fabrizio arcuri

Materiali per una tragedia tedesca al CSS: un serial teatrale di Tarantino-Arcuri

“Il futuro di un manipolo di giovani disperati e senza più futuro contro il passato di un uomo il cui passato è stato soppresso nel profondo del cuore della stessa Germania”. È qui che si situa Materiali per una tragedia tedesca di Antonio Tarantino diretto da Fabrizio Arcuri e prodotto dal CSS di Udine: in un luogo storico, politico, culturale schiacciato fra la seconda guerra mondiale e gli anni del “boom”, fra ricostruzione e contestazione, fra le azioni della Baader-Meinhof (o, meglio, RAF, Rote Armee Fraktion) che sconvolsero la Germania Ovest e il potere stesso del Paese (rappresentato nella battuta di Andreas Baader messa in apertura dalla figura di Hanns-Martin Schleyer, industriale in vista del Paese con un passato nelle SS che fu rapito e ucciso dalla RAF in uno dei momenti più caldi e atroci della vicenda).

L’apice della tragedia – su cui si concentrano i Materiali – si svolge in pochi, pochissimi mesi (circa un anno e mezzo): dall’inquietante suicidio in carcere di Ulrike Meinhof (maggio ’76) ai momenti finali della detenzione degli esponenti della RAF nel tristemente celebre carcere di massima sicurezza di Stannheim (Meinhof e Baader, con Gudrun Ensslin, Jan-Carl Raspe e Irmgard Möller arrestati nel 1972), fino al rapimento di Schleyer e al dirottamento di un aereo Lufthansa da parte del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina che chiedeva fra le altre cose la liberazione dei terroristi detenuti (1977, nel cosiddetto “autunno tedesco”); fra mediazione politica e la repressione più dura, atti terroristici e gli estremi della tortura, avvocati arrestati e spie doppio o triplo-giochiste, per giungere infine al precipitare tragico degli eventi e all’atroce epilogo di tutte queste storie.

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Una donna, tutte le donne. Sul FaustIn and out dell’Accademia degli Artefatti

Recensione a FaustIn and out – di Accademia degli Artefatti

C’è una nevrosi apparentemente superflua nei testi di Elfriede Jelinek. Le sue non sono parole allucinate né deliranti. Tutt’altro. Quelli dei suoi personaggi sono discorsi labirintici, a tratti ossessivi, che sconfinano nel fobico, ma che tracciano sempre l’itinerario di una pulsione che spinge e vivifica. È una scrittura autonoma, che si svincola dalla necessità della performance, per vivere indipendentemente anche sulla pagina, ma che, sul palco, si scioglie con più agilità, se posseduta da una consapevole umanità attorica. In questi labirinti, ritroviamo, quasi sempre, due caratteristiche: alcuni rimandi ad altri testi della letteratura germanofona, o a casi di cronaca, e alcuni leitmotiv stilistici che aiutano ad orientarsi nell’infinito tessuto del testo. Posseduti questi due strumenti cardinali, la matassa verbale si distende e fa apparire, luminose, lucciole di genio.
FaustIn and out ha entrambe le caratteristiche. È stato definito dalla stessa autrice un “dramma secondario”, una sorta di opera drammatica di commento all’Urfaust di Goethe, che lo rilegge e riscrive in chiave femminile e lo intreccia al caso di cronaca austriaca di un padre che ha tenuto segregata la figlia per anni, abusando di lei. I leitmotiv stilistici, invece, sono un certo gusto per il grottesco da avanspettacolo, la metafora che svela e commenta le vicende presentate e un’atmosfera svampita, come se i personaggi fossero dei finti-tonti dalle aspirazioni epiche, che raccontano e si perdono in flussi di pensiero, in prima battuta, incongruenti, che si rivelano, poi, spelonche sull’abisso.
Per rappresentare un testo – tradotto appositamente, in occasione del Festival Focus Jelinek (leggi l’approfondimento), da Elisa Balboni e Marcello Soffritti e pubblicato da Titivillus – dotato di una simile complessità sono indispensabili grandi attori e una regia attenta al dettaglio, che abbia una leggerezza e, allo stesso tempo, una profondità di sguardo tali da affondare nel suddetto abisso, senza averne paura, per riemergerne con disinvoltura.
FaustIn and out dell’Accademia degli Artefatti – prodotto dalla compagnia insieme all’Associazione Tra un atto e l’altro e al Festival che lo contiene –, con la regia di Fabrizio Arcuri, vede in scena Angela Malfitano, Francesca Mazza, Sandra Soncini, Matteo Angius e Marta Dalla Via.

