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Quattro incroci delle Buone Pratiche 2013

Il tagcloud della giornata

Il tagcloud della giornata

È una giornata-fiume, quella delle Buone Pratiche del Teatro, appuntamento diretto da Oliviero Ponte Di Pino e Mimma Gallina di Ateatro, che si svolge annualmente dal 2004: Firenze, 9 febbraio 2013, otto ore di interventi di artisti, critici, operatori, esperti (teatrali e non), che si muovono dentro e fuori i palcoscenici, le loro economie, il loro ruolo possibile e impossibile, la gestione quotidiana e i desideri, utopie e pensiero progettuale. Basta dare un’occhiata all’ordine del giorno per rendersene conto, o allo storify curato da Rosy Battaglia, che ricostruisce via twitter tanto il succedersi degli interventi che, soprattutto, delle reazioni che hanno suscitato fra gli ascoltatori in platea e a casa (la giornata è stata trasmessa in streaming da Studio28.tv). È anche disponibile un report dettagliato (curato con Maddalena Giovannelli di Stratagemmi), ma, per affrontare le questioni “calde”, le considerazioni e le proposte delle Buone Pratiche 2013, forse c’è una posizione “privilegiata” che si può cercare di assumere: mettersi all’incrocio dei singoli contributi, intercettando le eco che li richiamano fra loro e inseguendo i numerosi rimandi che hanno rintessuto, man mano, le fila della giornata (anche perché, se si deve fare un piccolissimo appunto all’impostazione – fermo restando il merito per l’impegno, unico nel nostro ambiente, di raccogliere una volta l’anno nella stessa stanza i molti volti dell’Italia teatrale, a guardarsi in faccia, a parlare di politiche, idee, proposte e problemi –, è proprio quello della frontalità dell’esposizione, all’interno di cui, alle volte, è possibile avvertire la mancanza di momenti dedicati alla discussione pubblica, al confronto diretto, al dibattito, che sarebbero previsti in chiusura). Si può rintracciare qualche parola-chiave, che torna più delle altre, qualche concetto che evidentemente sta a cuore e/o gira il dito nella piaga; qualche idea che ritorna, a gran voce o sussurrata, qualche stimolo che sembra non voler lasciare le teste, le voci e il tavolo allestito nell’Auditorium di Sant’Apollonia con la collaborazione della Fondazione Toscana Spettacolo. In quegli incroci, le istanze e le direzioni si sovrappongono, rintracciando una fotografia, seppure mossa e varia, di che cos’è – ma soprattutto di cosa potrebbe diventare, visto che si parla di Buone Pratiche – il panorama italiano delle arti performative. Si può anticipare che si muove, oltre la lente economica che in tempi recenti ne ha dominato la lettura, fra concetto di bene comune (con coraggiosi quanto delicati equilibri fra pubblico e privato) e welfare, fra strategie inedite volte alla sostenibilità e la partecipazione (più che formazione) del pubblico.

