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Un Marthaler oltre misura con King Size

Recensione a King Size – regia di Christoph Marthaler

Vedere uno spettacolo di Christoph Marthaler è un’esperienza. Non solo perché al regista svizzero verrà riconosciuto quest’anno il Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia, ma perché il suo teatro possiede una cifra stilistica raffinatissima e unica; tocca tutte le sfumature di sensazioni umane in maniera mai scontata, ma del tutto originale e anticonvenzionale. Come lo fa?

kingsize_008Molte e bellissime parole sono state spese per il suo ultimo spettacolo King Size ospitato per tre giorni al Teatro Fabbricone di Prato a chiusura della stagione del Teatro Metastasio – si legga Roberta Ferraresi su Doppiozero, Serena Terranova per Altrevelocità, Maria Grazia Gregori su Delteatro in cui si analizzano in profondità le caratteristiche di un regista che ha dato vita a un personalissimo teatro musicale dove al centro vi sono l’uomo e le sue relazioni interpersonali, incluse tutte le loro contraddizioni.

King Size mescola il reale con l’onirico, il paradossale con il cinico, l’ironia con la crudeltà, il grottesco con un humour sottilissimo. Un uomo e una donna (gli strepitosi cantanti e attori Michael von der Heide e Tora Augestad) esplorano, tramite una drammaturgia musicale pazzesca, fatta di arie e canzoni che vanno da Schumann a Wagner, da Mozart a Lapointe, da Berg a Mahler passando per The Kinks a canzoni popolari tedesche, il rapporto di coppia e tutti i sentimenti che si attraversano in una relazione. Ma i due non costruiscono alcun vero rapporto tra loro, non abitano le emozioni che cantano, né le indossano: piuttosto le destrutturano e le annullano in un gioco surreale che sposta continuamente il concetto che si mette a fuoco in quel preciso momento. Ed ecco che è qui che arriva il valore aggiunto: per King Size il regista ha parlato di “variazioni enarmoniche”, ossia della tecnica di composizione musicale che permette di scrivere uno stesso suono alla stessa altezza in due modi diversi e operando così funzioni differenti; applicando questo concetto alle relazioni interpersonali dello spettacolo vengono mostrati comportamenti che portano a continue sconnessioni tra quello che le canzoni esprimono e quello che i cantanti fanno. Non c’è aderenza tra il dire e il fare e forte è la sensazione di straniamento che ne consegue. E se ci si abbandona alla fitta trama di pazzie e di incongruenze di King Size il risultato è uno scollamento di brechtiana memoria.

kingsize_004A rendere addirittura esilarante King Size è la presenza atipica di una signora – la formidabile Nikola Weisse – che con un invidiabile aplombe attraversa la scena mentre gli altri due cantano, si infila nel letto tra i due amanti, mangia la pasta da dentro la borsetta, si arrampica per aprire gli armadi, sosta inesorabile davanti a un leggio che non sorregge alcuno spartito: è lei che dissemina lo spettacolo di brevi e significative sentenze utili per orientarsi nel labirinto surreale che è King Size, dove le ante dell’armadio sono porte d’uscita per gli attori, il frigorifero è irraggiungibile perché posto troppo in alto, gli interpreti sbucano da sotto il letto, entrano tutti insieme in bagno o cantano da dentro il guardaroba. La normalità in Marthaler non è ammessa: dopotutto, come sentenzia l’anziana signora, “se penso tutto correttamente potrei anche smetterla di pensare”.

Gli strepitosi attori (non bisogna dimenticare il pianista Bendix Dethleffsen, anche curatore delle musiche), passano con facilità dal tedesco all’inglese e al francese; le messinscene di Marthaler contengono infatti una lingua poliglotta, non solo in senso letterale: ci sono diversi piani, il linguaggio utilizzato attinge da registri alti a quelli più popolari. Ne viene infatti fuori un’opera per palati raffinati per via delle numerose citazioni che vi sono contenute; ma allo stesso tempo risulta essere molto godibile ed esilarante per gli sfasamenti creati sul piano di realtà/surrealtà e di significato/significante. Proprio qui risiede il genio: nella capacità di realizzare spettacoli che possano abbracciare i diversi gusti del pubblico, accontentando chi pretende di vedere uno spettacolo che faccia riflettere e abbia un certo spessore culturale a chi vuole semplicemente passare una serata leggera e divertente.

E se non l’avete mai visto prenotatevi: l’8 e il 9 giugno King Size torna in Italia, più precisamente al Carignano di Torino; inoltre da segnare in agenda la prima nazionale di Das Weisse vom Ei / Une île flottante che aprirà la Biennale Teatro di Venezia il 30 luglio.

Visto al Teatro Fabbricone di Prato

Carlotta Tringali

Lavorare sul rischio culturale: la sfida del Teatro di Sardegna

Quella del Teatro di Sardegna è una storia atipica. Nata negli anni ’60 a Cagliari dall’esperienza del Centro Teatrale Universitario, la compagnia si costituisce come cooperativa nel 1973 e nel 1980 dà vita, in collaborazione con l’ETI e con gli enti locali, al Circuito Teatrale Regionale Sardo.
Nel 2004 arriva il riconoscimento come Teatro Stabile e nel 2009 la gestione del Teatro Massimo, restituito alla città dopo ventisette anni di chiusura. Oggi, con il riconoscimento come Teatro di Rilevante Interesse Culturale, e con la nomina di Massimo Mancini a Direttore Generale, il Teatro di Sardegna si avvia a una nuova fase, assumendo il nome di Sardegna Teatro. Fase che prevede un importante percorso di rinnovamento, già in essere, la creazione di una rete, ovvero il confluire artistico di realtà isolane, prima fra tutte Is Mascareddas, e la gestione del Teatro Massimo di Cagliari e dello spazio MoMoti di Monserrato – sede della compagnia Is Mascareddas – che diviene centro produttivo e di residenza.
Nove le direttrici sulle quali si muove il progetto, da Language Factory, che prevede una “residenza d’autore”, a Giovani idee, che mette in moto una rete di realtà culturali per il sostegno degli emergenti sardi, dal dialogo tra territorio e comunità promosso da Paesaggio, agli eventi per il centenario della Grande Guerra, racchiusi sotto il titolo di Cento, dal teatro che incide sulla realtà, Atto politico, a quello per i più giovani, Il grande teatro dei piccoli, per arrivare al Festival di filosofia, in programma dal 15 al 17 maggio, e a Mediterraneo, eventi di affiancamento al festival. Un progetto che mostra una necessaria spinta innovatrice e una forte aderenza alla città, come ci racconta con entusiasmo Massimo Mancini:

Massimo Mancini - foto di Alessandro Cani

Massimo Mancini – foto di Alessandro Cani

«Nel presentare il progetto per il TRIC ci siamo domandati cos’è Cagliari oggi, qual è la sua dimensione geografica, quale il rapporto con la contemporaneità. E cosa significa diventare Teatro di Rilevante Interesse Culturale per una struttura che ha una storia diversa da tutte le altre. Il riconoscimento da parte del Mibact è soprattutto un riconoscimento al territorio. È un progetto che vuole rispondere alle domande imposte dai cambiamenti. La sfida è colta in maniera idealista, si sta lavorando sul rischio culturale».

Una sfida che, a guardare il cartellone 2015/16 chiama in causa innanzitutto la programmazione: Romeo Castellucci, Emma Dante, Motus, nomi che in Sardegna non si vedevano da tempo.
«Vengo dalla candidatura di Cagliari come Capitale Europea della Cultura, quindi ho pensato a una stagione per una capitale europea. È necessario recuperare un po’ di gap, portare quel teatro contemporaneo che manca da anni. Ma ciò che ci interessa non è solo la presenza di spettacolo, è anche l’incontro con il territorio. Gli artisti che verranno staranno per un tempo lungo, si confronteranno con la città».

Una città, e un’isola, al centro di un disegno che coinvolge diverse realtà.
«La casa del Teatro di Sardegna si allarga alla complessità degli sguardi e ad alcune realtà importanti, che ho incontrato sia nel mio percorso di teatrante che nel percorso di Cagliari2019. Parliamo, ad esempio, di Is Mascareddas, compagnia che tiene alto il nome della tradizione del teatro di figura, con vere e proprie sculture animate, che ricalcano incontri fatti nel mio percorso, da William Kendridge e Handspring Puppet Company al Bread & Puppet di Peter Schumann. La collaborazione con Is Mascareddas, inoltre, permette di fare un lavoro sulla periferia, perché lo spazio MoMoti sta a Monserrato, zona che ha una sua autonomia, ma anche zona dormitorio. Dunque si lavora sul tema dell’area metropolitana, su cosa significa essere un teatro di cintura. Inoltre c’è una coproduzione, che è la sintesi del percorso produttivo di quest’anno, ovvero Cento, con la regia dell’austriaca Karin Korrell, le figure animate di Is Mascareddas su testo commissionato a Michela Murgia».

Michela Murgia che è il primo scrittore residente di Language Factory?
«Sì, ci siamo immaginati una sorta di residenza d’artista, non con un regista, come spesso accade, ma per uno scrittore. La Murgia inaugura, e poi ci sarà un passaggio di testimone, sarà lei a scegliere il successivo scrittore residente, quello per la prossima stagione. Per Cento (in cartellone a dicembre, ndr) le è stato chiesto di scrivere solo un canovaccio; a giugno ci sarà il primo incontro con la regia, e lei seguirà tutte le fasi del lavoro, confrontandosi con una scrittura scenica».