(foto di Michele Lamanna)

(foto di Michele Lamanna)

La prima parte – La Presentazione – si apre su una serie di pannelli mobili, una sedia sulla destra, la videoproiezione del Faust di Wilhelm Murnau e il retro di una casetta sullo sfondo. Si susseguono tre grandi voci. Quella di Sandra Soncini, concitata, rabbiosa, irruenta e ossessiva in un corpo da attrice-amazzone. “Dice” la donna, la descrive, la esalta, la banalizza e, nuovamente, ne fa un’eroina triste e sola. La seconda voce si sdoppia: Francesca Mazza, nelle vesti di una mascotte-orso, si presenta calma, strafottente, racconta i fatti, si perde in qualche digressione e, intanto, si serve di un microfono che deforma il suo parlare rendendolo cupo e inquietante. L’utilizzo dell’amplificatore sembra casuale, ma non lo è: l’inquietudine che genera è il commento, una sottolineatura sporca di alcuni passaggi che narrano del padre della ragazza vittima dell’incesto; di come ha costruito la cantina insonorizzata nella quale la tiene prigioniera; di quel suo possederla senza appello, come fosse naturale, necessario; del poliuretano espanso usato per rivestire la prigione; del dono di un secchio per gli escrementi e di uno per gli aborti; della pietra tonda che mura e impedisce la fuga; della grande fatica che un padre può spendere per il benessere di una figlia. C’è del paradosso nel corpo e nel discorso della Mazza, nell’esaltazione fin troppo estrema del padre mostro, nel suo fisico esile imprigionato nel costume sproporzionato e nell’eleganza distratta con la quale lo porta.

(foto di Michele Lamanna)

(foto di Michele Lamanna)

Infine, arriva la terza voce. Le pareti si muovono, parte una deliziosa canzone pop e Arcuri manovra un occhio di bue in scena, rincorrendo un goffo inseguimento tra l’orso e un coniglio bianco. È la ragazza, la prigioniera, Elizabeth Fritzl. Angela Malfitano la fa svampita, irragionevole. Pronuncia le parole scritte dalla Jelinek per il personaggio con candore, perché così pensa una giovane per la quale la vita è divenuta un trauma: due metri quadrati, il dono del secchio, l’aborto all’ordine del giorno, se stessa come sola casa, suo padre come solo compagno possibile, un padre-Dio, creatore di mostri. Allora, lo spettatore ricostruisce la storia: è come se tra le parole dell’orso e quelle del coniglio ci fosse uno specchio deformante e, osservandolo, si potesse ricostruire la prigione, la vicenda, l’eco del Faust sullo sfondo, le esperienze dei due esseri non-più-umani. La Malfitano non teme la caricatura, la sua voce è forte e bambina e quanto afferma porta la traccia dell’assurdo della sua condizione.

