biennale teatro venezia

Biennale Teatro 2016: Drammaturgie dello spettatore

Negli ultimi anni l’attenzione della Biennale di Venezia si è aperta progressivamente al tema della formazione, facendo della sezione College – in teatro e non solo – una delle linee portanti della propria attività. Alla cerimonia di conferimento dei Leoni d’Oro e d’Argento 2016 (rispettivamente a Declan Donnellan e Babilonia Teatri), il presidente Paolo Baratta ha voluto attribuire – a parole – un Leone “virtuale” a Álex Rigola, al suo settimo e ultimo anno di direzione, per il contributo determinante dato alla declinazione del tema College.
In questi anni, infatti, il regista catalano è riuscito tramite la scelta laboratoriale e la programmazione di spettacoli di artisti internazionali a fare inaspettatamente di Venezia – e nonostante la collocazione agostana del festival – un punto di riferimento importante per il teatro italiano; un luogo di confronto, studio e incontro segnato soprattutto dall’apertura e dalla pluralità (di generazioni, geografie, culture e linguaggi, ma anche saperi e mestieri della scena).

Dal punto di vista di un osservatore continuativo e interno, come chi scrive, quella del 2016 si può considerare a tutti gli effetti un’edizione-summa di questo percorso: che ha visto avvicendarsi le polarità estreme della ricerca testuale e di quella performativo-visiva, insieme all’esplorazione di zone altre della scena contemporanea (quest’anno è stato il circo di Baro d’Evel, il teatro-cinema di Christiane Jatahy); maestri ormai consolidati e un’attenzione particolare alle generazioni più giovani (le scelte dei Leoni stanno a testimoniarlo); laboratori per autori, attori, registi e l’ormai consueto workshop di critica, che ha accompagnato tutte le edizioni con i suoi racconti e analisi.
Ad attraversare le tre settimane di Festival Internazionale 2016, tanti temi, questioni, stili e orizzonti di ricerca, ma – a posteriori – forse tutti si possono aggregare intorno a una questione centrale, che poi sembra essere tornata di fondo anche nel teatro del nostro tempo: quella delle drammaturgie – in senso stretto e lato – dello spettatore.

Dalla partecipazione alla critica (Roger Bernat/Yan Duyvendak e Stefan Kaegi)
Partecipazione: ormai in teatro non si parla d’altro. Da qualche anno la scena europea sta vivendo una riscoperta delle dinamiche di coinvolgimento dello spettatore che hanno segnato tanto Nuovo teatro del novecento, almeno dalle soirée futuriste e dada per passare al teatro secondo il suo “valore d’uso” degli anni settanta e arrivare fino a noi.

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Le vie del potere alla Biennale Teatro 2013

Quella del 2013 è una Biennale che può lasciare un segno. Non solo per una programmazione di ampio respiro internazionale, che ha voluto portare in Italia artisti da diversi paesi europei, alcuni difficilmente incontrabili sui palcoscenici nostrani; nemmeno soltanto per l’opportunità di trovare, nelle suggestive sale veneziane, diverse pièce bien fait, nel senso stretto del termine: dove l’attore recita, il testo comunica, la scena li accoglie entrambi, diretta da una prospettiva che si inserisce a pieno nel canone di quella che nel Novecento si è andata definendo come “regia” e che, negli ultimi anni, sembra soffrire di una qualche crisi d’identità. Altissimo livello tecnico e orientamento alla comunicazione, linee poetiche ben distinte, qualità della scena e del pensiero; ma non è solo quella di incontrare un teatro – magari un po’ mainstream, se si volesse rintracciare una qualche rigidità – in tutto e per tutto fatto ad arte, l’occasione della Biennale Teatro 2013, la quarta che vede alla direzione il catalano Àlex Rigola.

In un cartellone così denso di nomi, opere e culture potrebbe essere difficile andare a rintracciare qualche risonanza, qualche messa in condivisione o qualcosa in comune fra l’uno e l’altro artista o spettacolo. Invece, di materiale di riflessione, per provare a intuire tracce di una linea di lavoro, ce n’è parecchio: a un primo sguardo, la crisi che continua a scuotere l’Occidente – con una pressante incombenza della fine (in qualche caso dai risvolti quasi horror), l’incertezza che ci porta a chiederci “che succederà adesso?” e, non ultima, l’incommensurabilità delle macerie che abbondano alla fine di ogni spettacolo.

mouawadXtamburine

In particolare, è visibile una sorta di contrappunto che ha animato i dieci giorni di programmazione di questa Biennale, dal 2 all’11 agosto: quello fra individuo e collettività. Tanti, tantissimi i monologhi, pure lunghi e scenicamente articolati, forti di testi ben stratificati: il Leone d’Argento Angélica Liddell con il suo Riccardo III, una impegnativa serata tutta dedicata all’one-man show con Wajdi Mouawad (Seuls) e Dirk Roofthooft diretto da Guy Cassier in Sunken red, i quattro pezzi dell’Accademia degli Artefatti dal progetto I, Shakespeare su drammaturgia di Tim Crouch. Sull’altro versante, grandi opere corali, il cui capofila è sicuramente Marketplace 76 di Jan Lauwers e della sua Needcompany: un ensemble di base fiamminga che riunisce artisti di differenti formazione e provenienza, mescola linguaggi e stili, componendo opere policentriche, stratificate, sincopate; ma poi anche Motus, con la sua ultima creazione che si rideclina site-specific rispetto ai luoghi che incontra, così come il Picasso di La Veronal.

