Enrico Pitozzi

I progetti curatoriali di Màntica 2014

Lucia Amara, teorica del teatro; Giovanni Leghissa, filosofo ed epistemologo; Sonia Massai, studiosa di letteratura inglese ed esperta di teatro shakespeariano; Simone Menegoi, critico e curatore d’arte; Sandro Pascucci, filosofo di estetica della musica; Enrico Pitozzi, teorico della corporeità e del movimento. Sono loro i protagonisti di Màntica, l’ultima edizione del festival di ricerca teatrale e musicale diretto da Chiara Guidi, che si è svolto dal 4 al 10 dicembre al Teatro Comandini di Cesena.

Studiosi, filosofi e critici sono stati chiamati per mettere in luce la complessità del lavoro artistico, per instaurare un dialogo tra il pubblico e l’opera, nella definizione di un “luogo in cui l’opera d’arte diventi leggibile”. Sono stati inoltre invitati a proporre i nomi di coloro che in seguito, nelle giornate di Màntica, avrebbero “aperto” la loro opera agli spettatori, attraverso proposte laboratoriali, incontri o prove aperte.

Abbiamo cercato di approfondire le “letture” che sono state proposte dai curatori, chiedendo loro come è stato accolto l’invito di Chiara Guidi e come si è sviluppato il progetto curatoriale. Di seguito i contributi ricevuti – in forma scritta – ad opera di Lucia Amara, Sonia Massai, Sandro Pascucci e Enrico Pitozzi.

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Lucia Amara

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Das Spiel (Il Gioco). Un rito di guarigione di Alessandro Bedosti

Con Alessandro Bedosti c’è una lunghissima frequentazione amicale. All’interno di questo recinto intimo, come in tutti i rapporti di amicizia, si muovono tante cose. Chiara Guidi conosce i modi in cui si sviluppa la nostra relazione di pensiero e per questo ci ha proposto di esseri presenti a Màntica con la stessa modalità. Il dialogo tra me e Alessandro è paritario, nel senso che non ha ruoli definiti a priori (lui l’artista e io il pensatore/teorico) e spesso nasce da esigenze pratiche. Alessandro lavora da anni nella scuola dove insegno Lettere, a Zola Predosa (in provincia di Bologna) e, insieme, abbiamo sviluppato diversi progetti con gli adolescenti, tra cui una Compagnia Teatrale della Scuola, un gruppo di ragazzi che con noi lavora su testi shakespeariani. L’ultimo impegno è stato incentrato su Romeo e Giulietta che imperituramente immortala la condizione dell’adolescente nel rapporto con un adulto non-dialogante e chiuso nei propri protocolli di violenza e imposizione. Gli adolescenti ci pongono domande continue e noi ne facciamo nutrimento del nostro pensiero, cercando di sfuggire agli obiettivi condivisi dalla scuola per ricrearne di nuovi che, poi, danno forma ad altre immagini volutamente spostate in luoghi che vogliamo indagare e che riproponiamo ai ragazzi, anche se non in maniera esplicita. Vige una specie di segreto sui processi sotterranei.
Il dialogo con Alessandro Bedosti si alimenta anche attorno ad un altro nucleo fondamentale, non staccato dalla pedagogia, che è la letteratura. Laddove si crea il vuoto e la sottrazione, luoghi fondamentali della ricerca di Alessandro, il soccorso viene dalla parola letteraria che sostiene e stampella quel possibile scomparimento a cui questo artista spinge con tenacia la sua opera. Per questo l’iscrizione – HO SCELTO IL NULLA – in calce a un quadro descritto ne L’Iguana di Anna Maria Ortese è divenuto per noi un’immagine “curativa”, in un certo qual senso. Ci sono molti libri che hanno “educato” il dialogo tra me e Alessandro. L’Idiota di Dostoevskij è un ormeggio sicuro. Nel caso specifico del lavoro esposto a Màntica, Das Spiel (Il Gioco). Un rito di guarigione, si profila a tratti il Cristo di Holbein, immagine che appare all’Idiota Principe Myskin nella parte centrale del romanzo. Il dipinto raffigura una deposizione adagiata su una tela di due metri di lunghezza e trenta centimetri di altezza: non c’è scampo, non c’è movimento possibile, la fine è una questione di spazi, una cattura ineluttabile. Altri testi letterari di cui ci nutriamo sono i carteggi d’amore tra poeti, come quello tra Rainer Maria Rilke e Lou Salomé o Marina Cvetaeva, tra Paul Celan e Ingeborg Bachman.
Per questo Alessandro ed io abbiamo deciso di non fare una conferenza al pubblico ma di allestire un tavolo sul quale posare questa materia di libri esponendo uno dei luoghi materiali della “nostra cura” e che io ho vegliato durante la permanenza di Alessandro a Màntica. Il pubblico poteva girare attorno o guardare o toccare o, con la lettura, rubare fugacemente uno stralcio. Si tratta di “trovare le parole” – come si dicono Ingeborg Bachman e Paul Celan nel carteggio che li accompagnò tutta la vita.

