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La dialettica immaginifica di Orrico

Recensione a #Neoeroina – di Ernesto Orrico

foto di Aldo Valenti

Ernesto Orrico torna a calcare le scene del Piccolo Teatro Unical. Meglio, a calcarle è la sua dialettica incarnata dalla voce, il corpo, il gesto di Maria Marino nello spettacolo #Neoeroina, che Orrico scrive e dirige, messo in scena martedì scorso sulle tavole del teatro comunale rendese, nel campus universitario. Secondo appuntamento della rassegna a chilometro zero Il piacere della democrazia, con, in cartellone, diverse compagnie impegnate nelle residenze teatrali di Regione.
Delle prime, generalmente, se ne considera tenendo conto del debutto, trattando con una certa indulgenza. Raro che siano botti al primo colpo. Uno spettacolo si compie e si irrobustisce, qualora non è un capolavoro all’uscita, a furia di repliche, accorgimenti, tagli, innesti, revisioni.
Lo spettacolo di Orrico non è da entusiasmi immediati. La cifra dell’attore, regista, autore, cosentino è così originale da non riscuotere consenso subitaneo e popolare. Non sono di facile presa la sua dialettica sciorinata senza un’apparente logicità temporale e concettuale, la sua iconografia chiara e criptica allo stesso momento, inserita in scene che non sono la diretta conseguenza l’una dell’altra, la matrice registica del concedere terra all’attore come farebbe un allenatore se mandasse in campo la sua squadra senza schema. Tutti cenni di una ricerca teatrale che ormai solo in pochi attuano e in tanti ci se ne riempie la bocca. Segno di una dedizione al fare scenico mai volto verso la commerciabilità del prodotto artistico, mai pensato come merce. Una questione di passione, di vocazione, di sentimento verso il palco (e ciò che vi accade) e rivolto a chi sta dall’altra parte con tangibile tentativo di smuovere. Non importa se positivamente o no, se nel modo giusto o sbagliato, se provocando irritazione o piacevolezza, comunque un tentativo di arrivare, di coinvolgere. Come una mano tesa dal proscenio alle poltrone. E una richiesta di responsi, di condivisione, di interrogarsi e dire insieme su una situazione miseramente comune.

Orrico porta in scena il sottocutaneo, il reale, anzi, quello che si pensa, si vede e si sa del reale ma di cui si dice altro per convenzione, forma e ruffianaggine. Lo fa alla sua maniera, un po’ poetica un po’ di strada, pop ma non troppo, ora in sordina quasi con deferenza ora con vigore e coraggio. Raccontando, allitterando, giocando e bisticciando con le parole, componendo drammaturgie anticonvenzionali, innovative, contemporanee. In una costruzione in cui pochi sono i riferimenti e pressoché inesistente il manierismo del “copia e incolla” tanto in voga nel locale. Confezionando uno spettacolo in cui all’attore scardinato da vincoli (Grotowski insegna) si consegna l’ardua missione di rendere giustizia a un testo che lascia (e lancia) miriadi di tracce (da pescare e non vedersi arrivare impacchettate comodamente), di verbalizzare con il corpo un linguaggio silente, immaginifico eppure carico di trasporti, di restituire alla platea tutta l’intensità della ricerca di Ernesto Orrico. E Maria Marino in scena, benché con le incertezze di un debutto, risolve egregiamente la matassa. Come ci ha abituati, del resto, portando avanti una recitazione ritmata senza tonfi, pulita, fonicamente corretta, e dal resoconto emotivo che mette tutti d’accordo. Cavandosela a meraviglia oltretutto con la dialettica corporea, cosa non facile per chi è abituato a caratterizzarsi vocalmente, in genere.
Insomma, uno spettacolo dove si dice, si pagliaccia, si considera, si sclera, su donna e spaccato comune. Insinuandosi con delicatezza (alla maniera di Orrico) tra le pieghe di storie intime e universali, pretesto per adocchiare al circostante dettato dalla scena con poetica e dolceamara consapevolezza. Da puntellare, però.

Visto al Piccolo Teatro Unical, Rende (CS)

Emilio Nigro

Pubblicato su Il Quotidiano della Calabria