intervista a Massimo Mancini

Echi dal Festival di Terni: la parola a Massimo Mancini

Monologhi a tre voci, coreografie sociali, discorsi alla nazione si sono alternati nelle sale del Caos, nel ritrovato Centro Multimediale e sul palco del Teatro Secci. Labirinti sensoriali, installazioni umane, paesaggi sonori hanno abitato piazze, ponti, quartieri. Artisti italiani, britannici, israeliani, catalani, hanno preso una posizione, operato scelte ideologiche, affermato con movimenti, azioni, parole, video, le proprie convinzioni. La comunità si è fatta interprete di spettacoli che non vogliono essere esibizioni ma dichiararsi atti politici. Non per niente il motto 2012 del Festival Internazionale della Creazione Contemporanea è Up to you, ovvero tocca a te, che tu sia danzatore, attore, musicista, adulto, bambino, comune cittadino. A manifestazione conclusa Massimo Mancini, che preferisce riconoscersi parte di una rete piuttosto che identificarsi nella figura del direttore artistico (ruolo condiviso con Linda Di Pietro), tira le fila della settima edizione e concede qualche anticipazione sulle idee in cantiere. La macchina di Indisciplinarte non si è mai fermata.

“Il festival non è un obiettivo, è uno strumento per presentare i progetti, le produzioni, le residenze portati avanti durante l’anno. Non dura dieci giorni ma dodici mesi. È legato al quartiere, alla città, punta alla spersonalizzazione piuttosto che al prevalere delle unicità, e alla formazione di un gruppo di lavoro sul territorio. È stato così fin dall’inizio e così funziona ancora oggi, le persone non devono essere al di sopra dell’idea”.

Una visione che riconosce lo spettatore come parte attiva, che lo esorta a essere presente, a partecipare, sul palco come in platea, in teatro come in piazza.

“Il pubblico di Terni è abituato, il suo ruolo, anche nelle scorse edizioni, non è mai stato passivo. Quest’anno c’è stato un grande coinvolgimento con Atlas di Ana Borralho e João Galante e con Vivarium Studio di Philippe Quesne, spettacoli che prevedono l’utilizzo di comparse locali. Abbiamo avuto una difficoltà legata al Centro Multimediale, usato i primi tre anni della manifestazione e poi chiuso. Se il Caos ormai è conosciuto e frequentato, il CMM era uscito dall’immaginario della città. È stata una sfida riaprirlo e ora è necessario capire come rilanciare lo spazio nella quotidianità, per produzioni audiovisive ad esempio. C’è, nel festival, un’importante riflessione sui luoghi, il fiume, le piazze, come Piazza Tacito, centrale ma di passaggio, dove abbiamo installato un ostacolo visivo – il Luminarium di Architects of Air – come invito a fermarsi”.

Un riappropriarsi degli spazi, dialogare con la città?

“Sì, non è un festival legato a un grande centro, ma a una città in trasformazione, a una città che deve ancora trovare se stessa. La base, il punto di partenza è sempre il luogo, la comunità”.

Progetti canadesi, compagnie portoghesi, registi cileni, performer americani. È una manifestazione dal respiro internazionale.

“Il riferimento è quello dei programmi di cooperazione europei, progetti di comunità. È l’unico modo per avere globalità”.

Gli spettacoli italiani come si inseriscono in questo contesto?

“Ci sono spettacoli rodati, come Nascita di una Nazione dell’Accademia degli Artefatti, o come Discorso Grigio di Fanny&Alexander. La danza, invece, soffre per il problema delle repliche. Il mercato cerca in continuazione prime esclusive perciò le esibizioni nel nostro paese sono limitate. Le coreografie spesso sono portate in scena due o tre volte contro le quaranta delle compagnie europee, e perciò risultano acerbe. Ma a noi interessa dare spazio anche agli emergenti, anche solo per tre minuti. Sono come i fiammiferi che fanno luce per brevi istanti”.

Danza verticale, teatro, videoarte: è importante la multidisciplinarietà ma anche il rapporto con la contemporaneità e con la tecnologia?

“La tecnologia è inserita nel nostro vivere quotidiano, ha cambiato il nostro modo di vedere le cose, e la nostra percezione della scena, divenendo parte di essa. Ma è usata solo come strumento per allargare la verità. Se uno spettacolo prevede l’utilizzo di un computer, l’attenzione non è rivolta a quell’oggetto, ma a ciò che accade sul palco”.

La riflessione sulla dimensione politica dell’arte coprirà un biennio, dunque continua. Qualche anticipazione sui progetti futuri?

“Sicuramente riprenderemo a girare, in Sudamerica in particolare, in Cile, in Argentina. Assistere a Villa+Discurso a Villa Grimaldi è stata un’esperienza intensa, e trovare drammaturgie come quella di Calderón oggi non è facile. In questi paesi abbiamo conosciuto una generazione giovane, stufa dell’antagonismo, capace di prendere una posizione, affermare un’idea, un pensiero. È questo che ci interessa. E poi ci sarà un’apertura verso i nuovi mondi, verso l’Australia, la Corea”.

Intervista a cura di Rossella Porcheddu