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Macbeth su Macbeth su Macbeth di Chiara Guidi

Macbeth su Macbeth su Macbeth di Chiara Guidi

Sonia Massai

La mia partecipazione a Màntica è scaturita da una conversazione con Chiara Guidi cominciata nella primavera dell’anno scorso a proposito di Macbeth su Macbeth su Macbeth e poi sviluppata in occasione di un incontro col pubblico dell’Arts and Humanities Festival che si tiene ogni anno al King’s College London in ottobre. Io sono particolarmente affascinata dall’originalità dell’approccio di Macbeth su Macbeth su Macbeth che non esclude, ma anzi rende necessaria, una rilettura attenta del testo Shakespeariano. L’invito a Màntica mi ha consentito di confrontare la mia (ri)lettura dell’opera teatrale e del testo Shakespeariano con le reazioni del pubblico. Le mie domande, mirate a capire cosa avesse suscitato interesse, sorpresa, o stupore, hanno messo in luce la diversità dei “punti d’accesso” all’opera e l’utilità di uno spazio che permetta all’artista, al pubblico, e al critico/curatore di riflettere sui vari livelli di leggibilità dell’opera. Nel momento in cui l’esposizione all’opera diventa occasione per un confronto collettivo, l’interpretazione acquista un valore che va oltre l’ermeneutica poiché trasforma gli spettatori in “comunità interpretative” (Stanley Fish).

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MÀNTICA 2014. Le briciole di Pollicino.
di Sandro Pascucci
Gennaio 2015

Pongo, preliminarmente, una breve riflessione sul (mio) ruolo di curatore, all’interno di una delle sezioni di Màntica 2014 “Stele di Rosetta”. Lo faccio con un esplicito riferimento all’ultimo libro di Giorgio Agamben L’uso dei corpi (Vicenza 2014): “… ciò di cui ci si prende cura è il soggetto stesso delle relazioni di uso con le cose e con gli altri… ciò sembra implicare qualcosa come un circolo… che non conosce soggetto e oggetto, agente e paziente.”

La circolarità dell’incontro tra l’opera di Cage – in contrappunto con i suoni di Bach e Liszt –, la proposta esecutiva compositiva di Fabrizio Ottaviucci (al pianoforte) e Daniele Roccato e il Ludus Gravis Ensemble (ai contrabbassi), l’ascolto ricettivo interpretativo del pubblico (e del curatore) prefigurano uno spazio di comprensione e contemplazione più che dialogico e dialettico, più sincronico che diacronico, più di prossimità che di confronto, più di presenza(e) che di rappresentazione(i).