Il secondo atto – La Rappresentazione – è decisamente più disteso. Alla concentrazione di parole e voci monologanti della prima parte, segue un vero e proprio banchetto dialogico. Sono scomparse le pareti mobili, il retro della casetta che, prima, vedevamo sullo sfondo è ora in primo piano. Angius/Mefistofele, seduto ad un tavolo, dietro una pila di libri, contrappunta i discorsi dell’orso, del coniglio e di un’operaia (ancora la Soncini), cercandone traccia nel Faust. Sfoglia le pagine del libro e suggerisce incipit di dialoghi fallimentari, puntualmente contraddetti dalle donne in scena. È una danza di parole, si ride, si riflette, si ricostruisce quanto detto nel primo atto, lo si contestualizza in un più complesso paradigma di pensiero. Si chiarifica il titolo della pièce, Faust In-and-out. Elizabeth e la sua esistenza-trauma sono la versione introflessa, sepolta in una cantina, della vita di una qualsiasi donna. La versione estroflessa di Elizabeth è Faust-out, l’operaia sfruttata ed isterica che produce scatole piene di qualcosa, qualsiasi cosa, non ha importanza. La metafora è evidente e chiarificata da un video di qualche minuto proiettato in scena: è la storia del capitalismo, del circolo vizioso che dalla produzione conduce direttamente al desiderio, della schiavitù che soggioga il consumatore e di come i potenti siano stati abili nell’orchestrarla, dei soldi virtuali di pochi che si concretizzano nel lavoro di molti. Entra in scena, vestita da dama, Marta Dalla Via in un riuscito cammeo che, oltre ad essere un gran pezzo di bravura, serve a chiarire ancora di più l’oggetto dell’atto. È la commessa di un supermercato licenziata per aver rubato alcuni vasetti di budino scaduto, destinati ad essere ritirati dalla vendita. Con una precisione chirurgica, la giovane enumera le contraddizioni del fatto e si rassegna alle leggi che dominano il grande mercato e le piccole vite di coloro che ne sono i destinatari.

(foto di Michele Lamanna)

(foto di Michele Lamanna)

Nel terzo atto – La Cronaca – la casetta che avevamo visto sullo sfondo o in proscenio, rivela la sua facciata: una piccola palafitta su ruote, un’abitazione tipicamente nordica che potremmo immaginare immersa in un paesaggio innevato. Parrebbe dolce, se non fosse quella sotto la quale immaginiamo sepolta viva Elizabeth. Al centro della scena, ancora la Malfitano/coniglio, finalmente drammatica, stanca. Ammette il suo trauma, descrive alcuni raccapriccianti dettagli della sua detenzione forzata, proprio nel momento in cui, con una strascicata lentezza, Arcuri e Angius, in scena, vestiti da operai, rendono concreta la sua prigione.
L’ultimo atto di FaustIn and out, come l’intero spettacolo, triangola diverse dimensioni: dentro, fuori, sopra, sotto, oltre. La parola della Jelinek si è fatta piana, necessaria, ogni frase ha senso per se stessa, è oggettiva: la tragedia è compiuta.
C’è una dimensione politica, è evidente, tanto nel testo di partenza, quanto nella lettura che ne ha fatto Fabrizio Arcuri (per approfondire, leggi l’intervista di Lucia Amara per il Quaderno Jelinek a cura di Altre Velocità). E questa dimensione intreccia i livelli del vissuto personale, della storia recente, della storia economica. La ragazza segregata si fa allora summa di tutti i sacrifici, le violenze, gli abusi, le crudeltà, la disumanizzazione di tutte le donne e di ognuna.

Nicoletta Lupia

Visto all’Arena del Sole, Bologna, in occasione del Festival Focus Jelinek.

Niente è necessario, niente è superfluo: Short Theatre 8

A dare l’avvio, alle 19 del 5 settembre, sono Facchini, Ferrarini e Sielli. A salire sul palco del Teatro 1 è il vissuto dei corpi, è la realtà nella pelle, sono le parole uscite da bocche imperfette. Apre l’ottava edizione di Short Theatre il Pinocchio dei Babilonia Teatri, presentato in forma di studio a B.Motion lo scorso anno (leggi qui l’intervista) e visto a Roma al Teatro Palladium nella stagione invernale. Due i lavori della compagnia veneta, che negli spazi della Pelanda porta anche Lolita, spettacolo che oggi, a poco più di due mesi dal debutto al Napoli Teatro Festival è rivisto, riadattato, con la presenza di Valeria Raimondi ad affiancare la giovane Olga Bercini.
Tante le traiettorie che s’incrociano all’ex mattatoio: ci sono artisti emergenti, produzioni internazionali, conferenze sotto la tettoia, incontri di riflessione sulla scena contemporanea. Lo sguardo al Premio Scenario, con InternoEnki e Beatrice Baruffini (leggi qui l’intervista alla Generazione Scenario 2013), le pupazze di Marta Cuscunà, il corto in danza di Claudia Catarzi, gli autoritratti photo booth di Lenz Rifrazioni, gli straordinari performer di (M)imosa Twenty looks or Paris is burning at The Judson Church (M), la prima assoluta di In società di Federica Santoro. Ci sono i progetti realizzati all’interno di Fabulamundi. Playwriting Europe, Il gatto Verde di Elise Wilk per la mise en espace di Lisa Ferlazzo Natoli e La casa d’argilla e Villa Dolorosa di Rebekka Kricheldorf con mise en espace di Fabrizio Arcuri e Accademia degli Artefatti.

