festival due mondi 2013

Chi ha paura del minimalismo?

Bob Wilson "The Old Woman" (foto di Luigi Narici)

Bob Wilson “The Old Woman” (foto di Luigi Narici)

L’hanno chiamato, per decenni, teatro immagine, visivo e visionario. Il punto è stato, da sempre, quello del disegno scenico, dell’ambiente scenografico, della cura delle luci, delle atmosfere, delle proporzioni. Della concretizzazione, in scena, di un universo iconografico inafferrabile. Più istallazione che spettacolo dal vivo? Forse. Piuttosto, i modi in cui la presenza (la realtà) può affiorare alla percezione – emblematica è la progressiva apparizione di A e B (Mikhail Baryshnikov e Willem Dafoe), in apertura dell’ultima creazione di Bob Wilson, The Old Woman, al debutto al Festival di Spoleto: due volti bianchi, in tutto e per tutto espressionisti, sospesi a mezz’aria, piano piano si scoprono appartenere ai due straordinari attori, e poi ancora, si riconosce che sono sospesi su un’altalena a centro scena. Critica della presenza, della realtà; quanto del soggetto che la osserva.
Non a caso, sono molti, infatti, i critici e gli sguardi che hanno ceduto alla seducente tentazione di lasciarsi andare alla descrizione: un approfondimento di Franco Quadri (che ha avuto il merito di diffondere in Italia l’opera dell’artista americano) su Einstein on the Beach comincia con “un treno, un tribunale, un campo e una macchina del tempo” – la successione delle scene dello spettacolo. Distanza, incomunicabilità, predominio del percettivo e del visivo, astrazione forse; questi sono alcuni degli elementi con cui si è presentata in Italia l’opera di Bob Wilson, spesso in (più o meno dichiarata) opposizione con altre forme sceniche coeve, cosiddette “politiche” – più legate all’allenamento dell’attore, al coinvolgimento dello spettatore, alla condivisione e alla partecipazione. Teatro come valore d’uso, come strumento per fare qualcos altro. Meno estetica, più etica, incontro, autenticità.

Ma gli ultimi esiti di quello che è stato appunto chiamato “teatro immagine”, sembrano rimescolare le carte, illuminando con un segno diverso il valore d’uso dell’arte, la sua dimensione politica, finanche il sistema di (auto-)referenzialità. Non fosse per i recenti allestimenti che hanno visto insieme al lavoro Bob Wilson con il Berliner Ensemble fondato da Bertolt Brecht.

Si potrebbe dire qualcosa di simile per il minimalismo di Richard Serra e Donald Judd, Flavin, Morris, cui l’opera di Wilson, in particolare in questi ultimi anni, sembra ancora più prossima. È stato preso come esperienza-limite del monumento, rapita dalla propria cosalità, intrappolata nel materialismo, nel sovradimensionamento, in una vertigine puramente estetica. Ultima spiaggia di un moderno che non accettava il proprio decadimento, più che le prime incrinature di una crisi che poco dopo avrebbe rimesso in discussione canoni, certezze e abitudini. Solo col tempo si è dovuto riconoscere che proprio qui, invece, si ritrovano le radici di quell’arte concettuale destinata a cambiare per sempre, di lì a poco, condizioni e poetiche di tutta l’estetica occidentale. Di Fluxus, di Kosuth, perfino di tutto il post-concettuale che ha invaso mostre e musei dalla fine del Novecento. Perché le opere erano troppo grandi, invendibili, intrasportabili. Per cui, quello che arrivava alle mostre, alle gallerie, come alle case dei collezionisti, era piuttosto il progetto, il disegno. L’idea.

Bob Wilson "The Old Woman" (foto di Luigi Narici)

Bob Wilson “The Old Woman” (foto di Luigi Narici)

Vedere il teatro di Bob Wilson, anche il primo, sotto questa luce di un “pre-concettuale” − una relazionalità ante-litteram volta a mettere in crisi l’univocità delle logiche, a valorizzare (invece che misconoscere) l’esperienza del singolo, a smontare (anziché celebrare) i dispositivi della società di massa e delle sue tecnologie − è forse una delle più consistenti opportunità di queste sue ultime regie.

