rispetto al microfono, che riescono a evocare voci lievemente, ma incisivamente, diverse; una musica sulla soglia dell’udibilità accompagna un momento di pausa, di inaspettato lirismo, slancio e apertura, mentre per sbozzare una figura estranea, infine, è sufficiente uscire di qualche passo dal centro della scena. Anche la composizione scenografica è essenziale, tanto nelle scelte cromatiche – ricorrenze di bianco e nero, con qualche piccolo intervento rosso sangue – che in quelle strutturali (una geometria di poche linee ortogonali, qualcuna necessariamente obliqua), ma proprio questa insistenza, a più livelli, su un irriducibile minimalismo contribuisce al costruirsi della densità della tensione in scena.
Spazio, immagine, interpretazione, voce: tutti elementi che concorrono al precipitare, seppure felpato, al limite del percettibile, degli eventi, verso una conclusione che, tirando le fila, invece che chiudere, apre (non solo metaforicamente) ad altri livelli e mondi: non si tratta solo di un giallo magistralmente incarnato sul palcoscenico, della metafora che unisce topi e umanità, dello scarto fra individuo e società, ma anche di una riflessione sull’arte e del suo possibile ruolo all’interno della comunità.

Topi e uomini, assassini e artisti, teatro e realtà. Normalità e differenza, ordine e interferenza. Pepe el Tira, stimato detective, è a rischio in partenza, essendo nipote della cantante kafkiana Josephine. Minaccia continuamente rievocata nello scorrere del testo, che arriva a concretizzarsi con il confronto finale con l’omicida, dove scopriremo che, forse, è proprio la differenza – dell’individuo, della singolarità, dell’arte – a garantire la solidità e la durata di un sistema ordinato. E che l’eventuale eliminazione o emarginazione dell’anomalia, più che nasconderla, risolverla o disinnescarla, ne rischia di far detonare invece la potenzialità, laddove l’interferenza si muta in contagio, insabbiando il diverso in una normalità che però non potrà mai essere più come prima.

Illustrazioni di Mariagiulia Colace