Fanny & Alexander

Il Festival Focus Jelinek: una dolce bufera di parole e sguardi

Copertina del Catalogo del Festival Focus Jelinek con un'immagine di Claudio Parmiggiani

Copertina del Catalogo del Festival Focus Jelinek con un’immagine di Claudio Parmiggiani

Il Festival Focus Jelinek è in pieno svolgimento. Iniziato il 7 ottobre a Piacenza, terminerà il 15 marzo a Montescudo (RN) e coprirà un arco temporale di sei mesi, andando a disegnare un percorso in 13 città dell’Emilia Romagna – Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Castel Maggiore, San Lazzaro di Savena, Modena, Bologna, Casalecchio di Reno, Faenza, Forlì, Ravenna, Cesena, Rimini, Montescudo – e coinvolgendo una molteplicità di artisti, studiosi, critici e traduttori. Si tratta di una rete a maglie larghe, una serie di iniziative fitta e coerente, nata dalla mente e dall’operatività culturale della brillante Elena Di Gioia per esplorare l’opera del premio Nobel austriaco Elfriede Jelinek, autrice di romanzi, opere teatrali, sceneggiature. Si susseguono, toccando le varie tappe di questa mappa interattiva, spettacoli, progetti speciali in teatri, festival, biblioteche, scuole e università, proiezioni, letture e un convegno dal titolo happening jelinek che si è svolto il 3 dicembre negli spazi dei Laboratori DMS di Bologna.

“Io cerco di decostruire la realtà. Questa realtà io la faccio ogni volta per così dire a pezzi,
come se separassi a strappi le tende di un sipario,
per rabbia contro il testo che c’è dietro”
.
(Elfriede Jelinek in un’intervista di Renata  Caruzzi, Ein Gespräch mit Elfriede Jelinek,
realizzata per la Società Italiana delle Letterate (SIL), München, novembre 2005)

Scrivere per strappare, decostruire, smontare e rimontare, raccontare, affondare nelle storie e restituirne un’immagine sghemba, per, infine, mostrare i limiti dello strumento-testo, servirsene fino a sfinirlo, fino a farne emergere le incoerenze, a farlo esplodere dall’interno. Ma servirsene, sempre, per addentrarsi nella realtà, scarnificarla, nel tentativo, destinato al fallimento, di ordinarla, pettinarla.

“È talmente spettinata la realtà. Non c’è pettine che riesca a lisciarla.
I poeti vi passano e raccolgono disperatamente i suoi capelli in una pettinatura, dalla quale prontamente di notte vengono perseguitati. Nell’aspetto c’è qualcosa che non va”.

(Da In disparte, discorso pronunciato in occasione del conferimento del Nobel nel 2004)

Il FFJelinek, muovendo da un desiderio di indagine della scrittura dell’autrice nella sua vastità, non solo propone al pubblico una porzione consistente della sua opera, ma ha anche dei felici prolungamenti in alcune pubblicazioni e trasmissioni radiofoniche: Radio Zolfo, a febbraio, ospiterà artisti e studiosi in un dialogo sul corpus della Jelinek a cura di Altre Velocità; RadioEmiliaRomagna segue il festival con una serie di interviste; doppiozero accompagna tutto l’attraversamento con interventi a cadenza mensile, sotto la cura redazionale di Massimo Marino; è uscito per Titivillus FaustIn and Out, testo scritto dalla Jelinek nel 2011/12 e tradotto in italiano da Elisa Barboni e Marcello Soffritti; il secondo numero del 2015 della rivista “Prove di Drammaturgia” sarà curato da Elena Di Gioia e Claudio Longhi e sarà dedicato all’opera dell’autrice.

“[…] non riesco a lasciare il luogo in cui sono. Che importa. L’estraneità non è qui, sta là dove non è estranea, lo preferisce. Ha ragione. […]
The answer, my friend, is blowin’ in the wind. La risposta la sa il vento, e io la so. Il vento viene da tutt’altra parte. Io non vengo, perché non vado nemmeno”.
(Elfriede Jelinek, Ritornare! In Italia!)

Quest’ultima citazione è tratta da Ritornare! In Italia!, un testo scritto dalla Jelinek appositamente per il Focus e presentato in anteprima durante lo stesso. L’autrice austriaca ringrazia per l’attenzione dedicatale, annuncia che non sarà presente a causa della sua agorafobia – che da tempo le impedisce di muoversi dalla sua abitazione -, parla di luoghi e, indirettamente, traccia i confini di uno spazio della mente: l’Italia nei suoi ricordi. Il FFJelinek è, invece, un luogo reale che, costruendosi, ridefinisce continuamente le sue latitudini e l’idea stessa di confine: tra le città, le opere, gli artisti, gli oggetti, le persone.