short theatreNon ci sono confini netti, tempi imposti, tendenze dichiarate. C’è un luogo dove «non ci si riconosce per costituzione ma ci si incontra per conoscere» come dichiarato dal direttore artistico Fabrizio Arcuri nella presentazione del festival. Dei percorsi tracciati, delle idee condivise, delle forme plasmate o solo abbozzate vogliamo restituire frammenti, senza ricomporre un quadro. Perché niente è necessario ma niente è superfluo nella Democrazia della felicità.
C’è la voglia di resistere in To play or to die di Giuseppe Provinzano e Babel, spettacolo in costume che parla dell’oggi, tragedia shakespeariana che chiama in causa Rosencrantz e Guildenstern lasciando da parte Ofelia e Amleto. Pièce che s’interroga sulla crisi, sul teatro: è meglio mettersi in gioco, consapevoli, o meglio morire inconsapevoli?
È una coreografia leggera, un dialogo delicato con l’aria, Nos Solitudes, spettacolo che transita per tutta la rete di FinestateFestival. È svincolarsi dai fardelli, slegare nodi, sciogliersi dai legami, stare in ascolto di sé. Un sistema di corde e pesi. Un musicista. Una danzatrice. Una sfida alla gravità. La ricerca della solitudine. I suoni di Alexandre Meyer guidano i piccoli gesti di Julie Nioche, cullano i dondolii, accompagnano le cadute, sottolineano le (ri)salite.
Restano appesi i fiori morti di Tierra pisada, por donde se anda, camino, a disegnare la staticità, a fermare un tempo che passa lasciando tutto uguale. Un’installazione più che uno spettacolo quello della compagnia spagnola El canto de la cabra, creato e realizzato da Elisa Gàlvez e Juan Ùbedo. Da fruire seguendo il proprio ritmo, muovendosi nello spazio, più che da vivere seduti, in lenta attesa di una fiamma che brucia e si spegne, ancora e ancora.

dewey dellSi fa fatica a restare fermi durante il Tuono di Black Fanfare e Dewey Dell. Perché i suoni di Demetrio Castellucci sono fremiti elettronici. Perché le immagini in negativo, le luci fredde disegnate da Eugenio Resta sono brividi istantanei, sono sussulti al neon. Perché i costumi di Teodora Castellucci sono vibrazioni primitive, risvegli ancestrali. Perché le coreo-azioni ideate da Agata e Teodora sono battaglie epidermiche, balzi ritmici, pulsazioni emotive.
E sono tempeste emozionali, bufere sentimentali quelle di Solfatara degli spagnoli Atrebandes. Sono millefoglie mal digerite e animosità sopite, che eruttano nell’atmosfera tesa di una cena casalinga. Con un lui in pantaloni e maglietta, immagine dell’uomo accondiscendente, una lei in vestitino rosso e un filo di rossetto, mogliettina perfetta, e la paura senza nome e senza volto, che ribolle ora nell’uno ora nell’altro corpo, fino all’esplosione, addolcita, sfumata, ammorbidita dalla Marcia alla turca di Mozart.

Visti a Short Theatre 8, La Pelanda – Centro di Produzione Culturale, Roma

Rossella Porcheddu