critica festival ipercorpo

Cos’è Ipercorpo oggi: intervista a Claudio Angelini

foto di Sandra Lazzarini

Abbiamo incontrato Claudio Angelini, fondatore della compagnia Città di Ebla e direttore artistico del Festival Ipercorpo che quest’anno ha avuto luogo in una struttura ormai chiusa da 15 anni, ossia il vecchio deposito ATR di Forlì. Davanti a un bicchiere di vino ha avuto luogo un bel confronto in cui si sono sottolineati dei percorsi condivisi, ma soprattutto che cosa significhi essere spettatore teatrale e portare avanti un Festival come Ipercorpo.

Che cosa significa essere spettatori di teatro oggi?
Tutto quello che aveva teorizzato Guy Debord si è avverato: siamo nella società dello spettacolo e siamo continuamente spettatori, anche nostro malgrado. A mio parere essere spettatori del teatro – intendo in termini greci, “théaomai”, ossia con un’esperienza della visione consapevole – oggi è un fatto di grande responsabilità: diversamente dalla frequentazione dell’arte contemporanea, recarsi a teatro dà allo spettatore un ruolo di responsabilità, perché implica essere tutti assieme in uno stesso posto per una certa durata e contribuire alla creazione. Che cos’è infatti il fatto artistico? È il rapporto tra ciò che accade e ciò che lo spettatore guarda (tutti gli spettatori, sia chiaro). Parlo dello spettatore come qualcuno che fa parte di questa esperienza, posso dire liturgica, religiosa, nel senso di religio: che tiene uniti, che lega in una comunità istantanea. Credo che sia un atto di responsabilità molto forte, bellissimo, importante, di cui avverto sempre più il bisogno: anche chi magari non arriva a formulare un pensiero di questo tipo, credo percepisca lo scarto fra la dimensione dello spettatore continuo – dei grandi schermi, della musica ovunque, della spettacolarità dei centri commerciali… – e dell’essere spettatore per scelta, a teatro, dove si chiede un’operazione di scarto completo. Quale che sia l’opera non è importante, ma è proprio quello stare, è la prossimità. Fare lo spettatore di teatro oggi è un atto politico.

Ipercorpo – foto di Sandra Lazzarini

A questo punto diventa molto interessante l’esperienza dello spettatore in quella chiave che non è esattamente di attraversamento; c’è la necessità di mettersi in una condizione di ascolto. Io sono molto felice del nostro pubblico, perché percepisco una grande attenzione ed è un pubblico estremamente fidelizzato che si sta sempre più ampliando. Ipercorpo non ha nulla a che vedere con gli altri festival: non siamo operatori e non lo vogliamo diventare. Cerchiamo di curare il più possibile gli incontri, perché questo è un festival fatto dagli artisti che sono quasi tutti amici, che accettano un dialogo con questa condizione.

Come è nato Ipercorpo?
È nato da una chiamata fatta dai Santasangre in un momento in cui nessuno riusciva a “girare”. La questione era: “non ci sono spazi dove possiamo farci vedere? Creiamoli noi”. Così fecero una serie di inviti, nati casualmente, a compagnie quali Cosmesi, Ooffouro, gruppo nanou, noi. L’idea era di poter moltiplicare questa situazione: Ipercorpo doveva diventare un festival itinerante che chiunque poteva accogliere, invitando le 5 compagnie iniziali e aprendo poi ad altri gruppi. Luca Brinchi me lo propose e noi lo portammo subito a Forlì, poi tornò a Roma di nuovo – facemmo 3 “Ipercorpi” nel 2006: Kollatino, Forlì, Kollatino. La nostra speranza era che il progetto potesse gemmare e come Città di Ebla abbiamo portato avanti questa esperienza: ci siamo trovati immediatamente, è stato un apparecchiare la tavola e invitare una serie di commensali che prima di tutto sono artisti; fuori, all’esterno, questo festival è percepito come qualcosa di molto più grande di quello che è; in realtà ci sono pochissimi soldi ma un forte legame tra persone.

Credo che la cosa interessante sia proprio intercettare delle agglomerazioni intorno a una ricerca, a un tipo di umanità che si incontra…
Questi nomi che abbiamo fatto per me sono gli amici e compagni di strada degli ultimi anni: c’è un dialogo intensissimo, c’è grandissima voglia di confrontarsi. Cosa significa fare rete non lo so, ma il livello di scambio è profondo, è su tutti gli argomenti.

Diversamente dagli altri anni, quest’anno Ipercorpo si svolge in un deposito di autobus dismesso della Città di Forlì, l’ATR

Sassi vs. Trasmutazione Eucaristica – installazione di Ivan Fantini. Foto di S. Lazzarini

Città di Ebla è una compagnia di produzione che però porta avanti questa esperienza di festival o evento, come si vuole chiamare. È una parte del lavoro che svolgiamo ma si inserisce completamente in un percorso e quindi deve essere lanciata al pari di una creazione artistica: devi metterti nelle condizioni di rischiare e non puoi rimanere fermo. Dopo 2 o 3 anni in cui la situazione dal punto di vista degli spazi – gli spazi per me sono sempre una questione veramente importante – si era un po’ fermata, era assolutamente necessario svoltare, cambiare; non c’erano più stimoli. Non può essere semplicemente una legge regionale che ti tiene ancorato a un progetto che devi svolgere: se non ha più senso un progetto lo chiudi. E quindi lo devi spostare.

Avendo noi da anni una collaborazione con quest’azienda di trasporti in qualità di sponsor, questo luogo, chiuso da 15 anni, mi ha colpito. È una costruzione del razionalismo del ventennio fascista che qui da noi ha costruito parecchio; è del ’35, di progettazione Fiat, che allora gestiva tutto quello che era su gomma, autobus compresi. Ma soprattutto è una costruzione estremamente ardita: un solaio incredibile a vetri senza colonne, uno spazio bellissimo, con tecniche di realizzazione costruttiva dell’epoca – tutte le travi sono state conciate sul posto e poi realizzate, tecniche che oggi, in cui tutto è prefabbricato, non esistono più. Poi tante chiacchiere, tanti progetti, tesi e studi di fattibilità, ma nessuno che tenta di fare una operazione. Cosa succede? Mi apre definitivamente la mente l’incontro con Salvatore Settis, uno dei più importanti esperti di restauro e di tutela che abbiamo in Italia e forse nel mondo. Ho letto Italia S.p.a. in cui dice una cosa essenziale: l’arma del diritto, la legge, è una questione fondamentale. Avere buone leggi permette di avere un certo tipo di società; avere cattive leggi ti porta un altro tipo di società. Fa un esempio sulla tutela: è una questione rinomata che in Italia c’è il 30% del patrimonio artistico mondiale e il motivo è semplice; alla fine dell’Ottocento, ben prima della Costituzione e della Repubblica, l’allora sistema italico si diede delle leggi di tutela del patrimonio, cosa che non ha fatto nessun altro paese al mondo. Questo patrimonio, croce e delizia, è derivato da una legge che ovviamente stanno demolendo. Ma si resiste. Fino a 150 fa, dal rigattiere fino alla commissione cardinalizia, si costruiva con una logica unitaria; oggi invece ognuno costruisce a modo suo, infatti viviamo in un mondo che si è abbruttito potentemente e velocemente. Quella questione unitaria era legata a una modalità costruttiva diffusa che riguardava tanto l’artigiano che il capomastro e così si è creato il paesaggio italico, quello del Gran tour di Goethe. Settis dice che questi elementi di tutela sono una nostra risorsa e soprattutto sono parte del nostro sguardo; significa che nelle tue vene scorre quella visione, quell’immagine. Non è solo un patrimonio monumentale, ma diventa immediatamente un patrimonio umano, perché il monumento ha a che fare con il tuo sguardo, anche con il tuo attraversamento di passaggio.

Ora, l’ATR: è un problema per un piccolo comune storicamente di centro-sinistra come Forlì, perché non sanno cosa farne ma è sotto tutela quindi non si può abbattere. Ed è al limite del vecchio perimetro della città: quella circonvallazione corrisponde alle vecchie mura. A 300 metri c’è la piazza. In un centro storico, come accade in tutte le province d’Italia, in cui gli autoctoni vanno verso la periferia e il centro si popola di altre culture ed è cambiata la geografia antropologica. Ma qual è la risposta a questo sistema? La cultura, è evidente. Noi siamo portatori di pace, lo dice bene Cesare Ronconi del Teatro Valdoca. Quindi se c’è una possibilità per stare in una società che è profondamente cambiata è anche quello di cui ci occupiamo noi.

È proprio la risposta della modernità che, attraverso un processo di riqualificazione, rinnova il monito alla dispersione…

Oku – installazione di Elisa Gandini. Foto di S. Lazzarini

Questi luoghi sotto tutela, che quindi non si possono abbattere e su cui non ci sono particolari idee, sono un punto di crisi del nostro sistema, sono un nervo scoperto dove ci dobbiamo infilare noi. L’idea è anche questa: dire che non bisogna tirar fuori 3 milioni di euro per ristrutturare, questo è un luogo che parla, la struttura è in buono stato… È una struttura che con cifre minime è riattivabile immediatamente, si può riempire di umanità. L’arte ha delle risposte a questi spazi indecisi, questi luoghi residuali per dirla alla Gilles Clément.

Quindi, una compagnia che contiene nel suo nome “città” dopo 7 anni corona un progetto di città. Finalmente riesco a fare una piccola città ponendo delle questioni di carattere politico: dicendo, “qui ci sono luoghi riattivabili, si può fare”. E hanno forse bisogno di questo, non dell’ennesimo centro commerciale. Purtroppo non così facile.