Un esempio lampante di questa forma di ridefinizione è stato l’happening jelinek che si è tenuto a Bologna il 3 dicembre: “ombelico progettuale” del Festival, il convegno è stato una corsa di fondo nell’opera della scrittrice che ha visto la partecipazione degli artisti coinvolti e di alcuni autorevoli studiosi e traduttori. Tra una lettura, un momento performativo – con Anna Amadori, Ateliersi, Elena Bucci, Fanny & Alexander, Chiara Guidi, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Accademia degli Artefatti, Teatri di Vita, Teatrino Giullare -, una riflessione sul teatro dell’autrice – Luigi Reitani, Silke Felber -, sulla sua scrittura – Gerardo Guccini -,  o sulle strategie adottate per tradurla – Elisa Barboni, Marcello Soffritti, Rita Svandrlik -, la giornata è stata abitata da una dolcissima bufera di parole che ha guidato il pubblico presente nell’immaginario della Jelinek, fornendogli alcune chiavi d’accesso per esplorare il suo corpus, le sue fonti, la sua poetica.
In occasione dell’happening sono stati presentati l’esito del laboratorio tenuto da Claudio Longhi con gli studenti dell’università di Bologna su uno degli ultimi testi della drammaturga, Die Schutzbefohlenen – I rifugiati coatti (traduzione di Luigi Reitani) e il Quaderno Jelinek.

I rifugiati coatti (foto Sara Colciago)

Die Schutzbefohlenen – I rifugiati coatti (foto di Sara Colciago)

Il primo ha visto la partecipazione di circa sessanta studenti che, guidati dal regista, in cinque giorni, si sono addentrati nell’opera, fuoriuscendone con una mise en espace in cui lingue, culture, caratteri e musiche si sono felicemente sovrapposti in uno spettacolo di massa polifonico e corale, non privo di momenti di grande pathos, aggressivo, riflessivo e autosufficiente. Il testo indaga la condizione del clandestino, travestendo le Supplici di Eschilo e filtrando la tragedia attraverso il concetto attualissimo di confine e il caso di cronaca della strage di Lampedusa. Un’orda di studenti-attori ha assalito il pubblico da destra e sinistra, è apparsa in alto, è entrata dal fondo, si è raggruppata in agglomerati monologanti o in dialogo, ha interagito con una suonatrice di fisarmonica sulla destra. Poliglotta, l’orda ha restituito un’immagine volutamente non unilaterale dell’emigrante alla ricerca di una forma di salvezza e, forse, salvazione.

Copertina del Quaderno Jelinek a cura di Altre Velocità

Copertina del Quaderno Jelinek a cura di Altre Velocità (grafica Brochendors Brothers)

Il Quaderno Jelinek – consultabile sul sito del Festival e su quello di Altre Velocità che lo ha magistralmente curato – si presenta come un ulteriore prolungamento del FFJelinek. Viene introdotto da un saggio di Luigi Reitani (contrazione dell’introduzione al volume Sport. Una pièce – Fa niente. Una piccola trilogia della morte, Ubulibri, 2005) e raccoglie una serie di interviste agli artisti coinvolti nella rassegna e alla sua curatrice, ognuno in dialogo con un critico o studioso – Elena Di Gioia / Serena Terranova; Claudio Longhi / Nicoletta Lupia; Andrea Adriatico / Lorenzo Donati; Fabrizio Arcuri / Lucia Amara; Enrico Deotti / Rossella Menna; Chiara Guidi / Alessandra Cava; Chiara Lagani / Alex Giuzio; Angela Malfitano / Francesco Brusa; Angela Malfitano e Nicola Bonazzi / Lucia Cominoli; Fiorenza Menni / Piersandra Di Matteo; Elfriede Jelinek / Anna Bandettini. “Come si legge quest’autrice, oggi, pensando a una sua messa in scena? Come ci si districa tra intrecci di fonti e colate di caratteri, come ci si orienta tra citazioni di altri autori e crepe visionarie, tra strumenti filosofici e cronaca nera? Ecco che ogni dialogo qui raccolto prova a fornire una visione specifica”. Il Quaderno risponde a queste questioni preliminari e si presenta come uno strumento bifronte: da un lato, indaga l’opera dell’autrice servendosi degli autorevoli punti di vista degli artisti che si sono avvicinati ai suoi testi; dall’altro lato, restituisce un quadro del Festival stesso, delle riflessioni alla sua origine, della sua evoluzione nel corso del tempo, delle sue multiformi declinazioni. Leggendo il Quaderno, lineare, preciso, strutturato con intelligenza, si viene, ancora una volta, attraversati da quella dolce bufera di parole protagonista dell’happening, come dell’esito del laboratorio, come del progetto tutto.
“Al teatro voglio strappare la vita”
dice la Jelinek mentre si offre al paradosso di voler creare qualcosa di non-vivo lasciando però che si prolunghi in progettualità spettacolari e non solo necessariamente vitalissime. Il FFJelinek è un montaggio di schegge, ha esordito Elena Di Gioia introducendo l’happening, esso restituisce un collage di visioni, di sprofondamenti e di riemersioni in un’opera compatta e, finora, poco conosciuta in Italia, dura e difficile, che non lascia scampo e che sfida il lettore, il regista, l’attore, lo studioso in un corpo a corpo fino all’ultimo respiro.