Per quanto riguarda gli emergenti? Quali sono le Giovani idee?
«In questo territorio c’è bisogno di un ricambio generazionale, che non si fa dall’oggi al domani. E ho elaborato un progetto che vada in questo senso. Non mi interessava chiamare un regista e fare una compagnia di giovani, non vengo da quel modello. Vengo da quel teatro che crede nell’autorialità, che non distingue più cos’è autore e cos’è attore. Quindi, facendo un mix tra i vari modelli nordamericani, sudcoreani, sudamericani, ho costruito una ‘finestra’ che si chiama “Pitch contest”. Gli artisti hanno a disposizione quindici minuti per fare ciò che vogliono, e l’uso che si fa della propria libertà è la prima valutazione. È necessario vedere chi c’è dietro un’idea».

Ha funzionato?
«In alcuni casi sì, in altri no. Renderemo noti a brevi i cinque nomi scelti, tra i quaranta che si sono presentati, ma intanto diciamo che uno dei partecipanti al Pitch contest, Marco Sanna di Meridiano Zero (Sassari) è stato scelto come regista per Soglie di Is Mascareddas, tratto da Le via del pepe di Massimo Carlotto, in scena al Teatro Massimo fino al 24 maggio».

La prima fase delle Giovani idee è conclusa quindi?
«Sì, i progetti sono stati scelti insieme al Circuito Teatrale Regionale Sardo, Akroama, altro soggetto del territorio, e a una rete di spazi indipendenti sardi. E poi il Pitch diventa un meccanismo fisso, per altri possibili progetti da inserire, perché la produzione è il nostro obiettivo. In questo modo mi auspico un ricambio generazionale, forse è un metodo più lento del provino, ma favorisce sicuramente l’autorialità e l’unicità».

Lo sguardo ai giovani non si limita solo agli artisti, ma anche al pubblico. Si sta facendo un’operazione importante per coinvolgere gli studenti dell’ateneo cagliaritano.
«Vorrei tutti i ventisettemila studenti a teatro con noi. Abbiamo convinto il presidente dell’Ersu (Ente Regionale per il Diritto allo Studio Universitario) a pre-acquistarci duecento tessere, da mettere in vendita a solo un euro. Abbiamo chiesto un aiuto per lavorare sulla domanda latente di teatro, per portare gli studenti in platea almeno una volta, poi è responsabilità nostra farli tornare. Le duecento tessere sono andate a ruba, si è sentita l’appartenenza di un teatro a una comunità. Ne venderemo altre a dieci euro, e poi abbiamo inventato un sistema di upgrade secondo il quale si può acquistare un abbonamento per cinque spettacoli in galleria, e si possono migliorare la quantità di spettacoli e la qualità dei posti, sia pagando che dando vita ad alcune attività che fanno conquistare punti».

Ad esempio?
«Ad esempio invitare gli amici di facebook a vedere lo spettacolo, fare un turno di maschera, distribuire il materiale, scrivere le recensioni degli spettacoli, twittare, suggerire un altro modo per fare punti».

Promuovere nuove idee, conquistare il pubblico giovane, ma anche stabilire uno scarto rispetto al sistema costituito?
«Ovviamente. Il sistema sardo non funziona, bisogna ammetterlo, e non funziona perché le grandi strutture hanno fatto da tappo, e quando ci sono i tappi ci sono le compensazioni, di tipo economico, perché la Regione cerca di compensare sovvenzionando i soggetti. Alcuni rifiutano il meccanismo del finanziamento pubblico, ma hanno bisogno di uno spazio per affermare la propria artisticità. Quindi si è generato un sistema di spazi autonomi, finanziati e non, che producono se stessi. È un sistema chiuso, perché tutto l’emergente che c’è in regione non cresce. Sardegna Teatro sta spostando gli equilibri, producendo, producendo l’emergente, portando operatori internazionali. Così si rompono gli schemi. Così si pone l’accento su Cagliari, una città in ascesa. Così si parte dalla Sardegna, come territorio in evoluzione».

È questa l’immagine che hai dell’isola?
«Sono un uomo che non ha molte radici ma tanti rami. Non sentendo un’appartenenza a un altro luogo, non ho fascinazione da turista, e in Sardegna la potenza del primo livello è enorme. Ho molto girato, molto camminato, individuato ciò che è elemento di forza, come la scrittura. Credo che si debba trovare l’equilibrio tra rapporto con la propria comunità e dimensione internazionale. Il cosmopolitismo di oggi è diverso dal globalismo. Il cosmopolitismo necessita della naturalezza con cui riesce a scegliere i valori del territorio, senza condizionamento. Non credo all’identità perché è un concetto in costante divenire. Ma credo che il coraggio stia nell’investire sul territorio, guardando al meccanismo delle rete, ai mondi paralleli, alle nuove economie, alle nuove condivisioni, al rapporto con la lingua, perché bilinguismo significa multiculturalismo, oltre che non paura del diverso. E l’isolamento, oltre che un limite, può essere una possibilità, perché ci sono culture, come erbe, che esistono solo qui. Appunto, si parte dalla Sardegna, come territorio in evoluzione, per la posizione geografica, perché è un ponte per il Mediterraneo, perché può porsi al centro della riflessione su altri mondi. Perché è un territorio da cui far nascere contenuto, valore, senso. Proviamo a capire come la Sardegna può raccontarsi».

Intervista a cura di Rossella Porcheddu

Interviste agli artisti di Primavera Teatrale del Teatro Stabile del Veneto

primavera_teatraleTempo di primavera, tempo di nuove produzioni. Al Teatro Stabile del Veneto – neo-riconosciuto dal Ministero fra i 7 Teatri Nazionali – va in scena una PRIMAVERA TEATRALE tutta particolare: una nuova rassegna fra Venezia e Padova che vede protagonisti gli artisti che il Teatro produrrà nella prossima stagione. Fra incontri, prove aperte, studi e letture, Natalino Balasso, Michela Cescon, Tiziano Scarpa, Giorgio Sangati, Babilonia Teatri, Giuseppe Emiliani condividono con gli spettatori frammenti dei work in progress che condurranno alle produzioni del prossimo anno.

Sono loro infatti i protagonisti della Primavera Teatrale, che si è distinta – come nelle linee guida della progettualità dello Stabile – per l’identificazione di 5 aree tematiche: Parole Contemporanee (Natalino Balasso con La Cativissima – Epopea di Toni Sartana), Progetto Giovani (Tiziano Scarpa e Giorgio Sangati con I maggiorenni), Officina Goldoni (Giorgio Sangati con Arlecchino – Il servitore di due padroni e Giuseppe Emiliani con I Rusteghi), Incubatore Produttivo (Babilonia Teatri con David è morto) e Teatro e Spiritualità (Michela Cescon con Il testamento di Maria).

In occasione della Primavera Teatrale, Il tamburo di Kattrin dedica uno spazio speciale al progetto: ha chiesto alcune anticipazioni agli artisti, in forma di intervista scritta, per scoprire qualcosa di più del loro teatro, di come lavorano e sulle nuove produzioni, su cosa si stanno concentrando in questo momento e come si svilupperanno i progetti.

Qui sotto le 3 domande, per leggere le risposte occorre cliccare sul nome del singolo artista o gruppo. 

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In tre parole: cos’è il suo/vostro teatro? E cosa non è?
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Rispetto al processo in corso con il Teatro Stabile del Veneto e all’appuntamento di “Primavera teatrale”, in questo periodo su cosa sta/state lavorando?
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Una “cartolina” dal processo creativo della nuova produzione: un’immagine e una frase al momento rappresentative del lavoro in via di creazione.
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BABILONIA TEATRI_Enrico Castellani e Valeria Raimondi

Babilonia Teatri

Natalino Balasso

Natalino Balasso

Giuseppe Emiliani

Giuseppe Emiliani

Giorgio Sangati

Giorgio Sangati

In tre parole: cos’è il suo/vostro teatro? E cosa non è?

Babilonia Teatri Il nostro teatro è pop, rock e punk.
Non è classico, non è interpretato, non è intrattenimento.

Natalino Balasso Il nostro è un teatro che non si definisce in tre parole. Ma sicuramente è un teatro nel quale gli attori e il pubblico stanno dalla stessa parte. Cosa non è? Non è noioso.