La cultura, bene comune fra pubblico e privato

foto di Oliviero Ponte Di Pino

foto di Oliviero Ponte Di Pino

È del giorno prima la notizia dell’ennesimo mastodontico taglio al Fondo Unico per lo Spettacolo: 20 milioni di euro in meno, anche se il Direttore Generale per lo Spettacolo dal vivo, Salvatore Nastasi, special guest della giornata, rassicura sul possibile reintegro in corrispondenza della prossima manovra finanziaria.
Parlare di Fus non significa soltanto parlare dei fondi ministeriali che ogni anno l’Italia dedica allo spettacolo dal vivo: del loro progressivo e inarrestabile assottigliamento, dell’inadeguatezza delle ripartizioni e categorie, così come di alcune forme e criteri, innanzitutto quelli quantitativi, che ne impediscono l’accesso alle realtà più giovani e innovative; parlare di Fus vuol dire parlare di finanziamento pubblico alla cultura e, dunque, di un altro tema che ha sollecitato molto l’ambiente negli ultimi mesi: quello del bene comune. Giulio Stumpo, coordinatore del primo panel Economia della cultura e buon governo del teatro, introduce il tema come primo all’ordine del giorno, invitando i relatori a soffermarsi sulla questione dei rapporti fra pubblico e privato, le due polarità in gioco in tutte le esperienze che si inseriscono nel frame della cultura bene comune.
Partiamo dal pubblico, perché, checché se ne possa dire e qualsiasi cosa ci possiamo inventare (Kattrin, dal fundraising al crowdfunding, ovviamente non fa eccezione), per sviluppare iniziative di carattere culturale, nel contesto di un pensiero progettuale di lungo periodo e di una messa in rete ormai essenziale, il sostegno da parte dello Stato è fondamentale e va rivendicato. Non solo a livello nazionale, ma anche a livello europeo: «Meno F35 e più cultura, meno quote latte e più cultura», sintetizza bene Carlo Testini con uno slogan che racconta di quanto l’Italia, pur essendo la pecora nera d’Europa per i finanziamenti alla cultura, non sia sola: pare che negli ultimi giorni di dibattimenti a Bruxelles, si siano fatti i salti mortali per salvaguardare gli aiuti in ambito agrario, mentre si sono decurtati i fondi per cultura e conoscenza. Ma anche viene ribadita, a grande grandissima voce, la necessità di rivendicare per gli enti pubblici un ruolo centrale, quando non in termini di risorse, quantomeno in quelli di responsabilità, riferimento e coordinamento.
Per passare dall’altra parte, al privato, ci sono realtà, come quella della Fondazione Cariplo di Milano, che, in coincidenza della consueta latitanza (responsabile dell’attuale degrado almeno quanto l’insufficienza di risorse) delle istituzioni pubbliche, ha preso in mano la gran vivacità performativa del territorio e ne ha prodotto stimoli, garanzie non solo di sopravvivenza ma di crescita, opportunità per artisti e pubblico. Per restare sui temi all’ordine del giorno, è utile citare l’intervento di Lisa Cantini del Funaro, realtà privata che opera da 10 anni a Pistoia: «quando c’è un privato che investe risorse per anni in un progetto che poi si rivela virtuoso, a quel punto, è possibile che il pubblico segua il privato, che lo appoggi e lo accompagni?». La domanda era rivolta al Direttore Nastasi, ma si può tranquillamente girare a tutti quanti, amministratori di ogni ordine e grado, ma anche colleghi, che ancora si interrogano sulle buone intenzioni dell’intervento privato nella cosa (che avrebbe dovuto essere) pubblica. Il tema, naturalmente, è a dir poco delicato: che il privato intervenga nel pubblico laddove c’è un vuoto (economico, relazionale, istituzionale) è un’immagine che non può non possedere risvolti di inquietudine anche legittimi; ma la triangolazione fra produzione artistico-culturale, intervento individuale e coordinamento statale è ormai una necessità ed è quanto mai necessario che, in coincidenza di una volontà di contributo altrui, l’ente pubblico assuma una responsabilità diventandone riferimento. Come ogni impianto relazionale, se ben gestito, sta dando e darà i suoi frutti. Ci sono poi esperienze – quella ormai celebre del Valle, che sta per trasformarsi in fondazione, e quella più giovane del Teatro Rossi Aperto di Pisa, solo per citare i presenti a Firenze – che, partendo dai concetti-chiave della cittadinanza attiva, della riappropriazione collettiva della cosa pubblica e dell’intervento contro l’incuria, hanno stimolato il pensiero su nuove modalità di partecipazione, portando a una profonda risignificazione degli stessi termini “pubblico” e “privato”.