Nel primo caso, quello dei monologhi, l’affondo tutto interiore, all’interno dello scarto che si divarica sempre più fra individuo e società, dimostra di concentrarsi sul sé, sui limiti del proprio corpo e pensiero, a volte addirittura sull’auto-analisi: al centro, l’espressività del performer, il pensiero del singolo, la sua solitudine e solitarietà; attorno, spesso, il nulla, se non in termini di evocazione e invocazione. In alcuni casi (Liddell e Mouawad in primis), si tratta di artisti a tutto tondo, autori-attori che danno voce a drammaturgie proprie, si scontrano con l’inconcepibile chiusura del mondo e si abbandonano a se stessi, come intrappolati nella propria mente e nel proprio palcoscenico, dando vita a pezzi magnetici, di grande suggestione e virtuosismo (oratorio, fisico, linguistico). Le opere d’assieme, invece, mirano a composizioni a più mani e a più voci; l’esito è spesso quello di una policentricità della scena e del discorso, all’interno di cui è lo spettatore a dover scegliere la prospettiva e collocare il proprio punto di vista, dunque a costruire, da sé, la storia e a definire l’ambiente in cui accade. A differenza della linea dell’autore-attore, in cui tanto il versante creativo che quello scenico sono concentrati in un’unica figura, qui la regia si fa “debole”, aperta, integrata e integrabile.

potereFuori da quello che sembra un rigurgito dell’ormai classica (e perciò forse abusata) opposizione che Umberto Eco ha tracciato fra “apocalittici e integrati”, a scavarlo per bene, questo contrappunto, per i dieci giorni di arsura lungo cui si è snodata questa Biennale Teatro, si rischia di trovare un altro filo rosso, ben più sotterraneo e dunque forse ancora più determinante: quello del rapporto con il potere. Va da sé che, a livello di linguaggio scenico, la scelta fra la centralità di un’unica autorialità e il lavoro corale si possa leggere nei termini di un discorso e di una presa di posizione sui meccanismi di potere e di governo, tanto più che la prospettiva registica è figlia proprio di quel tempo neo-capitalista che ha voluto imporre ai sistemi di produzione figure di controllo e mediazione che al giorno d’oggi sembrano, per forza di cose, venir meno o almeno trovarsi con qualche problema di crisi d’identità. Ma i lavori in programma a questa Biennale Teatro non si legano al discorso sul potere soltanto per affinità o metafora: il tema, presente in modo più o meno esplicito, sembra percorrere a tutti i livelli le trame, i dialoghi, le riflessioni e gli assoli di questo 42° Festival. È così per il lavoro dei Motus («Where is the Master?», si chiedono, assieme a Shakespeare), per i personaggi “minori” degli Artefatti, sempre tratti dall’opera del Bardo; l’attenzione e l’interrogazione di un potere occulto, comunque non interamente percepibile, torna anche nei copiosi riferimenti alle tradizioni totalitarie (su tutti, indubbiamente, il franchismo), che ritornano con la Liddell e La Veronal, ma anche con Cassiers, nel sovrannaturale di Peeping Tom e Needcompany.

Che succederà adesso? Come affrontare la crisi? È possibile ricomporre lo scarto insanabile fra individuo e società? E c’è qualcosa di superiore, umano o meno, che ci sta guidando? Sembrano queste le domande che ritornano, come eco fra scena e realtà, lungo gli spettacoli di questa Biennale. Fra incomunicabilità e frantumazione, solitudine e collettività, paura e entusiasmo, la strada sembra quella della scelta di campo, dello schieramento: da soli o insieme, se stessi o gli altri, individuo o società.
Poi ci sono lavori, come Ein Volksfeind diretto da Thomas Ostermeier a chiusura del Festival, che si assumono la responsabilità di provare a rimettere insieme le cose e, dunque, senza scegliere l’uno o l’altro versante, lavorano proprio sullo scarto, sul confine, sulla scivolosità delle zone di frontiera (leggi l’articolo). Lo stesso avviene con El polìcia de las ratas (adattamento e regia del direttore Rigola dal racconto di Roberto Bolaño, leggi l’articolo), che si concentra proprio sulla difesa della differenza rispetto alle spinte omologanti della società e, per certi versi, in El viento en un violìn di Claudio Tolcachir. Certo nemmeno qui c’è via di scampo, né possibilità di salvezza alcuna; anzi, quello che va in scena nell’ibseniano Un nemico del popolo della Schaubühne, nella densità dei dialoghi di Bolaño-Rigola, nella trama agrodolce di Tolcachir è proprio l’irriducibile impossibilità di schierarsi definitivamente dall’una o dall’altra parte, di rifugiarsi soli con se stessi o gettare il proprio specifico nel magma della collettività. Una prospettiva che può diventare una indicazione di lettura attraverso cui ripercorrere dall’inizio alla fine tutta questa Biennale numero 42: fra tutti gli altri stimoli, pure preziosissimi, fra scena e realtà, il merito più interessante di una simile traiettoria è forse quello di provare a ricomporre in se stessa (osservando con precisione i limiti dello spettacolo, rispettando con cura i confini del teatro) la dimensione etica con quella estetica, la necessità politica con il lavoro sul linguaggio scenico.

Roberta Ferraresi

Illustrazioni di Mariagiulia Colace

Un altro Prometheus per Jan Fabre

Recensione a Prometheus Landscape II – di Jan Fabre

Fuori dal tempo – attraversando tutte le pieghe in cui si sono annidate nei secoli le tante riattivazioni del mito – e, forse proprio per questo, decisamente nella più precisa attualità, si colloca Prometheus Landscape II di Jan Fabre, che torna all’eroe eschileo dopo più di vent’anni. Il concetto di nodo – ripetuto e rilanciato da ogni azione fra sofisticate tecniche di legatura – è al centro della nuova creazione dell’artista fiammingo, sì per un rigore filologico (dal Prometeo incatenato di Eschilo) ma anche a segnare il dispositivo compositivo e concettuale che ne è a fondamento.
Da un lato, la scena delocata, la cui struttura si sviluppa rizomaticamente fino ad abitare anche gli angoli più remoti del palcoscenico, è intessuta di sincronie e reciproci rimandi, in origine solo lievemente percettibili, poi sempre più segnati e palpabili. Concettualmente, il ‘nodo’ segna una corrispondenza fra l’eroe eschileo e la figura dell’artista, capace di offrire l’opportunità (il primo, col dono del fuoco, all’umanità; il secondo, attraverso l’arte stessa) di forme di conoscenza alternative.

Lo spettacolo è inaugurato da un prologo-manifesto (dello stesso Fabre) cui il regista affida il senso, l’urgenza di tornare proprio oggi al mito: «Where is our hero?» chiede decine di volte Ivana Jozic, esplorando tutte le possibili definizioni e i diversi ruoli della figura di Prometeo fra tradizione e attualità. A far da contrappunto, Gilles Polet: «Fuck you, Sigmund Freud!» e tutti i maestri di quella tradizione ermeneutica di matrice psicoanalista che la cultura occidentale ha voluto imporre come principio elettivo di decodifica.
Il sipario si apre, poi, su un Prometeo appeso a mezz’aria che, su un grande incrocio di corde, accoglie in silenzio tutte le visite previste – Cratos e Bia, il sibilo agghiacciante di Atena, la presenza vibratoria di Io, la partitura di risa di Hermes – dal testo eschileo, qui decostruito e ricomposto da Jeroen Olyslaegers la cui impostazione segue il verso biblico, in cerca della lingua divina che potrebbero parlare gli dei. In scena, davanti a una grande proiezione che ‘ustiona’ i profili del protagonista, si susseguono e si giustappongono continui slanci e blocchi dell’azione, in un climax che – pur arrischiandosi nelle trappole dei canoni dell’estetica postmoderna come ripetizione e differenza, un assedio di dualismi oppositivi, circolarità senza via d’uscita – conduce a far esplodere sia il nodo Prometeo-artista sia quello formale. Momenti di grande, efficace, bellezza – come, a livello visivo, il palco punteggiato d’asce (antincendio) a testa in giù e, in senso compositivo, il crinale presso cui i movimenti agitati degli attori si trasformano in passi di danza, piccoli assoli che si contagiano infine, per qualche brevissimo istante, in una coreografia collettiva – e altri di straniante accennata ironia (il fuoco qui non è permesso per motivi di sicurezza) accolgono tanto il talento magnetico degli attori-danzatori di Troubleyn che la figura di un eroe immobile, allo stesso tempo dominatore e vittima di quello che sta accadendo intorno.

E alla fine, la parola passa a Prometeo, che sembra essere posto a suscitare (nel mito quanto nella vita reale) nuovi eroi ribelli, nuove rivolte: «Io resisto», dice l’eroe, e «non c’è futuro, le possibilità sono infinite». Ed ecco che il decentramento della scena, così come la tessitura di rimandi e reciproche variazioni, si propone come una precisa indicazione di fruizione: a fronteggiare il razionalismo costitutivo di tanta ermeneutica occidentale, Prometeo-Fabre sembra invocare forme alternative di conoscenza e consentire ad ogni spettatore di seguire un proprio personalissimo itinerario attraverso il ‘landscape’ tracciato dal regista. In un mondo (performativo) in cui tutto è possibile, dove c’è un senso – anzi, spesso, più d’uno – in ogni segno scenico, anche il più minimo, è richiesto anche di perdersi nei profili seducenti della materia, fra blob di fumo densissimo e il vento che ne modella le volute. Abbandono e predisposizione trasformativa, più che decodifica e schematizzazione. O, come dice il protagonista stesso alla fine dello spettacolo: «Distruzione non istruzione». Ma, fuori dalle spire dell’ultimo Novecento, resta il dubbio se, al giorno d’oggi, sia proprio di distruzione che abbiamo ancora bisogno.

Visto al 41. Festival Internazionale del Teatro, Venezia

Roberta Ferraresi

 

Biennale Teatro 2011: Venezia

Iniziato l’autunno, finisce l’estate dei festival di teatro che ha fatto spostare, senza sosta, appassionati, operatori e artisti per tutta la penisola italiana. Ma se ci si guarda bene intorno ci si accorge di quanto questo ottobre voglia continuare ad essere caldo e non ne voglia sapere del cambio di stagione: come lo stesso tempo atmosferico, ci sono dei festival che fanno rimanere la temperatura alta anche nel mondo teatrale; temperatura che invece di diminuire va aumentando, soprattutto per l’accavallamento di eventi a cui si vorrebbe assistere contemporaneamente, andando contro ogni regola fisica (e logica?). Ci si mette il cuore in pace, l’ubiquità ancora non è stata inventata.

A ottobre prendono il via rassegne di ampio interesse, con cartelloni ricchi di appuntamenti tra spettacoli, incontri e performance. Mentre a Milano è già iniziata la XXV edizione della rassegna di danza Milanoltre, a Torino partirà a breve Prospettiva, a Modena Vie Scena Contemporanea e nella capitale Romaeuropa Festival, lunedì 10 ottobre si apre a Venezia il 41. Festival Internazionale del Teatro diretto da Alex Rígola: fino al 16, una settimana che prevede ogni giorno non solo spettacoli, ma anche laboratori, incontri con gli artisti e scenografi di importanza internazionale. Vi proponiamo qui il calendario con gli appuntamenti che, a chi si trova in laguna, consigliamo di non perdere.