Giuseppe Emiliani Non so cosa caratterizzi il mio teatro da farlo apparire diverso da un altro.
Sono certo di una cosa: il mio teatro nasce da un affamato bisogno di conoscenza di una società che sta violentemente cambiando, anche nei meccanismi comunicativi e nei paradigmi estetici (per non parlar dell’etica).
Amo usare il teatro come strumento conoscitivo, sia nei confronti di un testo, sia nei confronti della realtà alla quale questo testo si riferisce.
Ogni testo, per me, è uno spiraglio che apre altri mondi.
Ogni testo lo affronto con grande curiosità.
L’arte del teatro è l’arte della curiosità, della irrequietezza e del rischio. Chi fa teatro non riesce a stare semplicemente con la terra sotto i piedi bensì ogni luogo invita all’oltrepassamento.
Ogni esperienza è la testimonianza del desiderio che porta oltre l’esperienza.
Fare teatro, per me, è una esperienza di navigazione avendo gli attori come compagni di viaggio. Non è solo interpretare, progettare, dirigere, coordinare. Fare regia, fare teatro, è una “attività” e una “ricerca”: abbandonare ogni volta ogni facile patria, lasciarsi alle spalle certezze, credenze, pregiudizi, per decidersi ad andare. Andare anzitutto dove il rischio è maggiore, dato che al suo aumentare aumenta anche la possibilità di conoscersi. Andare alla ricerca di una strada nel luogo dove per definizione non si può camminare: il mare.
Nel momento in cui si parte non si sa cosa ci aspetta ma non si può andare in viaggio con sregolatezza. Bisogna navigare nel solco delle precedenti esperienze di viaggio. Non bisogna dimenticare o, peggio, non ri-conoscere i grandi maestri della navigazione. Deve esserci un metodo nel procedere di chi naviga. Occorre essere consapevoli che un errore può portare al naufragio. Quando si naviga c’è bisogno di qualcuno che si assuma la responsabilità del viaggio. Qualcuno che indichi la rotta nel “folle volo” oltre le Colonne d’Ercole. Credo che possono cambiare i luoghi della navigazione, possono cambiare le zattere, possono cambiare i venti… La bella speranza è che non cambi mai il mare, lo spazio metafisico dove gli amanti della ricerca cercheranno sempre, in ogni tempo, di andare avanti anche durante la bonaccia. Perché i teatranti, come le navi, non sono fatti per restare in porto, ma per attraversare il “mare della vita” nell’interrogazione.

Giorgio Sangati Il mio teatro è fatto di parole, spazio e attori. Parole come testo da sviscerare; spazio come microcosmo da inventare; e attori come corpi per dare vita al testo nello spazio. Di questi tre elementi l’ultimo, gli attori, è il più importante. Una volta andati in scena per me lo spettacolo è loro: uno spettacolo bello per me è uno spettacolo rischioso. Mi piace pensare agli attori come funamboli che ad ogni passo rischiano di cadere ma che, alla fine non cadono grazie alla loro bravura, al loro coraggio davanti agli occhi ammirati del pubblico.

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Rispetto al processo in corso con il Teatro Stabile del Veneto e all’appuntamento di “Primavera Teatrale”, in questo periodo su cosa sta/state lavorando?

Babilonia Teatri Per la “Primavera Teatrale” abbiamo presentato al Teatro Verdi di Padova lo spettacolo a cui stiamo lavorando in questo periodo. David è morto, sarà prodotto da Teatro Stabile del Veneto ed Emilia Romagna Teatro Fondazione e debutterà a novembre. David è morto sarà uno spettacolo che, giocando sul filo del paradosso, porterà all’estremo le dinamiche della nostra società costruendo una vicenda al limite del verosimile per dipingere il ritratto di una generazione allo sbando.
David è morto è un progetto originale.
È la volontà di raccontare una storia.
È la volontà di lavorare con degli attori.
È la volontà di scardinare ancora una volta la nostra dinamica di lavoro e di messa in scena. Ci piace e ci affascina l’idea di sperimentare e mettere alla prova la nostra poetica e la nostra estetica in contesti e forme continuamente diversi.
Resta fermo il nostro bisogno di fare i conti con le nostre contraddizioni e con quelle del mondo in cui viviamo. Da qui la scelta di scrivere un testo e uno spettacolo che raccontino una vicenda surreale che spinga fino alle estreme conseguenze le storture del nostro tempo.
È il racconto di una provincia lasciata a se stessa dove si corre per non sapere quel che è stato lasciato alle spalle, per non vedere quel che ci circonda, per continuare a sognare un traguardo che non c’è.
È una narrazione scanzonata e leggera di una realtà profondamente drammatica.
La vicenda parte dalla realtà per costruire un’iperbole che per noi è l’unica possibilità per raccontare con efficacia un mondo in cui spesso il reale supera la fantasia.

Natalino Balasso Ad aprile abbiamo presentato la commedia La Cativìssima, l’epopea di una sorta di Ubu veneto che si chiama Toni Sartana, un personaggio crudele e infantile. La commedia è scritta da Natalino Balasso e recitata, oltre che da lui, da altri due attori e tre attrici. Fa parte di una trilogia della quale le altre due commedie dovrebbero andare in scena nei prossimi anni.

Giuseppe Emiliani Come regista resto ancorato a una “utopia umanistica”. Continuo ad amare lo studio ostinato del testo. E del sotto-testo che amo costruire lentamente, con precauzione. A volte con rabbia. Interrogando ogni frase, ogni parola. Ogni suono.
In questo periodo sto studiando e fantasticando su possibili letture registiche del testo. Mi sto attrezzando per dare tutte le informazioni all’attore quando, finalmente, inizieranno le prove.
A tutti quelli che mi chiedono perché io ami così tanto Goldoni rispondo che lo amo perché ogni volta che allestisco un suo testo ho l’impressione che Goldoni non sia stato ancora, fino in fondo, capito.
Sono convinto che Goldoni abbia ancora bisogno di essere riletto, interrogato, rappresentato.
Anche la commedia I Rusteghi, indubbiamente il suo capolavoro, offre continui nuovi spunti di riflessione. Quando la scrive, nel 1760, Goldoni è un intellettuale sempre più lucido, aperto alle esperienze e alla cultura europea (nel 1760 avverrà il famoso contatto epistolare con Voltaire), più filosofo insomma, nel senso settecentesco del termine.
I Rusteghi nascono anche da questa attenzione ai “lumi” che vengono dall’Europa, e permettono un giudizio più ampio sulla società veneziana.
Una commedia di rara felicità espressiva, di straordinaria abilità scenica, di grande sapienza linguistica.
Una esplosione gioiosa d’inventiva ad ogni gesto e battuta.
Una commedia in cui l’autore affonda il bisturi sulla città che lo circonda, utilizzando con consumata maestria tutte le risorse del suo laboratorio drammaturgico e della sua lingua straordinaria.
Goldoni costruisce il suo componimento con un rigore raramente eguagliato in altri testi, concentrando l’azione in un lasso di tempo minimo (una mezza giornata) che subisce una accelerazione impercettibile ma costante fino alla frenesia della gran scena finale.
L’azione si svolge tutta in interni, gli unici spazi possibili per i quattro rusteghi, quattro uomini alle prese con un eros inquieto e perturbante, con famiglie difficili da governare e con affari ancora prosperi ma già minacciati di crisi.
Ambiguità, insicurezza, irresolutezza, nevrosi caratterizzano questi despoti improbabili, arroccati nella difesa a oltranza del passato contro ogni minaccia di novità.
Netta è la polemica di Goldoni con il conservatorismo ormai rozzo della classe cui appartiene e in cui ha per molto tempo ciecamente creduto. Il mercante lucido e avveduto, che per lunghi anni, nei panni di Pantalone, aveva impersonato il prototipo di un individuo socialmente responsabile, consapevole dell’interesse proprio e altrui, aperto e illuminato, si è ormai svilito a una caricatura di se stesso. Chiuso nella propria casa, gelosamente attaccato al proprio meschino tornaconto, si rifiuta di concedere a chi gli è sottomesso (le donne e i figli) qualunque autonomia di comportamento.
Se i rusteghi tendono a chiudersi dentro le loro case come in una fortezza impenetrabile, le donne guardano alla vita, all’esterno, ai contatti sociali, ai doveri dell’amicizia e della parentela, ai diritti del sentimento. I rusteghi no. Si sentono minacciati dai grandi rivolgimenti che stanno per toccare Venezia e riescono a esistere soltanto nel chiuso delle loro mura domestiche, dove agiscono con prepotenza insopportabile vietando visite, divertimenti, sprechi e frivolezze e ogni minima forma di ozio, soprattutto il teatro.
Il teatro è aborrito e temuto dai rusteghi: lo considerano luogo di corruzione e di spreco, come il carnevale che c’è fuori e a cui è vietato partecipare. Il carnevale negato, tuttavia, alla fine irrompe lo stesso nelle stanze serrate e austere dei rusteghi, con tutta la sua carica di comicità trasgressiva.
Il conte Riccardo, un avventuriero onorato, accompagnerà nella casa-fortezza di Lunardo, il giovane promesso sposo Felippetto mascherato da donna, contento di verificare il gusto tutto veneziano di fondere gioco ed esistenza, felice di “godere della più bella commedia di questo mondo”.
I Rusteghi non sono soltanto uno spaccato di interno borghese, ma la messa in evidenza di un rapporto continuo tra questo interno e una città che penetra in esso nonostante l’ideale di claustrazione che domina i rusteghi.
Il teatro penetra nel chiuso mondo domestico, sommuovendolo dall’interno, smascherandone le contraddizioni: per affermare, insomma, il proprio potere demiurgico.
Goldoni riesce a costruire, nel modo insieme più naturale e raffinato, una struttura comica omogenea e pur fondata su sottili differenze (sociali, familiari, di sesso e di generazioni).
Lunardo si presenta con due donne giovani in casa (la figlia e la seconda moglie), fin troppo “desmesteghe” per lui.
Maurizio, vedovo, presenta, per opposizione, un mondo senza donne. È il rustego apparentemente più favorito, il più silenzioso, austero.
Simon costituisce con Marina una coppia solitaria, legata da una lunga consuetudine di reciproca aggressività.
Canciano, infine, costituisce con donna Felice la coppia più civile, proprio perché il rapporto tende a rovesciarsi, rendendo Canciano il rustego più velleitario e represso.
Il gioco mutevole dei personaggi e tra i personaggi è affidato soprattutto al linguaggio, alla grande energia verbale. Non c’è nei Rusteghi una sola battuta sbagliata.
Famosa è “la renga” finale di siora Felice, quasi portavoce dell’autore: bella, elegante, più ricca delle altre donne per retaggio famigliare, sa parlare con proprietà ed è abile a dominare il marito e i suoi temibili compari. La sua forza sta nel possesso pieno dello strumento della retorica.
È lei il personaggio che più strettamente si lega al grande motivo metaforico che percorre la commedia: quella del teatro.
È subito avvertibile, sin dalle prime battute, che alla base della commedia ci sia una sorta di allegra e sicura provocazione del Teatro per usare i termini notissimi dell’autore  rispetto al Mondo che tende a esorcizzarlo come un rito pericoloso e inutile.
Il pubblico, sin dall’inizio, viene coinvolto in questa provocazione: «Debotto xe fenio el carneval – osserva Lucietta – gnanca una strazza de comedia no avemo visto […]».
La commedia si avvia quindi come discorso sul teatro.
Tra le improvvisazioni di siora Felice, simbolo esplicito dell’autore in quanto regista della “commedia”, e lo spasso di Riccardo, rappresentante pure esplicito del pubblico sulla scena, si muove l’invenzione sicura di Goldoni.
Nei Rusteghi traspare la sua maggiore fiducia nelle capacità del teatro di affermare la propria funzione sociale e civile.
Un teatro moderno. Perché in questo universo domestico di rancori e ossessioni, non ci sono alla fine né cordialità né riscatti: solo l’effimera tenerezza della scena nuziale conclusiva, che non reca un vero sollievo.
La commozione finale dei quattro rusteghi, occasionalmente sconfitti, non prelude a significativi cambiamenti. Ed è questa la sottile crudeltà sottesa alla commedia. E la sua straordinaria modernità.