Non solo Fus: il teatro e la cultura dopo la “sbornia economicistica”
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L’altro nodo della questione, che torna con forza attraverso diversi interventi, è quello della necessità di mettere lucidamente un freno alla “sbornia economicistica” − la definizione è di Lucio Argano − che ha imperversato di recente non solo sulle prime pagine di tutti i giornali e al primo posto nelle agende di governo, ma anche all’interno delle politiche culturali. Basti pensare a tutti gli assessori che, negli ultimi tempi, misurano i festival in termini di impatto economico: l’emblema di Argano è a dir poco efficace. Per creare iniziative e svilupparle, l’abbiamo già detto, è necessario il finanziamento pubblico, sono tutti d’accordo; ma non è possibile leggere la produzione culturale e artistica (e non solo quella) esclusivamente in termini economico-finanziari. Anche questo è un leitmotiv potente della giornata, che rieccheggia da un intervento all’altro.
Infatti, all’ordine del giorno, c’è tutto il versante della vita quotidiana, della gestione e della pratica del lavoro − questioni che, è incontestabile, hanno a che fare con i soldi; ma che sono anche (e innanzitutto) etica, diritti, mentalità progettuale e sostenibilità. Basti vedere cosa non si sono inventati gli operatori che hanno presentato, nel pomeriggio, le proprie Buone Pratiche. Prosa et Labora è un progetto che, a partire da un festival che si focalizza sulle condizioni di lavoro nel settore, darà vita a un centro di consulenza, offrendo servizi in ambito legale, fiscale, progettuale. E c’è un gruppo di organizzatrici milanesi, AV Turné, che sta creando un portale per stimolare e far incontrare domanda e offerta teatrali, colpendo nel segno il gran nodo della difficoltà di vendere e distribuire teatro di questi tempi: la Galleria dello Spettacolo (GASP) è un database di spettacoli che funziona come un normale motore di ricerca commerciale (in cui si cerca un prodotto secondo alcuni criteri: scheda tecnica, costo, ecc.), che, in particolare, stimola la riconsiderazione anche di spazi e realtà non teatrali (ma “teatrabili”, dicono loro), come musei e residenze private. Sullo stesso tono il progetto Terzo paesaggio di Andrea Perini, altro operatore milanese che sembra aver particolarmente a cuore la sostenibilità della produzione e della distribuzione, a partire − paradossalmente, con tutte le cattive pratiche del nostro ambiente, è proprio il caso di dirlo − dal proprio pubblico potenziale: il progetto si inaugura infatti con un lungo viaggio-inchiesta per tutta Italia, per cercare di scoprire cosa cerchi il pubblico nel teatro; vuole indagare mercati extra-teatrali (come le feste private, in cui si ricollocano i consueti rapporti con la committenza), proporre soluzioni eco-sostenibili e lavorare su un viral marketing tutto particolare, che si fonda, fra le altre cose, su un kit di promozione auto-costruito e quindi facilmente riproducibile da chiunque. Neanche a dirlo, Terzo paesaggio farà il proprio debutto pubblico a “Fa’ la cosa giusta”, fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili in programma a Milano.

Le buone regole del buon governo. Una per tutte: sostenibilità

Giuliano Scabia - foto di Giulio Stumpo

Giuliano Scabia – foto di Giulio Stumpo

L’intervento di Giuliano Scabia ruota tutto intorno al tema delle regole, che si rivelano in effetti fondamentali quando si vuol parlare di “buon governo”: “teletas”, “le regole per ballare”, le prende dalle Baccanti di Euripide (e sappiamo cosa succede, alla fine, a Penteo, che non le rispetta), in cui l’autore, preoccupatissimo per la propria polis che le stava infrangendo tutte e andando a rotoli, mette in guardia i cittadini sull’osservanza delle regole. Una per tutte, che, come si sarà già visto, rincorre lungo tutta la giornata: sostenibilità. Per avvicinare un tema così presente − dai teatri occupati di cui si è detto alle Buone Pratiche appena ricordate, fino alla volontà di ribellarsi alla “sbornia economicistica” che sembra aver ucciso la realtà −, si può percorrere la strada in compagnia di Monica Amari, il cui intervento ha emblematicamente chiuso la sessione fiorentina; autrice di un libro dal titolo a dir poco calzante (Manifesto per la sostenibilità culturale), è una guida utile per andare a rintracciare il senso di termini e prospettive che sembrano ormai calcificate (e dunque, spesso, disinnescate) dall’uso comune e disinvolto che se ne fa ogni giorno. Ha raccontato del proprio percorso di ricerca, nato da una domanda che è nelle teste e sulla bocca di tutti: perché salvare l’ambiente e l’industria, l’agricoltura e l’economia, ma non la cultura? La risposta che si è data risale all’impostazione del documento europeo per i modelli di sviluppo, siglato a Lisbona nel 2008: l’Unione interveniva in termini di sostenibilità ambientale, economica e sociale, prevedendo quindi per questi tre settori finanziamenti e interventi che ne stimolassero processi e condizioni di sviluppo; della cultura neanche l’ombra. È un buon inizio (ed è stato un ottimo finale), ma a ripercorrere le Buone Pratiche 2013, il tema della sostenibilità non si ferma qui: merita una nota il panel sulle selezioni coordinato da Giovanna Marinelli, in cui le relazioni sono andate a scavare con tenacia tanto fra le buone regole del buon governo (tanto per dirne qualcuna, l’esperienza dei selezionatori e gli eventuali conflitti d’interesse) che sull’altra faccia della medaglia, ovvero quella della sostenibilità: un punto capace, non certo di riassumere la complessità dei discorsi, ma quanto meno di rendere l’idea è quello, duplice, della contestualizzazione e delle finalità. «Uno dei maggiori guai dell’umanità non consiste nell’imperfezione dei mezzi, ma nella confusione dei fini», è la citazione da Einstein che la Marinelli appone all’incipit del proprio panel: il richiamo lampante è di Renato Palazzi, che trova una buona regola delle selezioni e dei selezionatori nel produrre forme e bandi quanto mai specifici e precisi, tagliati sulle espressioni con cui ci si trova a confrontarsi; è così che il Comune di Milano non eroga convenzione a teatri in genere, ma si avvale di contributi ad hoc, ad esempio, per coloro che operano su quartieri periferici o che non fanno della presentazione di spettacoli il proprio centro operativo, ma si impegnano in residenze e laboratori. C’è sempre un territorio di riferimento, che va ascoltato: è anche la prospettiva di Ilaria Fabbri (Regione Toscana), per cui «le leggi non si fanno nelle solitudini dei nostri uffici o delle nostre case»; è da qui che è nato il progetto regionale delle residenze, provando a dare una forma a espressioni già manifestate e radicate presso il territorio in cui si opera.