Daniele Roccato

Daniele Roccato

Ludus Gravis Ensemble

Ludus Gravis Ensemble

Fabrizio Ottaviucci

Fabrizio Ottaviucci

Attraverso Cage – nomen omen –, si apre la gabbia delle convenzioni che spartiscono il campo della creazione tra arti autografiche – la pittura, la poesia, il cinema… – e allografiche – la musica, il teatro, la danza… Così l’esecuzione di una delle pagine del Concerto per Piano e Orchestra (nella versione di 63 fogli mobili per solo pianoforte – lo Steinway gran coda suonato da Ottaviucci nella sala del Conservatorio Maderna (!) ) “eseguibile integralmente o parzialmente in qualsiasi sequenza”; o i Four6 affrontati dai cinque contrabbassisti, ciascuno con il proprio strumento diverso per fattezza e età, assieme al pubblico chiamato ad intervenire per adempiere al dettato dello spartito “per qualsiasi modo di produrre suoni” (nel riverberante salone ottocentesco di Palazzo Ghini): tutto ciò ci riconduce, forse, all’origine autografica di ogni linguaggio artistico (Nelson Goodman), e le scansioni proprie della creazione musicale – la composizione trascritta e codificata e la sua interpretazione – dall’esecutore all’ascoltatore – si riposizionano in uno spazio antigerarchico e antidiacronico, aderendo al suono/i, epifania sensibile dell’esserci, fenomenologia musicale del rapporto io-mondo, del “mio non alibi nell’essere” (Michail Bachtin).

Autografia. Allografia. Omeografia: modulazioni aspettuali e tensive dell’estetica.

Ritorno alla metafora del viaggio (già nel dialogo tra me e Chiara in apertura dell’opuscolo di Màntica 2014), per i molti aspetti significativi che possono riguardare e risuonare inbetwinn l’interpretazione dell’opera d’arte come esperienza estetica. In primo luogo il viaggio presuppone un tragitto, uno spostamento da un punto di partenza all’altro, verso una meta. Meta come approdo sicuro nella misura in cui vi ritroviamo in essa qualcosa che ha a che fare con il nostro luogo di origine (del viaggio). E l’idea di arrivare in un luogo che ci dia sicurezza rinvia ai rischi, agli imprevisti del viaggio, che possono compromettere l’itinerario, fino a portarci a smarrirci. E, infine, il poter raggiungere felicemente la meta che ci siamo dati, implica un sapere, una tecnica, una comune passione.

L’opera d’arte sta all’inizio e alla fine del nostro viaggio perché è essa stessa viaggio; punto di partenza e insieme meta transfigurata attraverso il suo vitale transito ermeneutico; esperienza estetica che è sinonimo di prassi sensibile: “La musica non ha un senso, ma un significato che si svela nel praticarla, nell’usarla… Esperienza, uso, prassi d’autore. E di esecutore. Ma anche, e massimamente, esperienza, uso e prassi di fruitore…, per eccellenza, esperienza collettiva collaborante. Happening” (Edoardo Sanguineti).

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Strata di Maria Donata D'Urso_Foto Laura Arlotti

Strata di Maria Donata D’Urso_Foto Laura Arlotti

Enrico Pitozzi

L’invito da parte di Chiara Guidi è stato per me l’occasione per andare a fondo rispetto ad una direzione che mi appartiene e che ha la forma di un dialogo a più voci, sia con Chiara che con Maria Donata D’Urso, la coreografa da me proposta per Màntica: pensare l’opera secondo una prospettiva aperta, che metta cioè in luce la fitta rete di relazioni che essa instaura con il mondo. Ciò significa tornare – in modo radicale – ad avere una certa sensibilità per le cose impalpabili, che si sottraggono all’economia del commento.
Per fare questo serve un’altra andatura, una condotta nuova, in cui il curatore contribuisce a far emergere – in sintonia con l’artista – il pensiero implicito in ogni opera e che affiora secondo le sue leggi: un pensiero fatto d’immagini, di atmosfere: un pensiero che avvolge.
Per andare in questa direzione è necessario – così si è diramato il progetto curatoriale – condividere con l’artista una sensibilità di visione delle cose, che si esprime anche attraverso una organizzazione comune di momenti laboratorio, in cui l’interno e l’esterno, dell’opera divengono l’oggetto dell’analisi.