Giorgio Sangati Per il momento siamo alla primissima lettura: si è formata la compagnia, il testo è stato adattato e abbiamo i bozzetti dello spazio in cui ci muoveremo: una specie di soffitta senza tempo e zeppa di bauli. Dentro questi bauli ci sono vestiti impolverati, attrezzeria ammaccata, vecchi strumenti musicali, quanto basta per far vivere il testo: è sufficiente aprirli e “dare un poco d’aria agli abiti” per dirla con le parole di Goldoni. Siamo a caccia di quest’aria, di questo respiro che da secoli permette il ripetersi del miracolo di Arlecchino.

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Una “cartolina” dal processo creativo della nuova produzione: un’immagine e una frase al momento rappresentative del lavoro in via di creazione.

Babilonia Teatri
Farò un solo intervento in città. Uno solo. Unico, ma necessario.
Costruirò un teatro.
Un teatro enorme.
In grado di contenere tutto il paese sul palco. E tutte le migliaia di quotidiani visitatori in platea.
Il teatro tornerà ad essere agorà.
Tutte le sere di tutti i giorni di tutti gli anni a venire andrà in scena lo stesso spettacolo.
David è morto: il musical.

David è morto - Foto di Eleonora Cavallo

David è morto – Foto di Eleonora Cavallo

Natalino Balasso Il lavoro vero e proprio comincia questa estate, quindi non abbiamo immagini. Dal testo della commedia, vi riportiamo una battuta di Toni Sartana:
«Lo sai Benetti cosa vuol dire vivere nel’Onbra? No, tu non lo puoi sapere. Sei sempre stato ala luce. Avevi i schei di tuo padre, giravi in BMW a diciott’ani, avevi le fighe. E poi ti sei laureato che eri già padrone di una fabrica e in questi ani hai colesionàto una schiera di lecaculi pronti a eseguire i tuoi ordini. La diferenza tra te e me è che tu non conosci la sconfita».

Giuseppe Emiliani Abbiamo da pochi giorni costituito il cast di grande qualità (è davvero una “bella cartolina”):
Stefania Felicioli (che torna a recitare I Rusteghi, nella parte di siora Felice, dopo essere stata una indimenticabile Lucietta nello storico allestimento di Massimo Castri)
Giancarlo Previati, nella parte di Lunardo
Piergiorgio Fasolo, nella parte di Simon
Alessandro Albertin, nella parte di Cancian
Alberto Fasoli, nella parte di Maurizio
Cecilia La Monaca, nella parte di Margherita
Maria Grazia Mandruzzato, nella parte di Marina
Margherita Mannino, nella parte di Lucietta
Francesco Wolf, nella parte di Filippetto
Michele Maccagno, nella parte del conte Riccardo
Scenografia di Federico Cutero
Costumi di Stefano Nicolao
Musiche di Massimiliano Forza

La famiglia di Saltimbanchi, Pablo Picasso 1905

La famiglia di Saltimbanchi, Pablo Picasso 1905

Giorgio Sangati L’Arlecchino che immagino non è né attualizzato, né filologico è perso in qualche punto della storia in compagnia di un gruppo di attori, della loro umanità, della loro malinconia ma anche della loro voglia inesauribile di divertirsi.

«Ah, pur troppo egli è vero: in questa vita per lo più o si pena, o si spera, e poche volte si gode». Clarice da Il servitore di due padroni di Carlo Goldoni.

a cura di Elena Conti e Roberta Ferraresi

IETM Meeting 2015: La parola agli operatori

Dal 23 al 26 aprile si è tenuto a Bergamo il Festival Luoghi Comuni nella speciale edizione dello Spring Plenary Meeting IETM 2015, una delle due riunioni annuali del network europeo dedicato alle performing arts. Abbiamo sfruttato la tre giorni bergamasca per incontrare numerosi operatori di danza e teatro sia italiani che stranieri a cui abbiamo potuto rivolgere una semplice domanda:

«Come questi giorni d’incontro possono essere utili al vostro lavoro?»

Ecco come ci hanno risposto!

IETM Spring Plenary Meeting, Bergamo

IETM Spring Plenary Meeting, Bergamo

Per incontrare nuove persone ma soprattutto per capire come possono funzionare progetti in rete al di là dei progetti europei.
Marina Petrillo
Teatro della Tosse
Segreteria Direzione Artistica
Italia

Sono utili per incontrare una comunità che si occupa di danza. Stiamo infatti condividendo un progetto con potenziali partner. Inoltre partecipiamo a discussioni che travalicano i confini nazionali e scopriamo la vera realtà dell’Europa.
Kamma Siegumfeldt
Dansehallerne
Project leader, info/communications officer
Danimarca

È la settima volta che partecipo ad un meeting IETM. Li trovo molto interessanti e utili perché ci si incontra con persone che operano in modo affine ma in contesti diversi. Ricevo molti input per trovare soluzioni diverse e prendere decisioni migliori che posso proporre nel mio paese d’origine.
Carlos Costa
Visoes Uteis
Co-direttore artistico
Portogallo

Sono interessanti le connessioni che si creano con altre compagnie per fare assieme progetti europei, anche se questo non è un processo rapido, ma richiede tempo e costanza.
Claudine Van Beneden
Nosferatu
Direttore artistico
Francia

Mi sta aiutando a sviluppare delle idee e degli scambi di residenza a livello internazionale. Ho infatti invitato nel mio spazio alcune compagnie che ho incontrato qui.
Fridolin Hinde
Ufafabrik
Vice direttore generale
Germania

È la prima volta che vengo e per ora mi limito a cercare di capire come poter sfruttare questo tipo di incontri e working group. Posso sottolineare che l’informalità del meeting è un grande facilitatore di incontri.
Martina Merico
Festival di Santarcangelo
Organizzazione e logistica
Italia

IETM Spring Plenary Meeting, Bergamo

IETM Spring Plenary Meeting, Bergamo

Incontrarsi di persona è molto più stimolante e proficuo che scriversi attraverso mail. Qui si incontrano punti di vista talmente differenti che si acquisisce una visione quasi globale. Inoltre mi aiuta perché incontro persone con problemi simili ai miei che hanno trovato soluzioni utili e che potrei traslare nel mio contesto.
Spyros Andreopoulos
Motus Terrae Theatre
Direttore artistico
Grecia

È un modo per incontrare nuovamente persone lontane ed è utile soprattutto umanamente. In più in questo preciso frangente si ha una buona panoramica della situazione italiana.
Silvia Gribaudi
Artista
Italia

Per me è interessante perché incontro altri programmatori europei e in questo caso specifico ho ottenuto dei nuovi contatti con l’Olanda, per me molto importanti. La parte informale dei meeting è fondamentale.
Isabella Lagattolla
Festival delle Colline Torinesi
Direzione organizzativa e comunicazione
Italia

La mia compagnia è membra di IETM dal 2009 e ormai conosciamo bene la realtà del network. Questo tipo di incontri ci ha aiutato nelle nostre tournée europee. Questa è anche una buona occasione per vedere le compagnie italiane.
Valeriya Kilibekova
Art&Shock Theatre
Development and Strategic Marketing Consultant
Kazakistan