Dalla formazione del pubblico allo spettatore attivo

foto di Rosy Battaglia

foto di Rosy Battaglia

Finalità chiarissime e capacità di ascolto, di contestualizzare il proprio intervento declinandolo site-specific, sono le due polarità della questione della sostenibilità che segnano anche il panel dedicato al pubblico e alla sua formazione, l‘altro attratore intorno a cui sembrano muoversi e incontrarsi gli interventi della giornata, fra testimonianze e proposta di Buone Pratiche in fase di messa a punto o progettuale. La domanda è lanciata dai padroni di casa, la Presidente (Beatrice Magnolfi) e la Direttrice (Patrizia Coletta) della Fondazione Toscana Spettacolo: proprio oggi, in tempi di pluri-ribadita crisi, è importante capire perché gli spettatori continuino a concedersi il lusso di andare a teatro. Risposte fra loro simili arrivano in frammenti nel corso della giornata: per dirla in breve, si va perché a teatro è una cosa che non si consuma soltanto, si fa, e per di più assieme; una posizione per tutti, restando in tema di sostenibilità culturale, è quella di Andrea Nanni, direttore di Armunia, che nei suoi anni di lavoro sembra aver profondamente trasformato il festival estivo di Castiglioncello, ritrovando un impianto di relazione inedito con i cittadini e il territorio: dalla presenza negli istituti scolastici del livornese − «è un lavoro che si fa con, non su le scuole» − ai percorsi con le scuole di danza in collaborazione con Virgilio Sieni, dal coinvolgimento del coro di Rosignano assieme a Federico Tiezzi, a Foresta bianca, album di storie locali costruito da un gruppo di giovani guidati da Massimo Balduzzi e Stefano Laffi a partire da fotografie e racconti di famiglia. Un approccio del genere è a dir poco emblematico di cosa possano significare oggi termini spesso svuotati, ma mai abbastanza sviscerati, come cittadinanza attiva e partecipazione, rapporti con il pubblico e con il territorio.
La cultura non è solo intrattenimento e svago: per Carlo Testini fa parte a pieno titolo del welfare, corrispondendo a una fetta importante del benessere del cittadino; per Monica Amari, la cultura serve a creare valori e modelli di comportamento condivisi, a interiorizzare le regole e, dunque, a diffondere l’etica e forse proprio per questo, sospetta, non è stata inclusa fra i modelli europei di sviluppo, emarginazione che ha reso più facili tagli e disattenzioni. Ma, per uno Stato che taglia e non ci vede, ci sono i tantissimi occhi degli operatori e degli artisti: così, mentre la resistenza e la sopravvivenza si sono fatte pratiche di ordinaria follia che si assottigliano sempre di più (e non solo in questo settore), gli spettatori continuano ad andare a teatro. Perché, l’aggancio viene da Armunia, ma è Oliviero Ponte Di Pino a esprimerlo, negli ultimi anni – complici tutte le iniziative, e altre, che si sono viste in questa direzione –, si assiste a un passaggio dallo spettatore tradizionalmente inteso (il fruitore di spettacoli) allo “spettatore attivo”, che viene coinvolto nei processi, partecipa e crea, condivide e si confronta (con artisti e altri spettatori), vive collettivamente l’esperienza artistica e – nonostante la crisi, i tagli, l’incuria – continua a farne un centro della propria esistenza di cittadino.
Indubbiamente, a sanare le condizioni sempre più indicibili del settore, non saranno sufficienti né tutte le straordinarie invenzioni degli operatori e forse nemmeno la diffusione dello spettatore attivo; ma, se questo è il punto di partenza rinegoziato insieme ogni giorno, c’è da restare a vedere, nei prossimi anni, chi avrà il coraggio di chiudere una stagione o tagliare le gambe a un festival, che energie si troverà davanti a difendere il teatro.