 

BIENNALE TEATRO: SPETTACOLI  10>16 ottobre 2011 – VENEZIA

Lunedì 10 ottobre

ORE 20 al Teatro Goldoni in prima italiana
Schaubühne Berlin (Germania)
Hamlet
di William Shakespeare
regia di Thomas Ostermeier


Martedì 11 ottobre

ORE 13 al Teatro Fondamenta Nuove
Santasangre
Sei gradi. Concerto per voci e musiche sintetiche

ORE 19al Teatro Piccolo Arsenale in prima italiana
Troubleyn/Jan Fabre (Belgio)
Prometheus Landscape II
regia di Jan Fabre

ORE 21 al Teatro alle Tese
Needcompany (Olanda/Belgio)
Isabella’s room
regia di Jan Lauwers e Needcompany

 

Mercoledì 12 ottobre

ORE 13 al Teatro Fondamenta Nuove
Teatropersona
AURE

ORE 19 e 21.30 al Teatro alle Tese in prima italiana
Sportivo Teatral (Argentina)
El Box
regia di Ricardo Bartís

 

Giovedì 13 ottobre

ORE 13 al Teatro Fondamenta Nuove
Anagoor

FORTUNY

ORE 19 al Teatro Piccolo Arsenale
Socìetas Raffaello Sanzio (Italia)
Sul concetto di volto nel Figlio di Dio
regia di Romeo Castellucci

ORE 21 al Teatro alle Tese
La Carniceria Teatro (Spagna)
Muerte y reencarnación en un cowboy
regia di Rodrigo Garcia

 

Venerdì 14 ottobre

ORE 13 al Teatro Fondamenta Nuove
Muta Imago
Displace#1 La rabbia rossa

ORE 21 al Teatro Goldoni in prima italiana
Barcelona International Theater (BIT) (Spagna)
Desaparecer
Poema-concerto per due voci perse nella nebbia
regia di Calixto Bieito

 

Sabato 15 ottobre

ORE 13 al Teatro Fondamenta Nuove
ricci/forte
Grimmless

ORE 20 al Teatro Piccolo Arsenale in prima italiana
Stefan Kaegi (Rimini Protokoll) (Germania)
Bodenprobe Kasachstan
regia di Stefan Kaegi

ORE 22 al Teatro alle Tese
CCNO / Josef Nadj (Francia)
Woyzeck, ou l’Ébauche du vertige
regia di Josef Nadj

 

Domenica 16 ottobre

ORE 11 > 22 alle Sale Apollinee e Sala Rossi del Teatro la Fenice/ Aula Magna e Sala Tommaseo dell’Ateneo Veneto/ Sala Concerti e Sala Prove del Conservatorio B. Marcello/ Sala del Portego dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti in prima assoluta
Sette peccati
Percorso in sette spettacoli brevi di Ricardo Bartís, Calixto Bieito, Romeo Castellucci, Jan Fabre, Rodrigo Garcia, Jan Lauwers, Thomas Ostermeier

ORE 20 e 21.15 alla Fondazione Giorgio Cini (Isola di San Giorgio)
Compagnia Virgilio Sieni (Italia)
Osso
regia di Virgilio Sieni

 

Venerdì 14, sabato 15 e domenica 16 ottobre

Ca’ Giustinian – Laboratorio delle Arti e spazi urbani di Venezia in prima assoluta
Rimini Protokoll /Stefan Kaegi (Germania)
Video Walking Venice
regia di Stefan Kaegi

 

Accade anche quando meno lo si aspetta…

Recensione a Marathon of the Unexpected – Sezione “off” del 7. Festival di Danza Contemporanea

Fabrizio Favale - foto di Alvise Nicoletti

Sei ore di maratona per ventuno performance di breve durata: con questa esperienza dal titolo più che azzeccato, ossia Marathon of the Unexpected, si inaugura la piacevolissima sezione “off” del 7.Festival di Danza Contemporanea della Biennale di Venezia. Un’iniziativa lodevole che ha dato spazio alle nuove generazioni e che ha funzionato come un orologio svizzero: una carrellata di giovani corpi danzanti si sono avvicendati sul palco del Teatro Piccolo Arsenale senza mai cadere in tempi morti di montaggio tra un gruppo e l’altro; ma soprattutto non è mai sopraggiunta la noia per chi ha preso parte all’intera giornata dato che ogni nome aveva al massimo 15 minuti per esibirsi. Amata od odiata, ogni performance era breve ma al punto giusto: in caso di interesse si aveva una sorta di promo tale da stuzzicare e ricordare il nome appena visto per una prossima volta; nel caso opposto la breve durata non lasciava scappare lo spettatore che rimaneva immobile per non rischiare di perdersi il danzatore successivo, che sarebbe sempre potuto essere quello preferito.

Molte quindi le proposte da cui si possono trarre degli elementi comuni come l’uso della musica elettronica che è andata per la maggiore: ad effetto e curata in alcuni casi, come per esempio ne Il gioco del gregge di capre, un curioso solo del bravissimo Fabrizio Favale realizzato in collaborazione con Le Supplici che ne ha curato appunto il set, o monotematica e piatta in altre performance.

Ma-shalai foto di Biennale Venezia/A.Myake

Una tendenza diffusa forse dovuta dal pensiero che la musica elettronica sia una perfetta sposa della danza contemporanea; vero in diversi casi, ma sicuramente non unica strada percorribile come ha dimostrato il magnifico trio siciliano di Petranura Danza/ Megakles Ballet: sulle sognanti note di violoncello del compositore Giovanni Sollima, Valeria Ferrante, Adalgisa Polopoli e Salvatore Romania hanno dato vita a una poetica rincorsa di intenso trasporto con Ma-shalai, termine dialettale che indica una goduria raggiunta dai danzatori e arrivata vibrante fino al pubblico che ha fortemente applaudito dopo questo rapimento completo.