È qui che l’opera si fa spazio affettivo capace di trascendere chi l’ha creata. Affiora dal tessuto del mondo per farci vedere in modo nuovo ciò che abbiamo da sempre sotto gli occhi.
Ciò afferma con forza un principio: oltre alla distanza che esiste tra noi (curatori o spettatori poco importa) e l’opera, una distanza vissuta – come la chiama Merleau-Ponty – ci collega alle cose che per noi contano davvero, per le quali abbiamo un affetto che non possiamo spiegare a parole, ma solo circoscriverlo per allusioni, rinvii, ellissi. L’opera parla sempre di noi. E della comunità che in essa si aggrega.
Questa distanza incommensurabile – priva di geometria – testimonia in ogni momento la portata della nostra esistenza, dell’esatto punto che occupiamo nel mondo.
O bagliore improvviso che fa vedere le cose, o il nulla.
Credo sia questa, oggi, la sfida alla quale risponde un curatore.
Credo sia questa, oggi, la sfida che ogni spettatore accoglie.

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Màntica 2014: la leggibilità dell’opera d’arte

a cura di Elena Conti

I Due Piani. Deleuze incontra la performance contemporanea al festival Natura Dèi Teatri

Dal 5 al 14 dicembre negli spazi post-industriali di Lenz Teatro, a Parma, si svolge la XIX edizione del festival Natura Dèi Teatri (ND’T), un progetto di creazioni performative contemporanee internazionali, di produzione artistica e di riflessione intellettuale sullo stato dell’arte contemporanea, fondato nel 1996 da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, direttori artistici di Lenz Rifrazioni.

Fin dalle sue origini il festival è stato contrassegnato dall’attenzione alla creazione contemporanea su scala europea, dall’interdisciplinarità degli eventi proposti e dal forte radicamento al territorio, coniugato con ad una profonda vocazione per la cultura performativa internazionale.
I Due Piani è il tema concettuale del Festival 2014 che, dopo Ovulo nel 2012 e Glorioso nella scorsa edizione, conclude il progetto triennale alimentato dalle suggestioni filosofiche di Gilles Deleuze. Il programma propone «dieci declinazioni scenico-performative dell’identità duplice, stratificata, multipla del linguaggio», attraverso creazioni internazionali di teatro, musica, danza, video e performance, inclusi due “sconfinamenti” performativi in una celebre chiesa parmigiana.
Si alterneranno dunque dal 5 al 14 dicembre nella Sala Majakovskij  e nella Sala Est di Lenz Teatro: Maguy Marin, Pieter Ampe, Tim Spooner, Paul Wirkus, Via Negativa, Alessandro Berti, Andrea Azzali e le due nuove produzioni di Lenz Rifrazioni (Verdi Re Lear – L’opera che non c’è e Adelchi) introdotte dagli interventi teorici di Enrico Pitozzi.

Per approfondire temi e prospettive del festival, abbiamo incontrato i direttori artistici, Francesco Pititto e Maria Federica Maestri.

Maria Federica Maestri e Francesco Pittito

Maria Federica Maestri e Francesco Pititto

Il festival internazionale di arti performative Natura Dèi Teatri completa nel 2014 il progetto triennale incentrato sul pensiero del filosofo francese Gilles Deleuze. Dopo Ovulo (2012) e Glorioso (2013), il tema concettuale di quest’anno è I due piani. Quali sono allora i due piani dedotti dalla riflessione deleuziana entro cui il festival articola la sua proposta?
Re Lear – nuova produzione di Lenz presentata al festival – è l’opera mancata che incarna perfettamente l’idea deleuziana di desiderio ed esemplifica “i due piani” individuati dal filosofo. Verdi ha desiderato per tutta la vita comporre quest’opera, ma la tensione si risolve nella epifania di uno spettro. Il libretto c’è, ma la musica è assente e sul Lear verdiano incombe il fantasma di Shakespeare e della sua opera grandiosa. La dimensione straordinaria di questo lavoro, che presentiamo al festival in forma di studio, risiede nel tentativo di ricostruire l’opera a partire da fondamenta immateriali, invisibili, di un desiderio di cui rimangono però frammenti concreti in diverse opere di Verdi. Restituire, con la nuova scrittura musicale di Scanner, un’identità scenica a qualcosa di impalpabile: “aria sonora” come definì la musica Ferruccio Busoni. Il piano di Giuseppe Verdi e il piano di Scanner si appaiano e, per induzione, si attirano per poi respingersi e così via. Dentro questo movimento continuo si aggiungono versi che provengono dal libretto dell’opera e dal Lear di Shakespeare, movimenti e gesti performativi sia attorali che dei cantanti, mentre le immagini di un Lear nudo e di una evanescente Cordelia impongono la loro presenza per l’intera durata dello studio.