Roberta Ferraresi

Quanta Europa alle Buone Pratiche di Ravenna!

Le Buone Pratiche di ateatro, a cura di Oliviero Ponte di Pino e Mimma Gallina, arrivano al Teatro Rasi di Ravenna: uno dei numerosi incontri preparatori e collaterali dell’appuntamento annuale (nel 2013 a Firenze, il 9 febbraio), che ha scelto proprio questa città, che da tempo sta lavorando intensamente per la propria candidatura a Capitale Europea della Cultura 2019, per parlare di Europa. Un pomeriggio denso quello al Rasi, in cui artisti e operatori si avvicendano con interventi che parlano di Italia e di dimensione internazionale, di progettualità indipendente e di relazioni, di esperienze fatte, di vittorie, fallimenti e di pensieri futuri.
Quello che ne esce è un vivace spaccato dell’operatività emiliano-romagnola: a partire dall’appassionato intervento di Alberto Cassani e Lorenzo Donati (rispettivamente coordinatore e componente del comitato artistico) sulle attività fatte e che si faranno in vista della candidatura di Ravenna 2019, un lungo impegno che parte fin dal 2007 e arriva a oggi, fra rapporti città-territori, trasversalità culturale e istituzionale, coinvolgimento diretto dei cittadini. Ma la storia europea dell’Emilia Romagna non si ferma qui: anzi, dagli interventi e dai contributi, emerge un autoritratto preciso di una comunità varia e molteplice di artisti che ha scelto la propria identità europea da tempo – contesto all’interno del quale la candidatura di Ravenna è l’esito più attuale.

Il Teatro Rasi di Ravenna

Il Teatro Rasi di Ravenna

La cultura italiana in Europa: qualche dritta per il futuro
Cominciamo questo tentativo di avvicinamento e di sintesi a partire dal futuro: con Giovanni Sabelli Fioretti di Perypezye Urbane – cui è affidato un intervento sulle nuove politiche culturali dell’Unione, ora in fase di discussione e messa a punto – si parla dei prossimi bandi, di opportunità e di obiettivi, di analisi di ciò che è stato fatto e di proposte (fra cui non poche “buone pratiche”) per gli anni a venire. Buone notizie per un budget che, proprio in tempi di crisi, si propone (ancora non è confermato) addirittura oggetto di un aumento del 37%: tante novità ancora in fase di ultimazione, che però si annunciano già interessanti, con un particolare accento sui processi formativi, finanziari (l’idea è quella di una creazione di rete di istituti bancari disponibili ad agevolare gli investimenti in cultura) e non solo. Sul crinale della terza generazione di una politica culturale condivisa, quella che andrà dal 2014 al 2020, l’Europa ha individuato 4 punti cruciali da affrontare: digital shift, accesso ai finanziamenti, frammentazione e diversità linguistica, settorializzazione – un nodo, quest’ultimo, ripetutamente sollevato anche dalle Buone Pratiche stesse nelle passate edizioni.
L’altro elemento che merita indubbiamente attenzione è quello dell’audience development, ovvero del lavoro sul pubblico. Secondo l’Europa, non solo è importante avviare interventi che permettano di incrementare i numeri dei fruitori di cultura, ma quello che è fondamentale è che questi non siano più soltanto “consumatori”: lo spettatore, nella visione europea, non può più essere soltanto considerato un elemento passivo, ma deve essere direttamente e attivamente coinvolto tanto nelle dinamiche della progettazione culturale, che in quelle della creazione artistica.

Cosa si fa di europeo in Emilia Romagna
Un buon punto di partenza, oltre che una preziosa occasione di incontro e approfondimento, è la folta e densa carrellata di quello che si fa già di “europeo” in Emilia Romagna: una dimensione di lavoro e di stimolo radicata ben oltre e ben in precedenza rispetto alla candidatura di Ravenna a Capitale Europea della Cultura 2019. È una lunga storia di bandi, programmi ed esperienze quella portata da Micaela Casalboni del Teatro dell’Argine di San Lazzaro di Savena (BO), di approfondimenti sempre ulteriori delle realtà africane quella di Franco Masotti del Ravenna Festival, di quartieri cosmopoliti che entrano in reciproca relazione quella di Laura Gambi del ravennate CISIM.
Ma rispetto al discorso dell’audience development – che nell’ottica europea già ricopre un ruolo-chiave in termini di partecipazione e cittadinanza attiva e, come abbiamo visto, sarà sempre più al centro dell’attenzione – un discorso a parte va fatto per Il ratto d’Europa, progetto ideato e diretto da Claudio Longhi che sarebbe ridotto definire “teatrale”: non solo uno spettacolo (ma anche: l’allestimento è previsto per la primavera 2013), quanto piuttosto un lungo percorso in forma di atelier, realizzato assieme a numerosi collaboratori, che mira a ricostruire un’archeologia dei saperi comunitari, come recita il sottotitolo. Come? Andando a cercare i termini e la storia dell’identità europea con i cittadini, all’interno di una fitta costellazione di eventi (letture, laboratori, concerti…) e di un processo drammaturgico che intende sperimentare nuove modalità di relazione fra la pratica scenica e la sua comunità di riferimento, con il coinvolgimento di associazioni e scuole, gruppi e istituzioni culturali fra Modena e Roma.
Facciamo un passo indietro: 2011. In coincidenza all’esplosione del «caso spread», il regista – anche docente al Dams di Bologna – saggia le reazioni dei propri studenti: la dimensione della cittadinanza e dell’identità europee scarseggiano. Quello che lo ha colpito è lo «scarto enorme» che, a quell’altezza, era possibile osservare fra l’incidenza di una condizione non solo finanziaria che metteva a rischio addirittura la sovranità nazionale e il senso comune e diffuso di (poca) appartenenza alla realtà dell’Unione. E proprio da qui si potrebbe far partire l’urgenza con cui si è proposta e si sta sviluppando l’articolata progettualità del Ratto, un percorso polifonico e multilivellare che fa delle potenzialità del teatro uno strumento per stimolare proprio la cittadinanza attiva e la partecipazione, i processi identitari e di condivisione.

Parlando di collaborazioni: reti? Piuttosto relazioni, persone, condivisione
È Silvia Bottiroli, direttrice del Festival di Santarcangelo, a introdurre, in concreto, di cosa si tratti oggi quando si parla di collaborazioni internazionali, in un intervento densissimo di spunti e di domande. Si parte da «cos’è e che ruolo può avere un festival in questo momento?», per rivendicare la necessità di una linea di ricerca curatoriale, capace di porsi continuamente interrogativi sull’arte (ma anche e soprattutto sul mondo), di creare contesti, con tempi (lunghi) e spazi (articolati) di confronto reale. È, del resto, quello che abbiamo visto succedere alle rigenerate ultime edizioni del festival romagnolo: una intensa operatività annuale costruita da percorsi di creazione, confronto tanto col territorio che con la dimensione internazionale, incontri, in cui «ciò che accade intorno agli spettacoli è fondamentale per creare un terreno in cui poi possa succedere qualcosa». In questo senso, si ripresenta la dimensione del lavoro internazionale secondo un’ottica e un approccio diversi: Santarcangelo non fa parte dei network più celebri, ma sceglie di volta in volta i propri interlocutori, «alcuni punti» da approfondire (pare che un esito di tale curiosità sarà presente, con uno sguardo sulla Lettonia, nell’edizione 2013) e «le relazioni con alcune persone», perché, più che appartenere a una rete a priori, è importante «riconoscersi», «scegliersi», «approfondire il proprio lavoro», per avviare «pratiche comuni» e processi di condivisione reali.