Altro filone, purtroppo notato in questa vetrina di giovane danza, è quello del non impegno sociale. In molti preferiscono trarre ispirazione da episodi di vita quotidiana o indagare sentimenti o situazioni della propria esistenza. Che la danza sia vista come una via di fuga da una società in cui è sempre più difficile riconoscersi? Forse semplicemente si punta una lente su se stessi, sulla propria individualità, indagando le proprie emozioni o relazioni con l’altro. Un esempio efficace di vissuto si ritrova nel duo olandese di Gotra Ballet in Koffie verkeerd: Joost Vrouenraets e Maïté Guérin con le loro impeccabili coreografie senza sbavature mostrano l’impossibilità di un amore che sia eterno in una relazione iniziata con passione ma che finisce in violenza e rabbia reciproca.

ShiroKuroChan - foto di Alvise Nicoletti

Se l’atleticità e l’azione irruenta dominano la danza della coppia nordeuropea, il movimento impercettibile e caricato di grande ritualità caratterizza ShiroKuroChan di e con Motoya Kondo e Tiziana Longo: uno stile completamente opposto per indagare lo stesso tema, quello amoroso, attraverso la danza butoh giapponese, dove due anime nascondono il viso dietro una grande rosa, una bianca e una nera per cercare un incontro tra spiriti contrastanti in un rituale pieno di poesia e magia.

Di fronte a lenti di ingrandimento poste sul sé, un grande plauso spetta alla Compagnia COLAPS, l’unica a presentare un lavoro-denuncia che è XX: in scena la bravissima Jessica Maria Bellarosa insieme a Maurizio Mauro – accompagnati da Sara Santoro e Marco Di Stefano che immobili e seduti a un lungo tavolo non spostano i loro occhi dai computer – indaga la differenza tra maschile e femminile, ma soprattutto cerca la risposta al perché il genere “XX”, appunto, venga sfruttato, usato, violentato e distrutto; domanda che rimane aperta.

XX - foto di Alvise Nicoletti

Il pretesto da cui parte COLAPS è la dichiarazione, piena di ironia, fatta dal Presidente del Consiglio Italiano rispetto agli scafisti che dall’Albania portano clandestini nel Bel Paese, dichiarazione che parla di un’eccezione che si farebbe nel caso in cui ad arrivare siano “belle ragazze”. Una scrittrice albanese, Elvira Dones, piena di indignazione ha scritto in risposta una lettera aperta per denunciare come queste “belle ragazze” subiscano violenze sessuali o si ritrovino a vivere su un marciapiede. Una lettera le cui parole risuonano nel Teatro Piccolo Arsenale mentre Jessica Maria Bellarosa dà vita a movimenti che si ripetono fino allo sfinimento e che si placano solo al contatto con Maurizio Mauro, che in pochissimi gesti placa l’impeto della compagna e ne mostra il corpo come fosse merce.

Molte altre le proposte interessanti dal punto di vista tecnico tra cui l’impegnativo Umanocontrocanto di Sabrina Massignani – Venezia Balletto con ben sei ballerini sul palco, l’immaginifico <Seize> di Ming-Wha Yeh (direttamente dal Taiwan) o lo spiritoso Spot di Matteo Carvone, Alessio Attanasio e Valeria Galluccio.

Una maratona da cui si esce senza fiatone grazie anche alla acuta e perfetta organizzazione di cui si deve sottolineare la serietà e l’impegno per tutto ciò che è stato inaspettato, ma che è piacevolmente accaduto.

Visto al Teatro Piccolo Arsenale, Venezia

Carlotta Tringali

Una serata tra Bill T. Jones e Virgilio Sieni

Recensione a Another Evening: Venice/ArsenaleBill T. Jones/Arnie Zane Dance Company e Tristi tropici Compagnia Virgilio Sieni

Due compagnie molto diverse tra loro hanno dato vita nella stessa serata a spettacoli in anteprima, conducendo lo spettatore verso l’estremo, catturando o meno emozioni, proprio come indica il titolo di quest’anno della Biennale Danza di Venezia: Capturing emotions. L’afro-americano Bill T. Jones con la compagnia Arnie Zane Dance Company punta all’atleticità e alle coreografie di forte impatto dei suoi bravissimi ballerini con l’evento site specific Another Evening: Venice/Arsenale. L’italiano Virgilio Sieni porta la sua compagnia in territori inesplorati con Tristi Tropici, ispirato liberamente al testo omonimo di Claude Lévi-Strauss.

Biennale di Venezia - foto di A. Miyake

Con un cappello di paglia, una camicia a scacchi e dei grandi occhiali, il coreografo Bill T. Jones scruta i suoi ballerini che, al Teatro alle Tese, accompagnano il movimento del pubblico all’ingresso: costretto lungo un corridoio, lo spettatore si trova da un lato una donna e una bambina sedute su un sofà veneziano, ignare del passaggio di chi subito volta loro le spalle per soffermarsi ad ammirare le evoluzioni tecniche di alcuni danzatori della compagnia dall’altro lato. Another Evening: Venice/Arsenale esplora lo spazio di un teatro all’interno dell’arsenale lagunare: un evento site specific in cui la compagnia Arnie Zane Dance Company dà prova di tutta la propria bravura. Attraverso una passerella a vista, i nove ballerini intrecciano i propri corpi con una delicatezza sublime, creando una catena umana fatta di anelli/braccia allacciati, ma non in contatto tra loro: incredibile come nella parte successiva cambi la loro corporalità. Gli atleti-danzatori danno vita, sotto la supervisione di Bill T. Jones e di Janet Wong a delle coreografie di forte impatto, si sollevano, si scontrano, in un gioco di contact che li porta quasi fino allo sfinimento. Un’esasperazione cercata e trasmessa anche allo spettatore messo a dura prova con le musiche elettroniche e il sound design del bravo Sam Crawford e le voci urlate ai microfoni di cui si impossessano i ballerini. Una sorta di sogno-incubo, una schiera che avanza sotto un fascio di luce mentre una ballerina si ribella e frantuma un muro di corpi che indifferenti continuano nel loro cammino. «I do not know the meaning of that», dice una voce; e forse è proprio questo che manca a uno spettacolo tecnicamente perfetto: un legame, un senso, un intreccio sfiorato all’inizio e alla fine ma non raggiunto.

Diversissimo per coreografia e intensione Tristi Tropici della Compagnia Virgilio Sieni: atmosfere mistiche,

Biennale di Venezia - foto di A.Miyake

corpi immersi in un controluce opaco e annebbiato, simboli che appaiono per improvvisi frammenti. Ispirandosi a Tristes Tropiques dell’antropologo Claude Lévi-Strauss, Sieni apre a un mondo onirico, di difficile e criptico accesso: un mondo che attrae per la bellezza di alcune immagini corporee portate in scena dalle splendide ballerine che rendono questo spettacolo magico e disturbante allo stesso tempo. Simona Bertozzi e Michela Menguzzi compiono gesti rallentati e identici: sembrano esseri totemici provenienti da luoghi lontani e ancestrali, si stringono, come se volessero recuperare un’unità perduta. Se le due donne si sostengono a vicenda, Elsa De Fanti riesce invece ad aumentare l’apporto mistico semplicemente tramite la sua presenza corporea di incredibile potenza nonostante l’età di settant’anni: la sua figura si contrappone a una magnifica Ramona Caia che contorce il suo corpo, lo lacera, lo sfinisce. Sembra di trovarsi di fronte un rito antico, di natura oscura e inesplorata e ad aumentare questa sensazione aiuta la musica originale di Francesco Giomi: un continuo vibrare di note elettroniche che rimangono sospese su un vuoto senza mai aumentare di intensità. Il filosofo Lévinas parlava dei Tristi Tropici di Strauss come del «libro più disorientato e disorientante, un grande libro sulla desolazione umana». Qui, con Sieni, che cura ideazione, coreografia, scene e luci, il pubblico è disorientato, ma attratto da questo mondo inspiegabilmente fuori dal tempo e di altra ritualità.

Visto al Teatro alle Tese e al Teatro Piccolo Arsenale, Venezia

Carlotta Tringali

Nightmare before dawn

Recensione a RoadkillSplintergroup

Foto di Jeff Busby

Un piccolo Triangolo delle Bermude nel mezzo dell’entroterra australiano, una notte di isolamento on the road: da qui prende le mosse un avvincente nightmare thriller danzato, ben riuscito, che sfascia la linea di demarcazione tra delirio allucinatorio e realtà. Splintergroup, collettivo australiano con sede a Brisbane, è un gruppo relativamente recente composto principalmente da Sarah Jayne Howard, Grayson Milwood e Gavin Webber, i tre interpreti di Roadkill (nella tournée italiana, Howard è sostituita da Gabrielle Nankivell).

Un’automobile scassata tossisce e non vuol saperne di ripartire, la fauna notturna squittisce incurante, una coppia è addormentata sui sedili dell’auto, in attesa del mattino. Poco più in là, nel vuoto notturno, spunta una cabina telefonica illuminata da un fastidioso chiarore biancastro. È rotta, e i cellulari non funzionano. Unica presenza confortante, la radio dell’auto che scandisce momenti di sconforto e giochi di seduzione.

Nell’ansia dell’isolamento si scava in un cantuccio la paura latente dell’uomo nero. Che arriva, balzando fuori all’improvviso, accanto alla macchina. Ha l’aspetto di un boscaiolo nerboruto. Da qui si innesca un gioco di inseguimenti, sadici nascondini per trovare un rifugio sicuro, acquattarsi dentro l’auto e alzare le sicure delle portiere. A turno i danzatori escono e rientrano nell’auto, coperti dal fumo della marmitta, spuntando improvvisamente dentro e fuori come un gruppetto di Jack in the Box impazziti. Ognuno cerca di far partire l’auto, a rischio di investire chi è rimasto fuori in strada, ma la macchina si scuote solamente, spalancando i vecchi fanali gialli come occhi stanchi.

Foto di Jeff Busby

La fatiscente cabina telefonica diventa un punto di osservazione, un bunker in ferro e cemento in cui rifugiarsi, una gabbia, un partner per una lenta danza circospetta.

Raro e curioso il soggetto del thriller on the road trasposto in danza, che presenta una sorta di innocui Easy Riders, vittime forse solo delle proprie angosce, che però si materializzano in una presenza molesta con la stessa rapidità e perversità degli incubi. Il tutto, in bilico tra il realismo scenografico e interpretativo, e un forte grado di surrealtà nell’angoscia dei presentimenti, nelle situazioni di allarme e fuga, nel bellissimo assolo dell’ “uomo nero” nella claustrofobia della cabina telefonica. Le atmosfere sono incalzanti, accelerazioni e pause si alternano fluidamente, spinte con il pedale giusto. L’audio inglese, presente soprattutto nei commenti della radio, non è sottotitolato, ma ciò non toglie smalto alla struttura.

Avvincenti i momenti di danza che prendono avvio dal contact – sia con le superfici esterne che con il partner –, in cui il peso viene ri-strutturato in favore di una singolare fluidità coreografica. Efficace il modo con cui i danzatori gestiscono la propria massa corporea, che diventa incredibilmente disinvolta ed elastica creando, in questa dimensione di vuoto notturno, una sovradimensione quasi lunare senza necessariamente ricadere nel rallentamento del moto.