Di questi incontri trovo poco utili le sessioni di lavoro e molto utili invece, sia umanamente che professionalmente, le situazioni informali che si creano spontaneamente.
Nicolas Rosette
Theatre Nouvelle Generation
Direzione sviluppo
Francia

I meeting IETM sono utili per vari aspetti: dal punto di vista personale per gli incontri informali che si creano, da un punto di vista riflessivo perché le working sessions stimolano la circolazione delle idee e favoriscono la partecipazione e infine per il rapporto con gli artisti che qui a Bergamo è duplice, ci sono infatti sia gli spettacoli che le serate di approfondimento delle residenze.
Fabrizio Grifasi
Romaeuropa
Direttore generale e artistico
Italia

Questo per me è il secondo meeting e partecipo per cercare di trovare partner europei e soprattutto per comparare la gestione di spazi indipendenti simili al mio. Abbiamo preso appuntamenti con buoni feedback. Questo meeting in particolare è stato fruttuoso perché ci ha permesso di incontrare molti teatri e organizzazioni nazionali in una volta sola con un grande risparmio di tempo e denaro.
Claudio Autelli
Lab 121
Direttore artistico
Italia

 Interviste a cura di Margherita Gallo

Casa dolce casa. O forse no. L’Europa di Davide Carnevali

Dopo lunga attesa è approdato sul palcoscenico del Teatro India di Roma Sweet Home Europa (8-26 aprile 2015), drammaturgia pluripremiata del milanese trapiantato in Catalogna Davide Carnevali. Dal 2011, anno della composizione, e dopo diverse versioni europee e sudamericane del lavoro, l’opera ha trovato in Fabrizio Arcuri l’artefice della messa in scena italiana, prodotta dal Teatro di Roma. Lo spettacolo, così come la drammaturgia su cui si fonda, si snoda in dodici quadri ed esplora, immergendo le situazioni e i personaggi in un’indeterminatezza inquietante e ambigua, la complessità e la criticità dell’edificazione di un’identità europea. La frammentazione del continente riflette le spaccature che lo sconvolgono: il problema dell’identità non si manifesta solo sul piano della sua definizione nazionale e continentale, ma su scala più universale – generazionale, sessuale, in relazione all’alterità – innescando meccanismi “esplosivi” che mettono alla berlina tutte le contraddizioni di un’Europa che vorrebbe essere “casa” ma che ancora fatica ad accogliere, integrare, porsi in rapporto con ciò che non conosce e non riesce ad assimilare.

Sweet Home Europa - foto di Valeria Tomasulo

Sweet Home Europa – foto di Valeria Tomasulo

Sweet Home Europa, prima parte di un dittico, debutta in Italia ad aprile 2015, ma ha alle spalle un ricco percorso scenico internazionale. Com’è nato il testo e qual è stato il suo itinerario fino a questo momento?
Davide Carnevali – L’idea di testo è nata 5-6 anni fa, nel 2009-‘10. All’epoca vivevo a Berlino e mi interessava molto il problema dell’Europa dal punto di vista della costruzione di un’identità europea al di là di quelle nazionali, lo scontro di culture e quello linguistico: erano questi i temi che volevo affrontare. Contemporaneamente stavo iniziando un percorso creativo con il sistema teatrale tedesco: avevo vinto nel 2009 un premio al festival Theatertreffen, che, come struttura, mi ha seguito, interessandosi a ciò che stavo scrivendo. Così, abbiamo intrapreso un itinerario comune, assieme al mio editore tedesco, Rohwohlt, e alla mia traduttrice. Nel 2011 – anno in cui il testo è arrivato finalista al Premio Riccione Teatro – il Theatertreffen mi ha proposto di presentare il lavoro come mise en éspace al Festival Internazionale di Letteratura di Berlino. Nel 2012 la Schauspielhaus di Bochum, che stava programmando un progetto sull’Europa, ha scelto di produrre il mio testo. Nello stesso anno la Deutschlandradio Kultur, la radio nazionale tedesca, che aveva già fatto un adattamento della mia opera precedente, Variazioni sul modello di Kraepelin, ha adattato anche Sweet Home Europa in forma di radiodramma, diretto da Giuseppe di Maio. Nel 2013 ha avuto luogo la lettura scenica dell’opera al Théâtre du Vieux-Colombier di Parigi da parte della Comédie Française e in Argentina, al ELKAFKA espacio teatral di Buenos Aires, abbiamo portato in scena lo spettacolo.

Dunque, pare che, per un autore italiano, sia più lineare scrivere, produrre e far circolare i propri lavori all’estero, rispetto a quanto accade in Italia.
D. C. – Il sistema tedesco funziona bene per gli autori perché non si vince un premio e si viene “abbandonati”, ma si viene seguiti nel percorso; è un pò quello che adesso stiamo tentando di fare con il Premio Riccione qui in Italia. Quando ho scritto questo testo, inoltre, sapevo che sarebbe stato rappresentato prima in Germania, che avrebbe quindi dovuto avere un respiro internazionale; ero consapevole che per me l’Italia non era più il principale mercato su cui puntare, per cui ho cercato di scrivere un’opera che potesse essere universalmente accettata, che potesse essere interessante anche in contesti culturali molto diversi da quello che ho io come riferimento.

E l’arrivo in Italia come è avvenuto?
Fabrizio Arcuri – L’approdo al palcoscenico romano ha avuto origine, guarda caso, in Francia. Con Davide ci siamo conosciuti nel 2011; ci trovavamo a lavorare per motivi diversi al festival Écrire et mettre en scène aujourd’hui a Caen, in Normandia. Ci frequentavamo: ho letto i suoi testi e Sweet Home Europa mi aveva particolarmente incuriosito per le sue potenzialità sceniche, così, nel 2013, in occasione del festival dedicato alle nuove drammaturgie Tramedautore, al Piccolo Teatro di Milano, ho curato una mise en éspace che a Davide è parsa interessante. Da quel momento ho cercato fortemente una produzione, che il Teatro di Roma ha sostenuto, per realizzare l’intero lavoro che abbiamo presentato in prima nazionale al Teatro India lo scorso 8 aprile.

foto di Valeria Tomasulo

foto di Valeria Tomasulo

Quindi Sweet Home Europa, per lo meno nella sua versione italiana, è un lavoro condiviso, in cui drammaturgo e regista hanno incrociato costantemente i propri percorsi durante il processo creativo che ha portato alla messa in scena?
F. A. – Non direi, abbiamo condiviso alcune fasi, ma lo spettacolo si è generato autonomamente rispetto al suo autore. Davide si pone nei confronti delle sue opere in maniera autorale: consegna il testo a chi dovrà tradurlo in scena, lo affida e questo lo si intuisce dalla natura stessa della sua scrittura. Ci sono stati momenti di confronto e poi Davide aveva già visto la mise en éspace milanese e in quell’occasione ne avevamo parlato, avevamo individuato una direzione comune. La cosa bella è che Sweet Home Europa di Davide può essere trattato come un classico: è molto strutturato e la relazione tra tutti gli elementi della struttura è chiara, non c’è nessuna falla, il testo non ha bisogno di integrazioni: letterariamente è in perfetto equilibrio, le ambiguità, le iterazioni e le variazioni, le aperture sono sempre pertinenti, non necessitano di nessun intervento ulteriore per essere rese intelligibili.

Sweet Home Europa affonda il suo nucleo fondamentale nel tema dell’integrazione (im)possibile, in prima battuta nell’Unione Europea e, nella voluta ambiguità del contesto, anche su scala più ampia. Visti gli accadimenti tragici di questi giorni legati alle migrazioni e al dibattito sull’accoglienza, il testo pare di cogente attualità ed urgenza.
D. C. – Credo che questo testo sia sempre stato urgente; nel momento in cui lo scrivevo era prioritaria la questione della ratificazione della Costituzione Europea da parte dei Paesi membri. Il tema, da migrante intereuropeo, mi stava molto a cuore. Questi argomenti – le migrazioni, l’accoglienza, l’integrazione – trascendono la contingenza storica e sul lungo periodo si rivelano sempre attuali. Indubbiamente, sembra che il testo sia stato scritto in un dato momento, per una data situazione, ma non è così. Due anni fa, come dicevo, è stato fatto un allestimento del lavoro in Argentina e anche là è risultato attuale, per ragioni però diverse da quelle per cui risulta attuale oggi, qui a Roma.