Europa per necessità…
«Si potrebbe raccontare la storia del teatro italiano – lo spunto è di Laura Mariani – dal punto di vista delle costrizioni economiche che l’hanno segnato, e di come queste siano sempre diventate basi per rilanciarlo». È vero, in questo caso, che nella condizione di progressiva incuria in cui vessano le arti (non solo performative) nostrane, tanti artisti si trovano davanti alla scelta obbligata della migrazione, seppure temporanea o intermittente. Scelgono le Americhe, il Nord Europa, il Belgio, alcuni l’Oriente, alla ricerca di un sostegno e di nuove opportunità, soprattutto di una situazione in cui il loro venga, a tutti gli effetti e livelli, considerato quel che è, cioè un lavoro. Così, fin dalla nascita del teatro professionista nel Cinquecento, gli artisti italiani eleggono altri luoghi, altre lingue, altri modi a proprio territorio d’adozione. Intanto, le cose cambiano e l’identità transnazionale la fa ovunque da padrona: se inizialmente le produzioni straniere erano relegate, con qualche punta di «curiosità anche esotica», in spazi e rassegne ad hoc, oggi esistono ampie zone di sensibilità comune che prescindono dalla provenienza. È così per Marco Cavalcoli di Fanny & Alexander che parla di «fasce linguistiche orizzontali», per Daniela Nicolò di Motus, per cui il punto di incontro si trova nell’urgenza delle tematiche trattate e nel loro assorbimento nei dispositivi drammaturgici. E, in molti casi, l’esperienza all’estero diventa stimolo irrinunciabile: ne parla Benedetta Briglia (Socìetas Raffaello Sanzio), fra l’individuazione di un aumento delle richieste di creazione site-specific e del singolare invito al riallestimento di vecchie produzioni della compagnia, «un’operazione di disseminazione culturale che permette poi altre iniziative produttive», che, forse, altrimenti, non si riuscirebbe in tutto a sostenere.

Eresia della felicità (Santarcangelo 2011)_foto di Claire Pasquier

Eresia della felicità (Santarcangelo 2011)_foto di Claire Pasquier

…ma non solo: «i bandi non servono solo per vincerli»
Ma non sono solo la necessità, la difficoltà o l’istinto di sopravvivenza – pure sempre più pressanti – a portare gli artisti italiani a guardare (e lavorare) fuori dal proprio Paese. Lo dicono un po’ tutti: da Fiorenza Menni di Teatrino Clandestino, che racconta la propria esperienza presso una comunità rom in Macedonia come originata da una necessità di guardare un panorama sconosciuto, di andare lontano, di coltivare uno sguardo da fuori, per poter poi spiegare la propria scelta dell’arte in Italia, fino a chi considera la progettualità europea – si abbia o meno vinto il bando in questione – un’opportunità per crescere, conoscere, cambiare. Andare in Europa non è solo un’urgenza, «un discorso di mercato e produzione»: a sottolinearlo è Daniela Nicolò di Motus, che, attraverso la propria esperienza, ha trovato altrove innanzitutto grandi opportunità di ascolto. Si parla di persone e di incontri, di vicinanza e condivisione, via via, fino alla – non è esagerato definirla “capitale” – esperienza del Teatro delle Albe con Eresia della felicità a Santarcangelo 2011, creazione a cielo aperto allo Sferisterio cui hanno preso parte le tantissime non-scuole che Marco Martinelli e le sue guide hanno attivato negli anni. Non volendo attingere ai fondi del festival, racconta Marcella Nonni, si è tentata la partecipazione a un bando europeo per finanziare l’iniziativa; quando quest’ultimo non è andato a buon fine, sono state coinvolte le singole città – dalla piccola Seneghe in Sardegna alla belga Mons, da Rio de Janeiro al Senegal a Scampia –, che si sono attivate nella messa in campo di mezzi e opportunità.
Ancora relazioni vive, concrete, innanzitutto umane e biunivoche, per artisti e cittadini che l’Europa, pezzo per pezzo, la stanno costruendo davvero.

Roberta Ferraresi