Unica piccola incrinatura: all’inizio la danza fatica lievemente ad agganciarsi al racconto, e sembra invece prendere avvio come accessorio a un’immagine già compiuta in sé, ma questo piccolo neo si dissolve presto nella sensibilità dell’ossatura narrativa. Roadkill diventa infatti uno di quei (rari) casi in cui il rapporto tra coreografia e narrazione è stimolante e funzionale, e, nonostante all’inizio si debbano un po’ scaldare i motori per dare alla danza il suo ruolo-guida, la coreografia non inciampa in retoriche gestuali e riesce a narrare in prima persona i fatti, anziché commentarli.

Visto al Teatro Toniolo, Mestre

Agnese Cesari

De divina proportione

Recensione a Le nombre d’or (Live)Compagnie Marie Chouinard

foto di Sylvie-Ann Paré

Il concetto di sezione aurea è stato indagato e saccheggiato abbondantemente nel corso dei secoli, ma continua ad essere tutt’oggi un’influente calamita per chi si vuole confrontare con gli scogli di granito dell’armonia e della proporzione. Quest’anno, alla Biennale Danza di Venezia, è la volta di Marie Chouinard, che presenta una creazione fresca di debutto, Le nombre d’or (Live), in tandem con l’assolo Gloire du matin, danzato dalla stessa coreografa canadese dopo vent’anni di assenza dal palcoscenico.

Il nombre d’or è essenzialmente il numero irrazionale che esprime la sezione aurea, nel quale viene riconosciuto un canone di armonia che ha fatto perdere la testa all’arte innumerevoli volte. Ciò che, in questo caso, la coreografa recupera dall’idea di numero aureo, è il suo essere indicativo del rapporto tra due lunghezze diseguali legate da un rapporto proporzionale.

L’inizio dello spettacolo slitta su due livelli: mentre gli spettatori raggiungono i loro posti, l’ensemble dei danzatori si scalda sul palcoscenico, in tuta, come se fosse in sala prove. Giunta l’ora, i ballerini si avviano verso le quinte con nonchalance, sistemando gli oggetti di scena. Si spengono le luci e lo spettacolo inizia: due enormi lampade metalliche con il fusto piegato a quarantacinque gradi, manovrate dai ballerini, puntano il loro occhio su due danzatori avvolti in un manto di seta rigida e trasparente, che pian piano ne escono come due pulcini dall’uovo. Gradualmente la scena viene popolata dagli altri ballerini: un folto gruppo di creature bislacche con calzamaglie a rete color crema, frange da cowboy sulle gambe e parrucche bionde spettinate ad aculei. Giocano, sorridono, curiosano, come una comitiva di alieni ingenui e beffardi che ha appena messo piede sulla Terra. Alcuni indossano l’intelaiatura nera di un paio di occhiali, sproporzionata e fuori luogo. Il gruppo dei danzatori instaura un vivace dialogo con alcune telecamere, piazzate in diversi punti del palco e collegate a schermi, che restituiscono la coreografia da differenti angolazioni, causando qualche sfasamento nella percezione. Ridono e piangono fastidiosamente, si provocano, si accoppiano, si infilano grandi maschere con volti di anziani, con evidenti effetti comici o satirici, per poi arrivare ai neonati, terminando su due danzatori nudi che indossano volti da bimbo pasciuto, annegando l’atmosfera in una lieve linea di tenerezza. Gli accoppiamenti hanno sempre un forte sapore animale, di voluttà guerriera e spinosa, con un retrogusto di dolore. La coreografia sembra quasi scandire il tempo biologico di questi esseri estranei e infantili, che dal nulla modulano la propria età e la propria vitalità a seconda della faccia che indossano o del rapporto con il partner. Unico spacco in mezzo al delirio di corpi travestiti, il brillante assolo di Carole Prieur, unica a mostrarsi senza maschera, che con i capelli umidi e sciolti lancia frasi dall’aria strafottente contagiando meravigliosamente lo spazio con la forza del suo corpo.

La confezione visiva è avvolgente, ma manca una precisa connessione con il titolo. Se effettivamente si legge l’intero spettacolo come modulazione di legami tra grandezze diverse e proporzionali, si avverte che nell’aria manca qualcosa, una pasta più densa che sia in grado di fare da collante strutturale a un’operazione coreografica dotata comunque di un suo vigore.

Visto al Teatro Toniolo, Mestre

Agnese Cesari

Lo spessore della stratificazione

Recensione a cut-outs & trees Cristina Caprioli / ccap

ccap - Biennale di Venezia

Frammenti. Parti di un insieme che non è più possibile ricomporre. Parzialità che assumono valore di interi di per sé e che, se accostati ad altri, consentono la creazione di una nuova totalità. A ruotare attorno a questa idea di frammentarietà è cut-outs & trees, la nuova creazione di Cristina Caprioli, presentata in prima assoluta al 7. Festival Internazionale di Danza Contemporanea e nata dal progetto ENPARTS (European Network of Performing Arts), il programma quinquiennale (2007-2013) avviato dalla Biennale di Venezia in collaborazione con festival e istituzioni europee quali Dance Umbrella di Londra, il Berliner Festspiele e il Dansens Hus di Stoccolma, che ha coprodotto quest’anno i lavori di Cristina Caprioli e di Virgilio Sieni.

L’ampio e vuoto spazio del Teatro alle Tese si è prestato a diventare, come spiega la Caprioli, «un bosco pieno di fogliame, di forme, di passati e di pensieri». Una moquette grigia, disposta lungo il perimetro del palco (una pedana rettangolare leggermente rialzata dal pavimento), si fa seduta per gli spettatori, liberi allo stesso tempo di sostare o muoversi per scegliere la propria visione. Al soffitto, un ingranaggio di corde e cantinelle, consente lo scorrimento di lunghe strisce bianche in pvc forellato. La disposizione ritmica regolare di questi filamenti crea un’alternanza di pieni e vuoti perfettamente in linea con il principio di frammentarietà delle immagini che vi vengono proiettate: “trees” intesi come diramazioni in alto e basso, complicazioni e ritagli. Il “cut-out” coreografico di Caprioli si arricchisce, infatti, del lavoro video del programmatore digitale Panajotis Michalatos e dello scenografo e light designer Jens Sethzman, una collaborazione tesa a identificare una relazione tra la stratificazione reale e virtuale, idea concettualmente accativante ma che ha corso il rischio, in alcuni momenti dello spettacolo, di costringere i diversi linguaggi a procedere su due binari paralleli senza mai intrecciarsi.