ND’T è storicamente un festival di alto valore internazionale per quanto riguarda la presenza di artisti portatori di raffinate ricerche performative provenienti da tutto il mondo. Anche in quest’edizione il parterre è ricco. In che modo gli artisti ospiti incontrano con le loro opere la poetica deleuziana alla base del progetto del festival?

Natura Dèi Teatri 014 (foto Francesco Pittito)

Natura Dèi Teatri 014 (foto Francesco Pititto)

Partiamo citando Deleuze: «Perché accada qualsiasi evento c’è bisogno di una differenza di potenziale e ci vogliono due livelli, bisogna essere in due, allora accade qualcosa. Un lampo o un ruscelletto e siamo nel dominio del desiderio. Un desiderio è costruire. Tutti passiamo il nostro tempo a costruire. Per me quando qualcuno dice ‘desidero la tal cosa’ significa che sta costruendo un concatenamento. Il desiderio non è nient’altro». Cos’altro è il lavoro dell’artista se non costruire, e poi costruire e poi continuare a costruire. Continuare a ricercare la differenza di potenziale, i due livelli. Un continuo duello tra passato e presente che è già passato, l’attimo esistente è già memoria. Cos’è contemporaneo? Forse due piani paralleli, due livelli di incontro e scontro, quella luce delle stelle che vediamo in cielo di notte e che pur viaggiando per sempre verso di noi mai ci raggiungerà e di cui percepiamo in primo luogo il buio dal quale proviene? La luce dalla tenebra. Come nell’inquietante immagine/metafora che Giorgio Agamben usa per descrivere il tempo presente e la contemporaneità.
La luce e la tenebra, i due piani e la differenza di potenziale. Quel che non si può esprimere con la parola diventa per l’artista contemporaneo più vitale della luce e dell’evidente, quel che pensa di non poter vedere lo affascina, quel che è nascosto lo incuriosisce, la sua immagine-cristallo lo commuove, la rifrazione di quel che non si conosce e dell’indicibile lo esalta, senza sapere dove sia posta e quanto densa sia la materia che devia, dal principio, il suo raggio di luce. Ecco allora i volti anonimi o riconoscibili di Singspiele di Maguy Marin, Re Lear e il desiderio ricostruito di un’opera mai compiuta di Verdi-Lenz-Scanner, il Maestro Eckhart di Berti che penetra nell’oscurità dello spirito, il Corpo Sacro di Monophon, The Telescope di Tim Spooner a dar forma alla materia minima, Pitozzi a radiografare la materia sonora in Magnitudini, Wirkus-Lenz a scavare nel buio hölderliniano con Diotima, Via Negativa a ricercare il limite del corpo umano e, infine, Adelchi di Manzoni-Lenz con i suoi attori sensibili, dotati di plusvalore espressivo.

Lenz Rifrazioni + Paul Wirkus "Hyperion/Diotima" (foto di Francesco Pittito)

Lenz Rifrazioni + Paul Wirkus “Hyperion/Diotima” (foto di Francesco Pititto)

Veniamo alle produzioni di Lenz, riconosciuta compagine artistica di ricerca fondatrice del festival. A ND’T presenterete due nuove creazioni eterogenee ma coerenti con la vostra rigorosa linea estetica e poetica, Verdi Re Lear – L’opera che non c’è e Adelchi. Quali elementi hanno guidato l’approccio simultaneo – seppur entro strutture linguistiche estremamente differenti – a Shakespeare/Verdi e Manzoni?
Primo fra tutti la riflessione sulla natura della tragedia nella contemporaneità: la concezione tragica individua la contraddizione e dispera di trovare una via d’uscita. Non c’è opposizione, non c’è conflitto, antagonìa, ma la piena consapevolezza che non esista una via di fuga. La catena familiare omogenea – padre/figli – costitutiva dell’unità sociale finalizzata alla trasmissione del potere, si spezza irrimediabilmente, e i vecchi, sopravvivendo al destino di morte dei figli, (Lear a Cordelia, Desiderio a Ermengarda/Adelchi), incarnano questa contraddizione sofferente. I giovani sono rimossi dalle necessità della Storia, scompaiono inesorabilmente dalla scena della vita.