Per decenni, in quegli anni di operosi estremismi e inconciliabili opposizioni che hanno segnato il secondo Novecento, si è voluto − più o meno esplicitamente − contrapporre un teatro impegnato, autenticamente rituale, sostanzialmente politico, ad un altro metropolitano, più cinico e presunto autoreferenziale, incastrato nelle nuove tecnologie e in una volontaria incomunicabilità. Insinuando, a volte, l’esistenza di un’arte di resistenza, per tutti, e un’altra elitaria, (presunta) a suo agio con la seduzione e il potere dell’estetica tardo-capitalista. Le due facce della società dello spettacolo, l’una che la contesta, l’altra che la celebra; la prima alternativa, la seconda al servizio dell’immagine e del simulacro.
Forse i confini non erano e non sono così netti e riconoscibili come potevano sembrare.

Vedere il materialismo di Wilson, così come quello dei minimalisti americani, spogliato di tutte le incrostazioni della contingenza ideologica che ne hanno segnato i primi passi − anche consacrandoli al successo internazionale, beninteso −, permette forse di riannodare un filo rosso, in parte nascosto, in parte rimosso, del teatro politico novecentesco; e, allo stesso tempo, di riassestare croci e delizie della cosiddetta società dello spettacolo, fra consenso e contestazione. Quindi, in questo caso, di immaginare di poter ricontestualizzare i panorami mozzafiato dell’artista americano − così come tutto il ferro di Serra, le luci di Dan Flavin, il chiaroscuro di Sol LeWitt − alla luce di un engagement di lunga data, solidamente incardinato in un tentativo di critica e smantellamento dell’egemonia coeva. Scavando sotto le immagini, interrogando i limiti dell’estetica, sollevando il velo posato dalla cura visiva di superfici così seducenti, colpi di scena sorprendenti o di un disegno luci indimenticabile.

Roberta Ferraresi

Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto

Al via il Festival dei 2Mondi con il ritorno alla danza della Ferri

262404802052013211326_galleriaico1Dalla Piazza del Mercato alla Rocca Albornoziana, dal Teatrino delle 6 a Palazzo Mauri. Prime teatrali, esposizioni multimediali, rassegne di cinema, operette buffe, concerti, per un totale di 120 aperture di sipario e oltre 20 eventi dal 28 giugno al 14 luglio. Il Tamburo di Kattrin vive la 56esima edizione del Festival dei 2mondi di Spoleto, sedendo in platea, attraversando le sale museali, salendo e scendendo nei vicoli spoletini, scoprendo angoli nascosti. E restituendo, nello spirito di E20umbria.it, l’atmosfera sfaccettata di una manifestazione storica. Non solo recensioni, ma impressioni, conversazioni, suggestioni. Un diario di bordo a più mani, tra palchetti e locande, chiostri e palazzi.

Una pioggerella sottile ha bagnato il ritorno alla danza di Alessandra Ferri, in un Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti affollato di personalità, saturo di pubblico dalla platea al loggione. Firma, l’ètoile, le coreografia di The piano upstairs, scritto dal drammaturgo John Weidman.

262423329062013115825_galleriaico1Lascia il palco, il pianoforte a coda, all’inizio della pièce, per ritornare soltanto alla fine, testimone muto di un matrimonio fallito. Una scenografia scarna, con divani sul proscenio e affaccio su uno skyline americano, accoglie le battute finali di una storia d’amore. Si alterna, il racconto di Boyd Gaines, marito abbandonato, agli assoli, ai pas de deux, ai pas de trois, che l’esile danzatrice esegue insieme a Attila Csiki, Stephen Hanna e Andrea Volpintesta. Si aggrappa, lei, alle braccia di possibili amanti, fantoccio abitato dall’infelicità, svuotato dalla nostalgia di figli mai nati, svilito da un rapporto sfibrato, logoro, consumato. È incapace, lui, di comprensione, indisposto al dialogo, ossessionato da una fine alla quale non riesce ad arrendersi. Una struttura classica, lineare, una regia sobria, essenziale, che vive di sottrazioni, firmata dal direttore artistico del Festival dei 2mondi, Giorgio Ferrara, per uno spettacolo che scorre, fluido, sulle note di Arvo Pärt, Fabrizio Ferri e Giovanni Allevi, i tre capisaldi della colonna sonora. E se l’evoluzione della storia vede succedersi momenti ironici, dialoghi drammatici e brevi scatti di violenza, l’immagine finale, quella di un abbraccio intimo, intenso, tra moglie e marito, lascia una sensazione di tenerezza, di calore, di pacificazione, tra gambe che si intrecciano e guance che si sfiorano.

Rossella Porcheddu

Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto