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Si chiude il Festival dei 2Mondi e l’esperienza E20umbria

banner_e20umbriaSi è chiusa la 56edizione del Festival dei 2Mondi di Spoleto e anche l’esperienza di E20umbria, l’aggregatore di blogger turistici e teatrali arrivati dalle diverse città italiane per restituire, attraverso la scrittura, gli spettacoli, i luoghi, gli artisti e l’atmosfera di un festival storico.

Perché Spoleto, perché i due Mondi? Come ha ben scritto in un altro approfondimento Roberta Ferraresi i due Mondi a cui si faceva un tempo riferimento, quello Italiano e quello d’oltreoceano, si sono ad oggi moltiplicati, aprendo ad altre possibilità, non solo territoriali (leggi l’articolo). Con E20umbria si è cercato di collegare ancora altri due mondi: quello reale e quello del web, quello tangibile e quello virtuale; un modo per arrivare a chi non vive il festival fisicamente, ma di riflesso ne legge; un modo altro di attraversare un mondo fondato sulla performance live; un modo per avere e lasciare una traccia che rimanga nel tempo, oltre che nella memoria di chi l’ha vissuto in prima persona.

Chiesa di San Salvatore

Chiesa di San Salvatore

Si è cercato di bloccare schegge di tempo, emozioni, esperienze provando a tradurre in parole le escursioni nel territorio umbro, le passeggiate per i condotti spoletini, le mostre alla Rocca Albornoziana – edificio posto nel punto più alto della città, suggestivo e affrescato con dipinti del 1440 – o a Palazzo Collicola (ne abbiamo parlato in un parallelo tra Mark Morris e Gianfranco Chiavacci e nel Viaggio tra le mostre di Spoleto56), la bellezza eterea delle chiese longobarde, le note dei concerti che si sono susseguiti giorno dopo giorno (dal talentuoso Raphael Gualazzi all’orchestra della Scala diretta da James Conlon che ha chiuso il Festival con il concerto in piazza Duomo); ma soprattutto, mentre compito dei blogger turistici è stato quello di prendere avidamente tutto quello che veniva proposto a livello escursionistico, i blogger di teatro cercavano di incastrare il proprio calendario personale per vedere gli spettacoli dei grandi artisti attesi e passati per la 56edizione di Spoleto. Non stiamo a ripeterli tutti, qui trovate tutti gli articoli che Il Tamburo di Kattrin ha prodotto durante questa esperienza (link).

Parte interessante di questo progetto pilota è stato poter mescolare passeggiate per boschi a visioni di spettacoli teatrali e danzati, mostre a concerti, turismo culinario a scoperte dei beni storico-artistici di Spoleto, dove può capitare, per esempio, di entrare dentro una chiesa del 1700 e poi trovare un cripta risalente al 1200. Sugli spettacoli si sono riversate sensazioni e emozioni acquisite durante l’arco della giornata: impossibile scindere performance e territorio; le location mozzafiato hanno un’incredibile potenziale di suggestione che ricade su un pubblico storico che torna al Festival anno dopo anno, prendendosi ferie e vacanze.

Un progetto pilota che ha visto impegnata una grande quantità di energia, tra coloro che hanno ideato e20umbria e coloro che sono stati chiamati a partecipare. Kattrin ringrazia e saluta con affetto tutti i compagni di viaggio incontrati durante il Festival dei 2Mondi e coloro che hanno reso possibile questa esperienza!

Carlotta Tringali

Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto

 

 

2mondi. Anzi no, molti di più

L'immagine della 56a edizione del Festival dei 2Mondi, disegnata da Sandro Chia

L’immagine della 56a edizione del Festival dei 2Mondi, disegnata da Sandro Chia

Si dice che quei “due mondi” che danno nome al festival possano rappresentare l’incontro, che qui a Spoleto si è svolto ogni estate per più di trent’anni, fra canone e avanguardia, tradizione e innovazione. In realtà, l’idea del fondatore, Gian Carlo Menotti, pare fosse più di stampo geografico: si trattava di Italia e Stati Uniti – il festival aveva difatti un gemello americano in South Carolina (poi anche a Melbourne) e ha avuto il merito di portare nel nostro Paese le eccellenze della scena internazionale. Ma, comunque sia, in effetti cambia poco, se pensiamo a quando potessero apparire distanti, in quegli anni (la fondazione è del ’58) l’Europa della ricostruzione, appena uscita dal secondo conflitto mondiale, e l’America già in odore di beat, la provincia italiana che stava passando dall’arretratezza rurale alla modernità made in Usa a suon di tv e pin-up, chewing-gum e coca-cola, cult del cinema e della musica e elettrodomestici vari. La sperimentazione (non solo) artistica, anche teatrale, fuggita dalla follia dei totalitarismi del vecchio continente, aveva trovato casa proprio oltreoceano: ai bistrot parigini della belle époque, ecco sostituirsi le vertigini della New York di Pollock, di Cage e Cunningham, degli happening e della performance.

Per cui, sì: Italia e Stati Uniti. Ma con tutto quel coté di immaginario, politiche, culture e conseguenze tutto intorno, a stringere e disegnare i termini della relazione. Dunque anche tradizione e avanguardia, se si pensa alla pietra immutata di un pacifico borgo del sud dell’Umbria che ha visto passare per le proprie strade l’Orlando di Ronconi-Sanguineti, il teatro povero di Grotowski come Visconti, De Filippo e Nino Rota, poeti come Pound, Neruda, Ginsberg e via così, ogni estate, di spettacolo in spettacolo. La lirica e la prosa, la sperimentazione e la rappresentazione. Per una nuova eresia visiva di Bob Wilson, ecco una Napoli milionaria, per il ritualismo del maestro polacco, gli ultimi frutti di una regia critica ormai in via di estinzione. Il tutto affiancato in un unico programma, che fin dai suoi esordi ha provato a richiamare insieme, nei bei vicoli spoletini, arti visive e teatro, musica, opera e cultura a tutto tondo.

Ma che succede quando, in questi tempi cosiddetti e presunti post-ideologici, si dice che sia finita la storia, così come le grandi narrazioni, che siano crollati i canoni e i riferimenti? E, di conseguenza, tutto è già stato fatto, nessuna avanguardia è più possibile, neanche come idea? Una parola ormai dal forte retrogusto vintage, che nessuno usa quasi più, che implica un’altra faccia della medaglia che sconfina nell’esasperazione del consumismo, nell’ansia del nuovo che ha portato, oltre che sperimentazioni di indimenticata bellezza, anche il recente crollo socio-finanziario; una parola che si sussurra a bassa voce peggio di un pettegolezzo, accantonata, abusata e bistrattata. Ormai dimenticata, ma mai a sufficienza.
A Spoleto, tuttora, si possono fortunatamente visitare i preziosi monumenti di quella stagione di ribellione e speranza, annusarne le poetiche che furono a volte scandalose e immaginarne le potenzialità dirompenti; coglierne, in parte, i sensi e le aperture, serbarne frammenti di un ricordo come in un libro, vivente e ancora vivace, di storia dell’arte. Calder e Sol LeWitt, che hanno entrambi donato alla città proprie creazioni site-specific; gli universi labirintici e immaginifici di Bob Wilson e gli insidiosi, sorprendenti, percorsi decostruttivi di Luca Ronconi.

E che possono fare un festival e una città che hanno consacrato i propri anni d’oro alla ricerca internazionale, all’avanguardia, all’arte e al teatro, in un momento storico e sociale come questo? Il Festival di Spoleto sembra puntare sulla moltiplicazione di quei “due mondi” – entrambi oggi, con pudore, superati, ma non certo risolti – che l’anno portato alla ribalta, nella strada tracciata, come abbiamo visto, da una tradizione di apertura e interdisciplinarità originarie: quindi non solo eventi live, ma anche esposizioni e una nuova attenzione al web. E poi convegni (presente la psicoanalisi, la scienza), talk, premi, interviste a cielo aperto. La prosa vicino alla lirica, la musica classica e il jazz, la danza contemporanea e quella più consolidata. Una prospettiva molteplice che vuole essere, con forza, trasversale, quasi opponendo alla verticalità che fu della ricerca – e che, a volte, ne ha determinato un rischio di chiusura – un’orizzontalità diffusa: moltiplicando i “due mondi” che danno il nome al Festival in una quantità e varietà di rivoli, declinazioni, opportunità e eventi differenti.

Roberta Ferraresi

Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto

 

Chi ha paura del minimalismo?

Bob Wilson "The Old Woman" (foto di Luigi Narici)

Bob Wilson “The Old Woman” (foto di Luigi Narici)

L’hanno chiamato, per decenni, teatro immagine, visivo e visionario. Il punto è stato, da sempre, quello del disegno scenico, dell’ambiente scenografico, della cura delle luci, delle atmosfere, delle proporzioni. Della concretizzazione, in scena, di un universo iconografico inafferrabile. Più istallazione che spettacolo dal vivo? Forse. Piuttosto, i modi in cui la presenza (la realtà) può affiorare alla percezione – emblematica è la progressiva apparizione di A e B (Mikhail Baryshnikov e Willem Dafoe), in apertura dell’ultima creazione di Bob Wilson, The Old Woman, al debutto al Festival di Spoleto: due volti bianchi, in tutto e per tutto espressionisti, sospesi a mezz’aria, piano piano si scoprono appartenere ai due straordinari attori, e poi ancora, si riconosce che sono sospesi su un’altalena a centro scena. Critica della presenza, della realtà; quanto del soggetto che la osserva.
Non a caso, sono molti, infatti, i critici e gli sguardi che hanno ceduto alla seducente tentazione di lasciarsi andare alla descrizione: un approfondimento di Franco Quadri (che ha avuto il merito di diffondere in Italia l’opera dell’artista americano) su Einstein on the Beach comincia con “un treno, un tribunale, un campo e una macchina del tempo” – la successione delle scene dello spettacolo. Distanza, incomunicabilità, predominio del percettivo e del visivo, astrazione forse; questi sono alcuni degli elementi con cui si è presentata in Italia l’opera di Bob Wilson, spesso in (più o meno dichiarata) opposizione con altre forme sceniche coeve, cosiddette “politiche” – più legate all’allenamento dell’attore, al coinvolgimento dello spettatore, alla condivisione e alla partecipazione. Teatro come valore d’uso, come strumento per fare qualcos altro. Meno estetica, più etica, incontro, autenticità.

Ma gli ultimi esiti di quello che è stato appunto chiamato “teatro immagine”, sembrano rimescolare le carte, illuminando con un segno diverso il valore d’uso dell’arte, la sua dimensione politica, finanche il sistema di (auto-)referenzialità. Non fosse per i recenti allestimenti che hanno visto insieme al lavoro Bob Wilson con il Berliner Ensemble fondato da Bertolt Brecht.

Si potrebbe dire qualcosa di simile per il minimalismo di Richard Serra e Donald Judd, Flavin, Morris, cui l’opera di Wilson, in particolare in questi ultimi anni, sembra ancora più prossima. È stato preso come esperienza-limite del monumento, rapita dalla propria cosalità, intrappolata nel materialismo, nel sovradimensionamento, in una vertigine puramente estetica. Ultima spiaggia di un moderno che non accettava il proprio decadimento, più che le prime incrinature di una crisi che poco dopo avrebbe rimesso in discussione canoni, certezze e abitudini. Solo col tempo si è dovuto riconoscere che proprio qui, invece, si ritrovano le radici di quell’arte concettuale destinata a cambiare per sempre, di lì a poco, condizioni e poetiche di tutta l’estetica occidentale. Di Fluxus, di Kosuth, perfino di tutto il post-concettuale che ha invaso mostre e musei dalla fine del Novecento. Perché le opere erano troppo grandi, invendibili, intrasportabili. Per cui, quello che arrivava alle mostre, alle gallerie, come alle case dei collezionisti, era piuttosto il progetto, il disegno. L’idea.

Bob Wilson "The Old Woman" (foto di Luigi Narici)

Bob Wilson “The Old Woman” (foto di Luigi Narici)

Vedere il teatro di Bob Wilson, anche il primo, sotto questa luce di un “pre-concettuale” − una relazionalità ante-litteram volta a mettere in crisi l’univocità delle logiche, a valorizzare (invece che misconoscere) l’esperienza del singolo, a smontare (anziché celebrare) i dispositivi della società di massa e delle sue tecnologie − è forse una delle più consistenti opportunità di queste sue ultime regie.

Per decenni, in quegli anni di operosi estremismi e inconciliabili opposizioni che hanno segnato il secondo Novecento, si è voluto − più o meno esplicitamente − contrapporre un teatro impegnato, autenticamente rituale, sostanzialmente politico, ad un altro metropolitano, più cinico e presunto autoreferenziale, incastrato nelle nuove tecnologie e in una volontaria incomunicabilità. Insinuando, a volte, l’esistenza di un’arte di resistenza, per tutti, e un’altra elitaria, (presunta) a suo agio con la seduzione e il potere dell’estetica tardo-capitalista. Le due facce della società dello spettacolo, l’una che la contesta, l’altra che la celebra; la prima alternativa, la seconda al servizio dell’immagine e del simulacro.
Forse i confini non erano e non sono così netti e riconoscibili come potevano sembrare.

Vedere il materialismo di Wilson, così come quello dei minimalisti americani, spogliato di tutte le incrostazioni della contingenza ideologica che ne hanno segnato i primi passi − anche consacrandoli al successo internazionale, beninteso −, permette forse di riannodare un filo rosso, in parte nascosto, in parte rimosso, del teatro politico novecentesco; e, allo stesso tempo, di riassestare croci e delizie della cosiddetta società dello spettacolo, fra consenso e contestazione. Quindi, in questo caso, di immaginare di poter ricontestualizzare i panorami mozzafiato dell’artista americano − così come tutto il ferro di Serra, le luci di Dan Flavin, il chiaroscuro di Sol LeWitt − alla luce di un engagement di lunga data, solidamente incardinato in un tentativo di critica e smantellamento dell’egemonia coeva. Scavando sotto le immagini, interrogando i limiti dell’estetica, sollevando il velo posato dalla cura visiva di superfici così seducenti, colpi di scena sorprendenti o di un disegno luci indimenticabile.

Roberta Ferraresi

Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto

Gombrowicz con vista. Il romanzo (teatrale) di Luca Ronconi

La piazza del borgo di Bevagna (foto ProLoco Bevagna)

La piazza del borgo di Bevagna (foto ProLoco Bevagna)

Gombrowicz “con vista” per il nuovo lavoro di Luca Ronconi, Pornografia, romanzo dell’autore polacco del 1960. E non solo perché l’allestimento – in anteprima per il Festival dei 2Mondi di Spoleto – è incastonato nel cuore medievale della suggestiva Bevagna, uno dei più bei borghi del nostro Paese, in quel gioiellino che è il Teatro “Francesco Torti”. Panorami mozzafiato e scorci che sorprendono ad ogni passo in una quiete millenaria incorniciata dai boschi e dalla pietra; ma non è soltanto questa, naturalmente la prospettiva di cui parliamo nell’introdurre l’ultima creazione di Ronconi, oggetto di una sessione laboratoriale al vicino Centro di Santacristina. La “vista” che dà il titolo a questo articolo, piuttosto, vuole riferirsi all’attraversamento che il regista ha compiuto a più riprese all’interno della testualità teatrale, in particolare della forma-romanzo; sguardo che, come vedremo, può raccontare molto del presente e del passato, non solo teatrali, dell’Italia del secondo Novecento.

Una delle lezioni che ci ha regalato la lunga e vertiginosa opera di Luca Ronconi è forse l’inesauribilità delle risorse drammaturgiche, della parola teatralizzabile, delle potenzialità del testo per la scena, fin da quel memorabile Orlando Furioso, che l’ha consacrato all’avanguardia internazionale, in una riscrittura di Edoardo Sanguineti, proprio per l’edizione del Festival spoletino nel ’69. Non c’è, forse, forma testuale che Ronconi non abbia frequentato nei suoi lavori: i canoni del teatro occidentale (dalla tragedia classica all’assurdo, da Shakespeare a Ibsen) e i suoi esiti più contemporanei e insidiosi (Pasolini, Bond); saggi e testi poetici, l’epica, l’economia, la scienza e la fantascienza. E poi il romanzo, vero rovello di un artista che è tornato più volte a questa forma letteraria, spesso nelle sue forme più estreme. Celebre è l’incontro con Il Pasticciaccio di Gadda, ma poi anche Celine, Lolita di Nabokov e i Karamazov di Dostoevskij.

Se un regista del calibro di Ronconi è tornato così spesso a confrontarsi con la forma-romanzo – proprio in questi tempi ormai ben oltre la fine della storia, il crollo delle grandi narrazioni, la critica del soggetto –, inseguirne le ragioni potrebbe aprire a tracciare strade differenti nella storia della regia italiana, della sua parabola e della sua avanguardia.
Provando a scavare le strategie, gli approcci, le scelte che legano l’artista a questa tipologia di creazioni, il primo dato che salta all’occhio consiste nell’evitare il più possibile adattamenti o riscritture, versioni teatrali insomma, portando invece in scena la parola stessa del romanzo in questione, come accade del resto in questo ultimo incontro con Gombrowicz.

L'immagine dello spettacolo "Pornografia" (foto di Luigi Laselva)

L’immagine dello spettacolo “Pornografia” (foto di Luigi Laselva)

L’esito è quello di una presenza scenica e di una interpretazione che intrecciano l’irriducibilità dell’immedesimazione (dello spettatore nell’attore e nel personaggio, dell’attore nel proprio ruolo) e invece quei copiosi effetti di straniamento che hanno reso celebre la cifra del regista in tutto il mondo. Le figure in scena in Pornografia parlano di sè in terza persona; quasi mai dialogano fra loro, piuttosto descrivono i propri pensieri, le proprie azioni e le altrui. Il filo narrativo sembra avere la meglio su quello scenico-drammaturgico, se non fosse per la tessitura minuziosa, quasi maniacale del dettaglio, nella costruzione delle posizione e delle azioni che invece sembra insistere sull’affiatamento dell’ensemble di attori. Come se lo spettacolo si svolgesse su (almeno) due percorsi vicini ma non identici, quello della parola e quello dei fatti – coerentemente con un impianto narrativo che intreccia e oppone il mondo dell’immaginazione, della supposizione, della parola e della congettura a quello della realtà degli accadimenti (questa forse è l’ultima “pornografia” al fondo della pièce così come la disegna la regia di Ronconi).

Il segno rimanda con lucida chiarezza, quasi schiacciante, al proprio significato: la relazione è dichiarata, sempre insistita, univoca e lampante: se si va in chiesa c’è l’altare immacolato, la carrozza si muove per davvero e, a cena, troneggia una zuppiera in ceramica. Ma, allo stesso tempo, pur difendendo il filo che lega l’oggetto a ciò che rappresenta (un momento della giornata, ma anche un sentimento, un pensiero, una volontà), il lavoro di Ronconi ne denuncia la fragile instabilità, la precarietà essenziale – della cena resta solo quell’imponente zuppiera, della messa l’altare, la carrozza è senza cavalli – in una vertigine spiccatamente decostruttiva, capace di spogliare le sovrastrutture che incorniciano gli eventi e svelarne la sostanza. Sempre accennata e altrove, quasi negata, mai afferrata del tutto – come nelle zone più estreme e liminali della tradizione decostruzionista.

Un’anomalia tutta italiana, diceva Segre, è che strutturalismo e post-strutturalismo sono arrivati quasi all’unisono, andando a costituire un unicuum inestricabile, la cui eredità è ancora oggi saldamente presente (e con cui non si è ancora finito di fare i conti). Coerentemente con l’osservazione che molti hanno dedicato al repentino passaggio, quasi inafferrabile, che ha condotto il nostro Paese da una società all’antica, eminentemente contadina e per certi versi arretrata alla metropoli post-moderna, alla globalizzazione e alla rete. Il tutto nel giro di pochi, pochissimi anni; quasi un batter di ciglio. O poco più, fra il nostro lungo ’68 e, d’altra parte, le successive Repubbliche; fra ordine e anarchia, i blocchi della guerra fredda, la cultura di massa e l’irriducibile campanilismo nostrano.

Al cuore di questo gap, di questo vibrante grumo irrisolto della nostra cultura e società sta (anche) l’opera di un maestro come Luca Ronconi, che, capace di smontare i più imponenti canoni della drammaturgia occidentale ma anche di disegnarne ricostruzioni insuperate, torna più volte sulla forma-romanzo anche quando tutti ne denunciano l’estinzione, che frequenta tanto l’epica che la fantascienza, l’economia e la scienza. Per un teatro che si presenta ancora oggi come un’insaziabile strategia di conoscenza, riflessione, interrogazione del presente e del passato.

Roberta Ferraresi

Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto

Ai 2Mondi i giovani delle Accademie si confrontano in Young European Theatre

mongolfieraIn ogni angolo di Spoleto si respira aria di festival: non c’è parete, spazio areo e strada che non rimandi a quello che in città sta succedendo. Piccoli palloni aerostatici fissi in aria, stendardi alle finestre di palazzi antichi, palcoscenici montati sulle piazze, nei chiostri, dentro le chiese; cartelli con il logo Spoleto56 a ogni lampione del corso storico, manifesti sulle mura che percorrono le strade del principale accesso al delizioso paese umbro. Il festival abita la città e la città per l’appuntamento, ormai giunto alla sua 56esima edizione, indossa il vestito più bello.

Non sono solo i tantissimi gadget promozionali a parlare di Festival dei 2Mondi: c’è tutta una parte umana e vibrante, fatta di attori che provano la parte in luoghi suggestivi del III secolo, operatori stranieri in cerca di informazioni negli uffici, spettatori curiosi dentro bar per l’ultimo caffè pre-spettacolo o nei ristoranti a gustare le prelibatezze della regione. Qui i riflettori sembrano non spegnersi mai: se si entra nel vivo di Spoleto56 ci si accorge che non c’è attimo in cui il Festival dei 2Mondi non pulsi, in un continuo circolo di spettacoli teatrali o danzati, mostre, incontri con autori e intellettuali, proiezioni di film, concerti di musica classica, conferenze. E in tarda serata ci si ritrova a parlare, commentare e riflettere sulle esperienze vissute durante la giornata, davanti a un calice di vino o a dei piatti preparati con cura e attenzione…

stendardiIncontri curiosi si fanno già al Teatrino delle 6, immediatamente sotto la piazza del Duomo: lì ogni giorno attori, dramaturg e registi di accademie, scuole e conservatori provenienti da diversi paesi europei mettono in scena brevi spettacoli. Sono ospiti dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico che coordina il progetto European Young Theatre in collaborazione con Union of Theatre Schools and Academies e l’insegnamento di Storia del Teatro Inglese del Dipartimento di Studi Europei, Americani ed Interculturali dell’Università La Sapienza di Roma. Gli appuntamenti quotidiani sono sempre pieni di pubblico giovane e di attori attenti, pronti a dialogare sui differenti metodi di approccio all’arte teatrale. Un progetto interessante e valido, accrescitivo soprattutto: lo scambio è vivo e il confronto tra la scuola italiana, polacca, francese, svedese, spagnola, inglese e lituana potrebbe porre le basi per aperture nuove, idee di collaborazioni tra giovani della stessa età che affrontano/studiano il teatro nei diversi Paesi.

foto di Andrea Kim Mariani

foto di Andrea Kim Mariani

Si sente la necessità di rielaborare e sperimentare con drammaturgie che abitano l’immaginario collettivo come 4:48 di Sarah Kane o Romeo and Juliet di William Shakespeare. Il testo della giovane inglese morta suicida viene affrontato dalle allieve del II anno della Silvio D’Amico: una regia debole, una prova non facile di un monologo che qui si è scelto di spaccare attraverso una coralità frammentata dalle 5 attrici in scena, protese flebilmente alla continua tragedia che contraddistingue la scrittura della Kane. Cerca il ribaltamento drammaturgico Juliet must die, ispirato al dramma shakespeariano e presentato dall’Accademia d’Arte Drammatica di Varsavia: recitato in polacco, i due attori in scena si scontrano e incontrano ironicamente su un tavolo che si trasforma da pista da ballo a balcone ideale, da letto nuziale a giaciglio di morte, non per Juliet ma solo per Romeo, troppo attento a pettinarsi e a violare la dolce fanciulla che, alla fine, si vendica ingannando il giovane narciso. Portano in scena una drammaturgia originale i tre giovani attori di Creatures of habit del Royal Conservatoire of Scotland: una semplice e non pretenziosa, divertente e ben fatta, situazione in cui all’interno di una coppia uomo-donna irrompe un ragazzo nuovo. Scatta la curiosità e in un crescendo ironico ci si scontra con la forza della routine che costringe a rimanere fermo sul divano, in una situazione di stallo che non permette in alcun modo di risollevarsi. Dopotutto la routine è difficile da rompere, forse impossibile; in fondo in fondo non si sostituisce un’abitudine con un’altra?

Visto a Spoleto56, Festival dei 2Mondi

Carlotta Tringali

 

Leggi l’articolo di Rossella Porcheddu sull’European Young Theatre qui