Fa piacere conoscere questi passaggi, perché facciamo una vita che è un’esperienza di assimilazione un po’ rapida intorno all’organizzazione dei festival e tutto quello che poi porta alla scena. Credo che fermarci un attimo sia fondamentale per ragionare su quello che c’è in mezzo, fra l’idea che porta a fare una cosa del genere e la scena. Sono passaggi molto importanti, svelare i meccanismi…
Credo che abbiamo bisogno di umanità, in maniera allargata – che poi la società vada in un’altra direzione è condivisibile, ma io credo che queste cose siano contagiose: l’arroccamento produce arroccamento, invece l’apertura produce apertura. Forse tutto è frutto anche di questo periodo in cui non ci sono molti elementi di condivisione: mi viene in mente il titolo dell’edizione del Festival Crisalide di quest’anno (storico festival forlivese della compagnia Masque Teatro ndr), Winter Years; intendendo dire che nel periodo invernale le comunità si avvicinano proprio per necessità, e questo genera umanità. Due o tre volte l’anno organizziamo degli incontri chiusi che chiamiamo “Simposi”; nel 2007 l’ospite fu Giovanni Lindo Ferretti che, parlando di guerra, disse che ci trovavamo in un periodo di “anteguerra” e oggi, alla luce dei fatti, aveva ragione: la situazione si è profondamente incrudita ma di contro la gente inizia a cercare umanità.

Roberta Ferraresi / Simone Nebbia / Carlotta Tringali

 

La pausa silenziosa di gruppo nanou

Recensione a Sport – di gruppo nanou

foto di Sandra Lazzarini

Esiste un territorio arduo da percorrere per i suoi confini ristretti, fuggevoli e mai ben definibili; una zona allo stesso tempo vastissima ma senza terra da calpestare. Per uscirvi si deve attraversare una sottile linea, una specie di soglia invisibile: dalla sterminata distesa del pensiero si giunge all’azione, ma oltrepassando una sospensione, quell’attimo che segue l’intenzione e precede il movimento. Una frazione temporale a cui solitamente non si fa neanche caso, tanto è marginale. È lo spazio bianco che lega due parole sulla carta, sono le virgole, la punteggiatura; sono le pause, dove a volte si nasconde il vero significato di ciò che si esprime fisicamente e verbalmente; sono i silenzi e le attese, appese, che diventano l’intensità e la carica per compiere un’azione postuma.


Gruppo nanou
indaga questa sospensione, la stasi prima del movimento, lo spazio indicibile e inconsistente ma significante che lega l’intento mentale all’azione fisica. In Sport la performer Rhuena Bracci è una ginnasta alla ricerca della perfezione del gesto, di una pulizia coreografica e una precisione che coniughi forza e delicatezza, potenza ed eleganza.
Ideato da Marco Valerio Amico insieme alla stessa e unica interprete, lo spettacolo colpisce per la sua costruzione curata nei minimi dettagli, i quali intrecciandosi sembrano comporre gli ingranaggi di un orologio puntuale. Il suono curato da Roberto Rettura è un mescolamento di applausi lontani, respiri e ovattati rumori provenienti da un altrove, un ambiente ginnico vissuto da una collettività; le luci illuminano solamente dei particolari, lasciando la performer in penombra, nella solitudine dei suoi pensieri.

foto di Laura Arlotti

I singoli elementi (soundscape e disegno luci) concorrono a far risaltare ancora di più la concentrazione e la determinazione di questa donna, la sua personale sfida fisica nel compiere un movimento senza alcuna sbavatura. Il rimando alla ginnastica artistica è palese e allo stesso tempo rimodellato per la migliore riuscita poetica di Sport: la classica trave di equilibrio diventa un fascio di luce in terra attraversato dal rapido e delicato passaggio di piedi e mani in volteggio di Rhuena Bracci; non ci sono parallele asimmetriche ma una struttura cubica più complessa che permette maggiori possibilità di eleganti scivolamenti corporei, lasciando lo spettatore con il fiato sospeso.

La coreografia affascinante di passaggi complessi che intrecciano l’alta tecnica alla delicatezza del movimento sono il risultato di una determinazione acquisita nell’attimo prima di gettarsi in quel vuoto centrale proprio della struttura in metallo: come dovesse tuffarsi al suo interno e cercare appigli per poi risalire, Rhuena Bracci sottolinea quella sospensione. La pausa dell’essere, solitamente impercettibile, in Sport si dilata e si mostra facendo comprendere come in fondo sia proprio in quel frattanto che l’azione acquista una possibilità significante e il performer raccoglie tutta la forza per affrontare il momento agito: la messa in pratica di un disegno fisico-psichico e spaziale-mentale.

Visto a Ipercorpo 2011, Forlì

Carlotta Tringali