Re Lear è un primo studio, elaborato con il musicista elettronico inglese Robin Rimbaud aka Scanner, sull’opera mai realizzata da Verdi, un disegno ambizioso e di alto valore, soprattutto se messo in scena a Parma, città verdiana (in crisi) per antonomasia. Come si sviluppa – e proseguirà – il progetto e quali sono i due piani del Lear di Lenz?

Lenz Rifrazioni + Robin Rimbaud aka Scanner "Verdi Re Lear" (foto di Francesco Pititto)

Lenz Rifrazioni + Robin Rimbaud aka Scanner “Verdi Re Lear” (foto di Francesco Pititto)

Si tratta, appunto, di una premessa, di un primo studio che prelude ad un approfondimento che, oltre al confronto di due scritture musicali differenti per tempo storico ed estetico, permetta di produrre nuova ricerca linguistica nei due campi della drammaturgia teatrale e musicale. I brani proposti da Scanner sono ampie masse sonore “sentimentali”, echi di rumori e suoni della vita reale che rimandano a trame narrative di forte impatto emotivo. Così come la musica verdiana spinge alla partecipazione drammatica, quella di Scanner coinvolge il pensiero in grandi quadri. Le rifrazioni dei due autori, insieme al contesto sperimentale di Lenz, pensiamo possano favorire la creazione di nuova scrittura musicale se, dalla premessa, lo studio potrà proseguire nel proprio percorso di ricerca. I giovani cantanti sono quattro – Chekmareva Ekaterina m.soprano, Takahashi Haruka soprano, Lorenzo Bonomi e Gaetano Vinciguerra baritoni – selezionati da Donatella Saccardi docente di canto al Conservatorio “A.Boito” di Parma.

Le arie cantate sono: Me pellegrina ed orfana soprano (Leonora) da La Forza del destino Atto I, Condotta ell’era in ceppi mezzosoprano (Azucena) da Il Trovatore Atto II, Chi mi toglie il regio scettro? baritono da Nabucco Atto III, tratti da un elenco proposto dal M° Carla Delfrate secondo un criterio di affinità tematiche e drammaturgiche con il libretto di Re Lear di Somma/Verdi e il King Lear di Shakespeare. I performer sono tre: Barbara Voghera, Valentina Barbarini e Giuseppe Barigazzi, che appare nel video della scena. I brani di Robin Rimbaud Scanner che compongono la drammaturgia musicale sono: Frame 82, Faure 100, Intercontinental, , Cazneau, I waited a lifetime, Saturday, Lachrimae Minimal. La struttura musicale complessiva contiene, in tre parentesi di silenzio, le arie verdiane eseguite dal vivo. La drammaturgia in scena presenta, in nuce, tre figure femminili, due figure maschili (di cui una virtuale) e il fool. L’installazione presenta tre schermi trasparenti con linee di fuga laterali che convergono verso il fondo sul quale sono proiettate le immagini. La prima aria proveniente da La Forza del destino presenta un testo pressoché identico a quello che appare nel manoscritto di Re Lear di Giuseppe Verdi, così come alcuni passi recitati dal Fool e da Delia; la seconda, tematica, canta la follia del Re che perde lo scettro del potere, la terza accoglie le osservazioni del critico Gabriele Baldini dal libro Abitare la battaglia sulla vita dal Maestro: «…io credo che Verdi non abbia mai più raggiunto, dopo il Trovatore, nessun punto tanto alto: Azucena è proprio quel personaggio che lo ha stranamente avvicinato il più possibile al non mai raggiunto ideale di Re Lear, perché anche Lear si sente che non è più soltanto se stesso, ma che si è caricato sulle spalle l’eredità di dolore di tutti i padri abbandonati dai figli e che, nel misurarsi con la tempesta, s’è fatto anche lui una forza della natura, un grumo di sentimenti nel quale brulicano, senza mai potersi chiarire e placare, gli affetti traditi e offesi. Per questo, tra l’altro, il linguaggio di Re Lear è eminentemente per immagini, secondo un procedimento espressivo che trova singolari analogie nel linguaggio musicale». L’ampliamento della figura del Lear shakespeariano in una dimensione di madre ci è apparsa, da subito, potente, complessa e carica di rifrazioni drammatiche e poetiche.

Lenz Rifrazioni + Robin Rimbaud aka Scanner "Verdi Re Lear" (foto di Francesco Pititto)

Lenz Rifrazioni + Robin Rimbaud aka Scanner “Verdi Re Lear” (foto di Francesco Pititto)

Al termine dell’aria Ekaterina, dirà con parole di Lear: «Dov’è che sono stata? Dove sono?». I versi del Re shakespeariano al femminile, dopo aver cantato il ricordo tremendo della madre in ceppi del Trovatore di Verdi. Così come il buffone Mica ci è parso invece, nel libretto di Somma/Verdi, figura meno articolata del fool shakespeariano. Il fool, oltre che buffone, è anche matto (come scrive ancora Baldini) ed è di questa follia che gli attori sensibili hanno nutrito i nostri Hamlet. Il desiderio di farne un buffone ragionevole è più consono alla visione razionalistica dei sentimenti umani di Verdi, così come la figura di Cordelia (Delia, nel libretto) è più delineata come figlia dotata di grazia e bellezza che non come femmina ribelle. Il desiderio inesaudito si distribuisce, e in parte trova soddisfazione, in figure disseminate nelle opere già scritte e musicate. A tal riguardo anche la drammaturgia complessiva segue l’acuta analisi di Baldini: «È probabile che Verdi leggesse il Lear – tradotto com’è da credere dal Carcano, ch’era suo amico – con molta più sottigliezza dei suoi critici, e che quella storia di padri e figli travolti nella follia e nella cecità e soggetti, senza scampo, a una natura in agguato, non sapesse suonargli congeniale. Non solo, ma poté pensare che un’opera così possentemente innervata di musica nella stessa struttura dei suoi sentimenti e delle sue immagini, non tollerasse che le si aggiungesse, per l’appunto, altra musica: tutta quella necessaria c’era già». La “musicalità” di Shakespeare è stata, nel tempo, una costante delle nostre trasduzioni sceniche delle diverse opere: Romeo and Juliet, il Sogno, Macbeth già con un innesto verdiano nel 2001, le diverse versioni di Hamlet che sembrano non avere soluzione di continuità creativa. Rimangono, però, i frammenti sparsi di quel desiderio in diverse opere e personaggi verdiani e il confronto tra concatenazioni contemporanee di linguaggio e la tradizione musicale può diventare materia d’indagine ancora più approfondita e preludio di nuova creazione.
Torniamo quindi alla definizione del “desiderio” di Deleuze: dare forma a un desiderio, dopo averne scandagliato gli impulsi primari e le manifestazioni più nascoste, è percorso affascinante di ogni ricerca linguistica; vestire un fantasma e vederlo muoversi solo attraverso il movimento delle stoffe è già averlo consegnato al mondo reale che, shakespearianamente, è fatto di sogni e di niente.

Lenz Rifrazioni "Adelchi" (foto di Francesco Pititto)

Lenz Rifrazioni “Adelchi” (foto di Francesco Pititto)