Il testo si articola in una struttura complessa, scandita in dodici quadri, attraverso i quali i personaggi, in perenne transizione da un ruolo a un altro, spesso antitetico, attraverso un uso della lingua calibrato, che spesso riprende immagini scritturali, genera un’ambiguità profonda, crea spaesamento e pare opporre due diversi sistemi di pensiero – quello occidentale, spiralizzato in astrazioni e concettualizzazioni, e per opposizione quello di matrice non razionalista, concreto, aderente alla realtà delle cose, che trova il suo emblema nella “parabola” del branzino, che del resto, mette in circolo un simbolo cristologico.

foto di Valeria Tomasulo

foto di Valeria Tomasulo

D. C. – Il problema di fondo è quello dello scontro di culture, fra quella europea in opposizione a quella extraeuropea, ma proprio a partire dal conflitto identitario all’interno dell’Europa stessa. Preferisco che i personaggi vengano individuati sulla base del potere che detengono (quindi, nel caso dei personaggi maschili della pièce, uno lo ha, l’altro no – il personaggio femminile non ha mai potere), che non su quella della provenienza (europeo vs. non europeo); il loro rapporto è mantenuto ambiguo proprio per questo. L’ambiguità identitaria è quello che cercavo nel momento in cui vincolavo questi contenuti alla loro forma testuale, nella determinazione di chi è il personaggio e di quanti sono i personaggi. Essa è necessaria per mostrare a livello formale l’ambiguità delle identità, della loro costruzione. Il potere di cui parlo è un potere in primo luogo linguistico: noi vediamo il mondo come lo esprimiamo nel linguaggio. O meglio: esiste un’omologia strutturale tra come esprimiamo il mondo nel linguaggio e come lo interpretiamo. Il potere che ha in mano l’uomo è primariamente un potere linguistico, prima ancora che economico, di prestigio sociale o politico. Chi ha più potere linguistico ha in mano la “chiave” per imporre la propria visione del mondo, che diviene così egemonica. Il linguaggio è il discrimine che differenzia una cultura dominante da una minoritaria. Ciò che desideravo – desideravamo – era recuperare la minoritarietà, parificarla con la cultura dominante, mostrare come il rapporto tra minorità e maggiorità è solo una costruzione artificiale, un’immagine che si impone come imperante rispetto a un’altra. Ovviamente entrambe sono valide: volevamo recuperare la validità e le contraddizioni di entrambe. L’ironia è poi sempre presente a controbilanciare la tensione e la gravità tematica di molti passaggi: il testo è complesso ma desideravo che arrivasse al pubblico in modo leggero.

Però la regia, pur mantenendo l’ambiguità, ha fatto delle scelte precise. In uno dei quadri appare una donna velata, che dialoga con il figlio emigrato e la rottura tra i due pare ormai radicale e insanabile. Mi è parso che il riferimento all’Islam fosse palpabile.
F. A. – Non potrebbe essere sarda, la donna?
D. C. – Credo che quel velo sia molto ambiguo, in realtà. Mi è parsa una buona scelta registica: ricorda l’Islam, certo, ma anche il Sud, o l’Ucraina e la Lituania, che sono stati tra i primi Paesi ad essere cristianizzati.

Scrivi nell’introduzione al lavoro che gli spunti alla base del testo sono due discorsi pubblici, per molti versi ideologicamente agli antipodi, in cui l’Europa viene definita “casa”. Il primo è quello tenuto da Michail Gorbaciov davanti al Consiglio d’Europa nel 1998, il secondo è quello tenuto nel 2009 da papa Benedetto XVI davanti al rappresentante della Commissione delle Comunità Europee, presso la Santa Sede. Nell’opera, così come nella sua regia, pare però che questa “casa” europea non regga l’impatto della differenza, che imploda su se stessa e si riduca a un cumulo di macerie.
D. C. – Riguardo al concetto di Europa come “casa” mi sono riferito sia a questa definizione del continente data da Gorbaciov nel ’98, sia all’accezione impiegata anni dopo da Ratzinger, quindi dell’idea di un continente che possa offrire protezione. La casa ha porte che possono aprirsi o chiudersi, a seconda di quali siano le nostre intenzioni rispetto a ciò che c’è al di fuori. Come vogliamo che stiano le porte del nostro continente? Questa è la grande domanda. Ovviamente le connotazioni della metafora, in Gorbaciov e Benedetto XVI, erano diverse, antitetiche: per la situazione politica e la storia personale di Gorbaciov, egli si riferiva ad apertura positiva, mentre Ratzinger era interessato alla difesa delle radici cristiane dell’Europa, a una casa votata alla conservazione di una tradizione precisa. Un’immagine egemonica, quella dell’Europa cristiana: è innegabile che il cristianesimo abbia influenzato la cultura occidentale ed europea, ma il pensiero cristiano si basa in larga parte sulla filosofia platonica, neoplatonica ed aristotelica ed è quindi a sua volta la rielaborazione di una stratificazione precedente. Siamo a Roma, città costruita su macerie e stratificazioni di pensiero e civiltà differenti: è interessante proporre qui la questione.

foto di Valeria Tomasulo

foto di Valeria Tomasulo

F. A. – Con la mia regia, ho cercato di dare corpo ai diversi livelli messi in atto dal testo. Il nostro compito non è quello di avere una comprensione globale esterna: questo nel lavoro pratico quasi non serve. Abbiamo cercato, dal di dentro, a partire dalla parola, di fare il percorso inverso, per restituire quello che è un umore, un’atmosfera testuale, che si comprende nella lettura complessiva. Entrando nel testo ci siamo resi conto che esso procedeva su tre livelli: la narrazione circolare, che mette in gioco parole e concetti che rielabora costantemente da punti di vista diversi, sviluppando quindi processi diversi nelle relazioni tra i gli attori. Le parole sono più o meno le stesse ma attualizzano possibilità sempre differenti per i personaggi, che reagiscono nella relazione in maniera diversa rispetto a quando le stesse parole erano proferite da altri, in altre situazioni. Il secondo livello è meta-teatrale: Davide parla direttamente allo spettatore consegnandogli delle chiavi di lettura; con un artificio drammaturgico presenta, per esempio nella scena 3 e 4 (in cui due personaggi più maturi, che incarnano la coscienza collettiva, si rivolgono al più giovane, ndr), mette in atto gli aspetti secondo i quali ha deciso di affrontare il testo: quello letterale, quello allegorico, quello simbolico, fornendo le chiavi con cui stare dentro al testo, che passa di continuo da una macro-storia a una micro-storia, individuando il precipitato della macro nella micro. Il terzo livello è quello delle didascalie, in cui la relazione con lo spettatore è diretta, narrativa: Davide racconta il paesaggio che si trasforma di continuo, nello sviluppo delle varie vicende, disgregandosi lentamente, sbriciolandosi in macerie, inaridendosi in una progressiva desertificazione. Registicamente, ho tenuto ben presenti questi livelli, attribuendo a ciascuno di essi la responsabilità di ciò che dovevano raccontare. Alla scenografia, realizzata da Enrico Gaudi e Riccardo Dondana (3tolo), ho deciso di attribuire il compito di raccontare il livello didascalico.

La musica dal vivo, eseguita da Davide Arneodo e Luca Bergia (Marlene Kuntz) con NicoNote alla voce, è un altro elemento di novità. Come avete costruito il dialogo con la musica e la drammaturgia musicale?
F. A. – L’idea di utilizzare la musica è suggerita dal testo, nel quale sono presenti didascalie in cui Davide asserisce “in questo momento sarebbe opportuna una musica cataclismatica” o “niente sarebbe meglio di una musica celestiale”, quindi indirizza verso uno specifico “ascolto” musicale. In questo spettacolo era possibile lavorare sull’aspetto sonoro perché l’autore stesso gli attribuiva una posizione specifica nello spettacolo, una potenzialità scenica, per permettere un passaggio nell’umore dello spettatore. Lo spettacolo è fatto di 12 quadri: volevo evitare però che la performance dal vivo dei musicisti si riducesse a un siparietto, a un automatismo di transizione, per cui ho lasciato alcune didascalie testuali, proiettate sulla scenografia, affinché rivelassero l’intenzione dell’autore, alternandole con la produzione dei musicisti. Arneodo, Bergia e NicoNote hanno fatto un pò di prove con noi, poi hanno lavorato e composto in autonomia. In seconda battuta, ho sentito la necessità che i pezzi fossero cantati, perché essendo canzoni a sé stanti non fungevano da colonna sonora ma da brani indipendenti. Le parole delle canzoni parlano del testo stesso e in alcune occasioni sono mutuate direttamente da esso. Diciamo che le canzoni, le loro parole, sono trascurabili ma allo stesso tempo, se il loro senso viene afferrato perché si conosce la lingua o si percepisce il significato (sono in inglese, ndr), riportano alla drammaturgia, ai suoi significati.

Come abbiamo visto, Sweet Home Europa è la prima parte di un dittico. Possiamo avere qualche anticipazione sul testo che seguirà?
F. A. – Davide ha appena finito di scrivere la seconda parte del dittico che avremmo voluto portare in scena con Sweet Home Europa ma non è stato possibile. La rimanderemo a più avanti, qui in Italia, per lo meno, intorno al 2017, speriamo!
D. C. – I due testi – Sweet Home Europa e la nuova opera – sono indipendenti, ma avevo concepito i lavori come in sequenza: il primo, questo, è sulla genesi dell’Europa, partendo da una rielaborazione di materiale testuale biblico relativo ai primi libri del Testo Sacro (Genesi, Esodo), mentre la seconda parte sarà incentrata sulla fine dell’Europa e sarà un rimaneggiamento dell’ultima parte della Bibbia, il Nuovo Testamento, i Vangeli e l’Apocalisse. Tratterà quindi della crisi dell’Europa, economica, d’identità nazionali e transnazionali; ci saranno animali, personaggi ambigui, ma sarà piuttosto diverso da Sweet Home Europa. Si intitola Lost Words.

Intervista a cura di Giulia Morelli

Regeneration / IETM secondo Nan Van Houte

In occasione di Luoghi Comuni Festival/Spring Plenary Meeting IETM 2015 abbiamo intervistato Nan Van Houte, direttrice del network IETM che si riunisce a Bergamo dal 23 al 26 aprile. IETM è una rete internazionale di circa 500 organizzazioni che si occupano a vario titolo di arti performative contemporanee ed ha come scopo principale quello di facilitare lo scambio e l’interazione tra le varie realtà che la compongono.

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Nan Van Houte

Nan Van Houte

Cosa si aspetta dal meeting IETM di Bergamo?
È sempre difficile dire cosa aspettarsi da un Plenary Meeting IETM. L’incontro di Bergamo presenta una gran varietà di working sessions su temi interessanti e cruciali, diversi format allettanti per incontrare colleghi internazionali e una grande offerta di spettacoli e itinerari artistici. Il programma è concepito in stretta collaborazione tra l’ufficio di Bruxelles e gli organizzatori locali di Être, che conoscono il contesto italiano molto bene.
Al tempo stesso, dipendiamo totalmente dai nostri membri, dai partecipanti: sta a loro il 50% del successo. Se avranno un buon atteggiamento, se contribuiranno alle discussioni (e perché non dovrebbero?), siamo sicuri che sarà un grande meeting, con molti partecipanti soddisfatti che andranno a spasso per la meravigliosa Bergamo Alta.

Quante organizzazioni del Sud Europa partecipano a IETM? Rispetto alle organizzazioni del Nord Europa, è più difficile per loro prendere parte al network?
È decisamente più difficile partecipare a un meeting IETM se si ha a disposizione un piccolo budget. Questa difficoltà non è necessariamente connessa a una regione, ma ovviamente abbiamo constatato che la crisi ha colpito maggiormente l’area del Mediterraneo rispetto al Nord-Ovest d’Europa.
Per compensare i tagli di budget, IETM sta cercando di organizzare uno dei suoi due meeting annuali in uno di questi Paesi.
Inoltre, abbiamo una strategia di borse di viaggio, sostenuta dalle nostre quote associative annuali e dal contributo di Creative Europe, che ci permette di aiutare quei membri che non possono permettersi i costi di viaggio e alloggio per partecipare alle nostre attività. E da diversi anni ormai abbiamo il sostegno dell’Istituto Francese di Belgrado che supporta le persone provenienti dall’area balcanica.
Al momento ci sono 85 organizzazioni dall’area del Mediterraneo e del Mar Nero (su 500 in totale). Negli ultimi anni abbiamo organizzato i meeting in Grecia e Bulgaria dove abbiamo potuto raggiungere molte organizzazioni oltre ai nostri membri. Lo stesso varrà per il meeting italiano.

Quali sono gli scopi di IETM per il futuro? Cosa volete realizzare nei prossimi anni?
IETM mira a rafforzare le arti performative contemporanee nella loro pratica quotidiana, fornisce opportunità per collaborazioni internazionali e la mobilità degli artisti, ed è un ambasciatore delle suddette arti in diverse piattaforme.
I nostri membri stanno facendo fronte a molte sfide in questo momento, quindi rafforzarle ora è molto più complesso rispetto a dieci anni fa. Cerchiamo di aiutare le organizzazioni ad adattarsi alle misure dell’austerità e ai tagli di budget, fornendo loro informazioni e occasioni di workshop su come creare nuove strutture manageriali, modelli di business e su come trovare risorse alternative. Facciamo emergere buone pratiche nel campo delle digital arts intese come compagne delle performing arts, allo stesso modo facciamo ricerca sull’impatto della digitalizzazione sul comportamento dei nostri pubblici, ecc… Discutiamo e informiamo sulle minacce alla democrazia e alla libertà di espressione, attiriamo l’attenzione sugli impatti positivi delle pratiche artistiche che coinvolgono gruppi o comunità minacciate da tendenze nazionaliste, politiche protezioniste o fanatismo religioso.
E, nel frattempo, tentiamo di influenzare i decisori perché si rendano conto del valore dell’arte in un’era che vede l’economia come il maggior motore e la via di salvezza del genere umano.
Commissioniamo ricerche e pubblicazioni, offriamo programmi formativi e, prima di tutto, costruiamo ponti, facciamo incontrare e uniamo le persone, perché siamo convinti che un meeting internazionale sia il modo migliore per far muovere la gente, sia fisicamente che mentalmente e nelle sue attività.
Infine, ovviamente, vorremmo vedere le arti performative contemporanee riconosciute in ogni parte d’Europa come una forma d’arte estremamente umana, che aiuta la società ad imparare, a dare valore all’imprevisto e ad affrontarlo meglio.

Dal suo particolare osservatorio, che impatto ha avuto la crisi finanziaria sulle organizzazioni culturali?
La crisi ha colpito il settore artistico in modo non uniforme e credo che tra i vari settori quello che ha ricevuto il colpo più duro sia proprio il settore delle arti performative contemporanee.
In alcuni Paesi, dove le arti contemporanee sono rappresentate solo dal cosiddetto settore “indipendente”, le compagnie hanno perso tutto il loro supporto pubblico.
È fantastico vedere come, stando ai nostri dati, i numeri di pubblico non siano crollati. Ma questo non compensa i sussidi persi e i budget ridotti che hanno ovviamente un impatto, sia artisticamente che dal punto di vista gestionale e organizzativo: assistiamo a una riduzione dei costi che si concretizza in più assoli, più collaborazioni con non professionisti, più performance in spazi pubblici (che hanno il merito di raggiungere nuovi spettatori, non solo di ridurre i costi). Inoltre, per quanto riguarda le risorse umane… molti si stanno esaurendo.

Cosa si aspetta dal teatro italiano che vedrà a Bergamo?
Sono emozionata di avere l’opportunità di conoscere questo campo un po’ meglio. Devo ammettere che ho perso la cognizione di molte compagnie negli anni ’90, ad eccezione di pochi artisti molto conosciuti.

 Intervista a cura di Margherita Gallo

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Intervista a Peter Stein

Il ritorno a casa di Harold Pinter con la regia di Peter Stein è stato prodotto dal Teatro Metastasio di Prato e da Spoleto56 Festival dei 2mondi, in occasione del quale ha debuttato nel luglio del 2013, prima di andare in tournée per i successivi due anni.
Abbiamo chiesto al regista di rispondere ad alcune domande, sullo spettacolo e non solo, per iscritto. Lui l’ha fatto aprendo finestre sulla drammaturgia di Pinter, sul processo creativo, sul ruolo dell’attore, sulla situazione del teatro europeo ed italiano contemporanei, sul pubblico.

Per fornire un quadro più completo dello spettacolo e del personaggio, abbiamo integrato l’intervista con alcuni brevi approfondimenti: si tratta di rimandi a video e a contributi d’archivio che, muovendo dalle parole del regista, hanno l’obiettivo di rilanciarle, allargando prospettive di comprensione e confronto.

L’INTERVISTA
ESTRATTI DALLA RASSEGNA STAMPA
UNA BREVE BIO- E TEATROGRAFIA DEL REGISTA


L’INTERVISTA

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Foto di Pino Le Pera

Nelle note di regia racconta il suo rapporto con Il ritorno a casa di Pinter: la prima visione, cinquant’anni fa, a Londra, per la regia di Peter Hall; l’esperienza che l’ha profondamente segnata come aiuto-regista di Giesing. Come si è sviluppato, nel corso della sua carriera, il rapporto con questo drammaturgo?
Non ho mai fatto prima un testo di Pinter, anche se, nel mio teatro, mi è capitato spesso di produrre e ospitare i suoi testi. L’ho incontrato due volte e lui si è sempre dimostrato come uno a cui il mio lavoro piaceva.

Il mio punto di partenza era un altro autore inglese: Edward Bond, di cui ho messo in scena Saved nel 1967.

Quali caratteristiche deve possedere un testo perché lei lo metta in scena?
Il testo deve avere una drammaturgia riconoscibile e forte. E la lingua del testo deve suonare e dare all’attore la possibilità di costruire un personaggio umano sul palcoscenico.

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Foto di Pino Le Pera

Come vive il rapporto con gli attori durante il processo di creazione?
L’attore riceve da me le informazioni necessarie sul carattere, la storia, il significato e la teatralità del testo. Dopodiché, comincia a lavorare. Io sono il suo primo spettatore e gli racconto ciò che ho visto. Tento di aiutarlo se ha dei problemi, gli dico che non ho capito e qualche volta faccio delle proposte di cambiamento per provare diverse possibilità. Alla fine, è lui che deve difendere il nostro lavoro, non io.

Passando a questioni di ordine più generale, come pensa sia cambiata oggi la funzione del teatro da quando, negli anni Settanta, ha fondato la Schaubühne am Halleschen di Berlino?
Il teatro tedesco è cambiato molto. L’arte dell’interpretazione delle intenzioni dell’autore è quasi sparita e ha dato spazio a un utilizzo arbitrario dei testi teatrali. In più, l’interesse della società al teatro si è molto ridotto, anche i fondi diminuiscono… è uno sviluppo che si osserva dappertutto in Europa.

[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=sOPoKSAyLS8[/youtube]

Oggi si riscontra spesso una grande attenzione per lo spettatore. Come è cambiato il pubblico e come, secondo lei, si possono creare dei percorsi di formazione su questo livello?
Il pubblico del teatro è stato sempre incline, in primo luogo, al basso intrattenimento e al cattivo gusto. Leggete quello che Amleto dice agli attori. Tutte le forze del teatro come Arte avevano quasi il compito di educare il pubblico. Ma se nelle scuole l’educazione non va verso l’arte e verso una certa spiritualità del pensiero e dei sentimenti quel compito è quasi impossibile da portare a termine.

Però non esser troppo in sottotono, / ma làsciati guidare dal mestiere / e dalla personale discrezione. / Il gesto sia accordato alla parola / e la parola al gesto, avendo cura / soprattutto di mai travalicare / i limiti della naturalezza; / ché l’esagerazione, in queste cose, / è contraria allo scopo del teatro; / il cui fine, da quando è nato ad oggi, / è di regger lo specchio alla natura, / di palesare alla virtù il suo volto, / al vizio la sua immagine, / ed al tempo e all’età la loro impronta. / Se tutto questo dall’azione scenica / riesce esagerato o rimpicciolito, / potrà far ridere l’incompetente, / ma non potrà che urtare il competente / il cui giudizio deve aver per voi, / che siete del mestiere, più importanza / di un’intera platea di tutti gli altri.
(Amleto, scena II, atto III)
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Foto di Pino Le Pera

Infine, una domanda sulla situazione del teatro italiano. Cosa pensa della riforma del mondo dello spettacolo in atto e come crede si modificheranno gli equilibri nazionali?
Vengo da una tradizione in cui le leggi del lavoro vengono fatte dai teatranti, non dai politici. Per questo, non capisco molto questa legge: non mi interessa che persone che non praticano il teatro e lo conoscono soltanto da fuori, si esprimano a riguardo, tentino di riordinarlo e normarlo.


ESTRATTI DALLA RASSEGNA STAMPA

Stein ha lavorato di cesello. Sul linguaggio sferzante, sulla drammatizzazione dei silenzi, sul pieno delle pause, sulle battute di prorompente e allarmante humour per le strambe uscite dei personaggi, sulla fisicità e il realismo degli ottimi attori tutti all’altezza dei loro ruoli.  (Giuseppe Distefano, Il Sole24ore.com, 9 luglio 2013)

Peter Stein a Spoleto “È il mio Ritorno a casa” di Anna Bandettini (Repubblica.it, 8 maggio 2013)
Peter Stein nel Ritorno a casa di Pinter
di Michele Ortore (Krapp’s Last Post, 11 luglio 2013)
Il ritorno a casa – regia Peter Stein
di Sara Bonci (Sipario, 9 novembre 2013)
Un ritorno a casa più pinteriano che mai
di Maria Grazia Gregori (Delteatro.it, 25 novembre 2013)

(…) lenta, naturale e minuziosa analisi delle brutalità domestiche. (…)
Questa messinscena mette allo scoperto una ricerca della verità dell’identità. (Rodolfo Di Giammarco, LA REPUBBLICA, 7 luglio 2013)

Il ritorno a casa di Serena Lietti (SaltinAria, 25 novembre 2013)
Il ritorno del ritorno. Pinter secondo Stein
di Renzo Francabandera (PAC – Paneacquaculture.net, 29 novembre 2013)
Il ritorno a casa
di Corrado Rovida (Stratagemmi, 5 dicembre 2013)
La scelta di Ruth (e di Stein) nel Ritorno a casa
di Maddalena Peluso (Il tamburo di Kattrin, 7 gennaio 2014)

Lucidissima la regia di Stein, senza sconti come il testo di Pinter richiede.
Tutto è sospeso, rarefatto e insano, disumano e crudo. La risata è un ghigno,
il dramma un pugno allo stomaco.  (Alessandra Agosti, IL GIORNALE DI VICENZA, 12 gennaio 2014)

Il ritorno a casa: la declinazione di Pinter secondo Peter Stein di Marianna Masselli (Teatro e Critica, 18 gennaio 2014)
Stein, Pinter e il culto del Padre
di Andrea Porcheddu (L’onesto Jago – Linkiesta.it, 22 gennaio 2014)
“Il ritorno a casa” messo in scena magistralmente da Peter Stein di Diletta Capissi (Corrierespettacolo.it, 31 marzo 2015)
Il Pinter di Peter Stein di Alessandro Troppi (IlPickwick.it, 17 marzo 2015)


Ambiguità dei ruoli, sesso come ossessione, intreccio di sorprese, cupezza e lampi di umorismo:

è complessa la stratificazione del Ritorno a casa. Stein la tratta come fosse una partitura musicale (…) (Osvaldo Guerrieri, LA STAMPA, 17 novembre 2013)


UNA BREVE BIOGRAFIA DI PETER STEIN

Peter Stein, classe 1937, è uno dei registi più influenti del secondo Novecento. Nel 1964 è al Münchner Kammerspiele ed esordisce con sue regie a Brema e a Zurigo. Nel 1967, debutta al Werkraumtheater, ottenendo un grande consenso da parte della critica. Assistente alla regia del Kammerspiele di Monaco – città dove aveva studiato letteratura tedesca e storia dell’arte –, dal 1964 a 1967, nel 1970 fonda l’Ensemble della Schaubühne am Halleschen Ufer a Berlino della quale è direttore artistico fino al 1985. Dal 1992 al 1997 è direttore del settore teatrale di Salzburger Festspiele. Nel 1998 riceve il premio Goethe della città di Francoforte. Nel 2000 realizza una messinscena integrale delle due versioni del Faust di Goethe (guarda il trailer) e, nel 2008, mette in scena in Italia I Demoni da Dostoevskij (guarda il video del backstage), un kolossal di 12 ore che  gli fa vincere il premio Ubu nel 2009.

TEATROGRAFIA
 
1967 – Saved di Edward Bond; Intrigo e amore. Una tragedia borghese di Friederich Schiller
1968 – Nella giungla della città di Bertolt Brecht
1969 – Discorso sul Vietnam di Peter Weiss; Torquato Tasso di Goethe; Early Morning di Edward Bond; The Changeling di Middleton/Rowley
1970 – La Madre di Bertolt Brecht
1972 – Peer Gynt di Ibsen
1973 – Tragedia ottimista di Vishnevski; Il Principe von Homburg di Kleist; Purgatorio a Ingolstadt di Marie-Luise Fleisser
1974 – I Villegggianti di Gorki
1975 – La Cagnotte di Labiche; Esercizi per attori (sulla tragedia greca)
1976 – Esseri irragionevoli in via di estinzione di Peter Handke; L’oro del Reno di Richard Wagner; Shakespaeres Memory
1977 – Come vi piace di Shakespeare
1978 – Trilogia del rivedersi di Botho Strauss
1979 – Grande e Piccolo di Botho Strauss
1980 – Orestea di Eschilo (ripresa a Mosca nel 1993)
1981 – Nemico di classe di Nigel Williams
1982 – La disputa di Marivaux
1983 – Le tre sorelle di Cechov,
1984 – I Negri di Jean Genet; Il Parco di Botho Strauss
1986 – Lo Scimmione di Eugene O’Neill; Otello di Verdi
1987 – Falstaff di Verdi (ripresa a Lione nel 2004)
1987 – Fedra di Racine
1989 – Il giardino dei ciliegi di Cechov (ripresa a Salisburgo nel 1996); Titus Andronicus di Shakespeare
1990 – Roberto Zucco di Bernard-Marie Koltès
1991 – Pelléas e Melisande di Debussy (ripresa a Lione nel 2004)
1992 – Giulio Cesare di Shakespeare; Mosè e Aronne di Arnold Schöneberg (ripresa ad Amsterdam e Salisburgo nel 1996)
1994 – Antonio e Cleopatra di Shakespeare; Woyzeck di Alban Berg
1995 – Der Alpenkönig und Menschenfeind di Ferdinand Raimund; Peter Grimes di Benjamin Britten
1997 – Libussa di Franz Grillparzer
1998 – Zio Vania di Cechov; Amleto di Shakespeare
1999 – Schönberg-Kabarett da Arnold Schönberg; Die Aehnlichen di Botho Strauss
2000 – Simone Boccanegra di Verdi; Faust I e II di Goethe; Tatiana di Azio Corghi
2001 – Pancomedia di Botho Strauss
2002 – Parsifal di Wagner; Pentesilea di Kleist
2003 – Il gabbiano di Cechov
2004 – Medea di Euripide; Don Giovanni di Mozart
2005 – Blackbird di David Harrower; Mazeppa di Tchaikovsky
2006 – Troilo e Cressida di Shakespeare; Evgenij Onegin di Tchaikovsky
2007 – La dama di picche di Tchaikovsky; Wallenstein di Friederich Schiller; Elettra di Sofocle
2008 – La brocca rotta di Kleist; Il prigioniero di Dallapiccola; Barba Blu di Bartok
2009 – I Demoni di Fedor Dostojevski; Lulu di Alban Berg
2010 – Edipo a Colono di Sofocle
2011 – Macbeth di Verdi; Nos di Shostakovic
2013 – L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett; Il premio Martin di Labiche; Il ritorno a casa di Harold Pinter; Don Carlo di Verdi; Re Lear di Shakespeare
2014 – Aida di Verdi; Fierrabras di Schubert
2015 – Boris Godunov di Pushkin
A cura della redazione