Nicoletta Lupia

Benvenuti a Emerald City

Recensione a Emerald CityFanny & Alexander

Foto di Enrico Fedrigoli

La duplicità ha sempre giocato un ruolo molto importante nel lavoro teatrale della compagnia ravennate Fanny & Alexander. Una coppia, la drammaturga Chiara Lagani e il regista-scenografo Luigi de Angelis, che firma insieme l’ideazione di ogni percorso progettuale lungo e complesso: un viaggio dentro un’opera letterale che viene totalmente sviscerata, analizzata e amplificata in tutte le sue infinite possibilità.

Ricomponendo e scomponendo attraverso diverse tappe Il meraviglioso mago di Oz – storia fantastica scritta da Frank Baum all’inizio del secolo scorso e resa ancor più celebre con il film di Victor Fleming – Fanny & Alexander offre la possibilità al pubblico veneziano di giungere a Emerald City, la città utopica abitata da colui che dà il nome al romanzo. La duplicità si presenta sin da subito: gli spettatori non sono semplici osservatori di ciò che succede, ma artefici stessi – forse inconsapevoli – della situazione che si viene a creare; seduti sul palco sono loro stessi un’opera, loro stessi gli artisti e soprattutto diventano gli abitanti della ingannevole città di smeraldo. Ingannevole perché immediatamente il gioco dei rimandi si complica: il mago di Oz, a cui nel romanzo i personaggi rivolgono i loro desideri, trova la sua personificazione in una delle immagini simbolo del potere, niente di meno che Hitler. Posto davanti a uno sfondo spaziale che richiama i quadri/vuoti materici e illusionistici di James Turrell, la geniale coppia romagnola alza la posta in gioco decidendo di mostrare il dittatore, di fronte agli spettatori, in ginocchio: l’interprete Marco Cavalcoli ricorda volutamente l’installazione dell’artista Maurizio Cattelan.

Foto di Enrico Fedrigoli

Immobile e bonario, Hitler rimane in ascolto, diventando una specie di confessore: un tappeto sonoro fatto di voci, preghiere, emozioni e racconti privati in diverse lingue lo avvolge, mentre gli spettatori possono sentire la stessa “sinfonia” – come la definisce Chiara Lagani – tramite delle cuffie che rendono le confessioni ancora più intime. L’attore-dittatore assorbe ciò che gli viene detto riflettendo tutte le emozioni umane attraverso una mimica facciale più comprensibile del linguaggio verbale composto da suoni stranieri, suoni che girano attorno ai concetti di “cuore, cervello e coraggio”, tre virtù dell’uomo. Questa nenia di desideri umani crea Oz, quel grande vuoto a cui i personaggi del romanzo danno una forma differente, secondo il proprio volere. E infatti se nella prima parte il dittatore è più uomo e meno mostro, nella seconda parte di Emerald City l’attore Cavalcoli scompare, lasciando il posto a una proiezione 3D: invitando a mettere degli occhialini verdi – occhiali per la visione in 3D forniti al pubblico all’ingresso del teatro – l’immagine silenziosa di Hitler e alcune scritte proiettate alla parete spingono gli abitanti della sua città color smeraldo a seguirlo. E gli abitanti-spettatori – vinti dalla tecnologia accattivante e dalle fascinose possibilità del video – seguono, come fossero sotto incantesimo, gli ordini di Hitler in tutto e per tutto. Potrebbero riecheggiare qui le parole della famosa canzone The sound of silence di un’altra coppia, Simon & Garfunkel: “e la gente si inchinava e pregava/ al Dio neon che aveva creato. E l’insegna proiettò il suo avvertimento/ tra le parole che stava delineando. E l’insegna disse: ‘le parole dei profeti/sono scritte sui muri delle metropolitane/e sui muri delle case popolari’.”

Fanny & Alexander mostrano il potere dell’arte della persuasione, la pericolosità di immagini e oggetti che attraggono e mandano a casa lo spettatore solo a posteriori conscio di aver partecipato, anche solo per gioco, alla follia di Hitler. Si rabbrividisce al solo pensiero: essere omologato e seguire un dittatore nei suoi folli capricci non è né così improbabile o impensabile né poi così lontano dalla nostra quotidianità come si crede.

Visto al Teatro Universitario Giovanni Poli, Venezia

Carlotta Tringali

Commenti del pubblico su Emerald City di Fanny & Alexander

Teatro G.B. Poli di Santa Marta, Venezia. Commenti a caldo del pubblico dopo lo spettacolo Emerald City di Fanny & Alexander

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