Lo spazio, per la coreografa e teorica italiana ma di adozione svedese, non può più essere inteso come superficie piatta e luogo da riempire, ma va concepito come spazio concreto che si somma al corpo coreografato. La densità di questa scena consente di adoperare uno sfilacciamento e una distorsione della visione al fine di provocare nel corpo nuove forme slegate da un controllo ontologico. Per parlare della stratificazione corporea, la Caprioli ha creato una partitura coreografica (su musiche di Alva Noto) per sei danzatrici della sua compagnia ccap di Stoccolma, partitura apparentemente alogica ma estremamente pulita, che sviluppa, tramite ripetizioni e sovrapposizioni, sequenze suggestive e a volte disorientanti. La molteplicità di livelli spazio-temporali ha messo in evidenza bellissime dilatazioni gestuali e la scenografia ha stimolato lo spettatore a porgere attenzione al dettaglio, al ritaglio scelto liberamente senza alcuna imposizione registica.

La poco svillupata comunicazione tra i diversi linguaggi artistici presenti in cut-outs & trees ha riacquisito il suo valore di interazione nel momento in cui, a fine rappresentazione, la scena di Cristina Caprioli si è fatta choreographic object e gli spettatori, incuriositi, si sono intrufolati all’interno della visionaria foresta.

Visto al Teatro alle Tese, Venezia

Elena Conti

Eccentricità australiana

Recensione a We Unfold, 6 Breaths, ARE WE THAT WE ARE Sydney Dance Company

Sydney Dance Company

L’immagine scelta dalla Biennale di Venezia come rappresentativa del 7. Festival Internazionale di Danza Contemporanea, Capturing Emotions, è una fotografia di scena dello spettacolo We Unfold della Sydney Dance Company. Sorvolando su ogni aspetto artistico-pubblicitario provocato da questa decisione, si può cogliere immediatamente il livello di curiosità generato dalla fotografia, una composizione scultorea di quattro corpi umani colpiti verticalmente da un fascio luminoso. Rafael Bonachela, coreografo e direttore artistico della Sydney Dance Company dal 2008, è stato chiamato dalla Biennale per portare testimonianza, con la presentazione di tre pezzi del repertorio della compagnia, di una delle realtà più affermate nel panorama contemporaneo australiano (accanto a Ros Warby e al collettivo Splintergroup).

La prima delle due serate dedicate alla compagnia è stata occupata da We Unfold, uno stravagante lavoro di Rafael Bonachela che fin dall’inizio si è presentato come “rivelazione” (così come indica il titolo) di verità universali. Affascinato profondamente dalla relazione tra video e danza (ma intesa come proiezione e non come interattività) il coreografo ha sviluppato una partitura in cui danza, immagine e musica si accostano alla ricerca di una forte espressività che rievoca una certa megalomania da kolossal hollywoodiano. Il grande fondale del Teatro Malibran di Venezia ha accolto le immagini video create da Daniel Askill: dall’esplosione che diede origine all’Universo si viene proiettati all’interno di una visionaria galassia in cui, a fare da contraltare, sono inseriti due giganteschi manichini umani, l’Uomo e la Donna. Lenti movimenti portano queste due figure virtuali, inizialmente distese, a rivelarsi frontalmente all’osservatore, sullo sfondo di un ammasso stellare. In un crescendo virtuosistico musicale (sulle composizioni di Ezio Bosso), i sedici danzatori faticano ad imporsi sul palco apparendo come minuscole forme di vita alle prese con l’eterno conflitto universale. Nello stesso momento in cui sembra aver luogo una pacificazione dell’uomo, la necessità di Bonachela di continuare a indagare e “rivelare” desideri ed emozioni lascia la danza affondare in un’incomprensibile sviluppo mentre l’abbandono alla visionarietà del video si fa pregnante.

Sydney Dance Company

La collaborazione tra Bonachela e il compositore Ezio Bosso trova origine in una profonda amicizia tra i due e, 6 Breaths, il secondo pezzo presentato in Biennale, nasce proprio dal lavoro musicale di Bosso. L’evocatività di We Unfold si placa, la partitura coreografica si accosta armoniosamente alla ricerca musicale che ruota attorno al tema del respiro. Anche l’affezione di Bonachela per le proiezioni di Daniel Askill (di nuovo presenti), si limita a conchiudere lo spettacolo nel suo inizio e fine con immagini video. Oltre alle due coreografie di Bonachela è stato presentato il lavoro dell’australiano Adam Linder, ARE WE THAT WE ARE. L’opera, commissionatagli da Bonachela, è un tripudio di elementi stucchevoli (dai costumi allo psichedelico disegno luci) tramite il quale intraprendere, come spiega il coreografo, «un’esplorazione fisica dentro l’esistenza di stati alterati di coscienza nell’esperienza umana». L’alterazione ricercata da Linder si trasforma in volgarizzazione e la danza, che fa riferimento alla ritualità pagana, coglie di essa solo una patina superficiale che procede per luoghi comuni così tanto sfruttati da non lasciare più uscire una goccia di succo dal grappolo di uva di Bacco.

Visto al Teatro Malibran, Venezia

Elena Conti