Adelchi riprende invece la biennale indagine manzoniana intrapresa nel 2013 con i monumentali Promessi Sposi e rimarca la continuità del vostro percorso di ricerca ormai ventennale con attori sensibili. In che modo la tragedia ha incontrato, in questo nuovo lavoro, l’universo della sensibilità? Quale sarà la cifra estetica di quest’ultima produzione?
Adelchi è il secondo lavoro legato al nostro progetto biennale dedicato a Manzoni. È il lato oscuro de I Promessi Sposi: una tragedia-blind spot, un’area cieca, una zona di non visione a luminosità intermittente. In questa macchia scura, a tratti illuminata dalla presenza di Dio, si compie il comune destino luttuoso dei due fratelli – Ermengarda e Adelchi. Questi due piani si rispecchiano nel buio/luce interiore dell’interprete Carlotta Spaggiari (Ermengarda), attrice con sindrome dello spettro autistico, e coincidono con la sua più intima natura: duplice nel suo assoluto desiderio di presenza e bisogno di ritiro, nella ipersensibilità emotiva dispiegata in silenzio espressivo, nella straordinaria densità artistica silenziata dalla fobia comunicativa. La sua duplicità assume nella creazione scenica forme misteriose; scardinando i processi logici e analogici, le prevedibilità comportamentali, ci avvicina al sublime: forza distruttrice e rigeneratrice dell’atto performativo. In Adelchi si sostanzia la ricerca pluriennale di un “verbo” pedagogico che renda le persone affette da disturbi dello spettro autistico in grado di esprimere le emozioni silenziate attraverso le stimolazioni drammaturgico-sensoriali dell’esperienza teatrale. Attraverso questo processo si ribalta la prospettiva dalla quale guardare alla sensibilità: gli apparenti limiti cognitivi e comportamentali delle persone sensibili non sono più considerati unicamente sintomi di un deficit patologico, ma divengono elementi da elaborare e tradurre in linguaggio estetico contemporaneo attraverso il confronto e l’agone – anche fisico e vocale – con i classici.

Lenz Rifrazioni "Adelchi" (foto di Francesco Pititto)

Lenz Rifrazioni “Adelchi” (foto di Francesco Pititto)

Il programma di ND’T prevede due “sconfinamenti” in spazi urbani altri dalla sede storica di Lenz, presso la chiesa di Santa Maria del Quartiere, dove prenderanno vita sia il Maestro Eckhart di Alessandro Berti che la performance elettronica Corpo Sacro di Andrea Azzali. È questo un tentativo di allargare il tessuto performativo extra moenia e rendere la città un ambiente di performatività diffusa, visto il ruolo cruciale – ma topograficamente periferico – di Lenz nella vita culturale di Parma?
È nel DNA del festival, da sempre tempo-spazio di dialogo non solo con artisti e formazioni interdisciplinari, ma con i luoghi del territorio. Il festival, in origine Laboratorio delle Arti, è stato nei primi dieci anni uno spazio di ricerca, in cui gli artisti venivano invitati a realizzare workshop in condizioni e luoghi di lavoro inediti e stimolanti. La valorizzazione, la fruizione e la ricerca di nuove funzionalità pubbliche di monumenti storici e ambientali della provincia di Parma sono stati i principi costitutivi dell’attività di Natura Dèi Teatri; elemento distintivo e fondativo del festival è stata infatti l’interazione tra il patrimonio storico, artistico e monumentale dei territori coinvolti nella provincia di Parma, e le creazioni live che in esso venivano create. Negli anni sono stati “contaminati” complessi monumentali di grande valore artistico, come la Corte medievale di Giarola, il Palazzo Ducale di Colorno, la cinquecentesca Rocca dei Rossi di San Secondo Parmense, oltre a chiese, chiostri, piazze, ville e giardini storici. Dal 2009 – con lo slittamento del festival nel periodo autunnale – sede e fulcro del progetto è Lenz Teatro, esempio di teatro concreto ottenuto da spazi post-industriali reinventato ad abitazione creativa, il festival si è evoluto nella dimensione di un progetto drammaturgico in dialogo con artisti e formazioni di significativo profilo estetico. Il tentativo di quest’anno è di tornare a colloquio con i luoghi storici della città, esaltando la relazione concettuale tra la creazione artistica e l’identità dello spazio in cui viene presentata. Ad essere dominante e determinante rimane sempre l’identità dell’opera d’arte e non il preconcetto politico-culturale.

Inevitabile una domanda sul futuro, considerata anche progettualità pluriennale che contraddistingue il lavoro di Lenz Rifrazioni e ND’T.  Dopo Deleuze esiste già una traccia concettuale e tematica per le prossime edizioni del festival?
Il prossimo progetto triennale è la Materia del Tempo – Porte (2015), Punto Cieco (2016), Scia (2017) – e si ispira questa volta alla ricerca plastica di Richard Serra, un artista fondamentale nella definizione della lingua scenica di Lenz.

Intervista a cura di Giulia Morelli