intervista Paolo Puppa

La figura del dramaturg secondo Paolo Puppa

Intervista a Paolo Puppa

Paolo Puppa

Durante le tre intense giornate di convegni, discussioni, letture sceniche e tavole rotonde de Il teatro in tempo di crisi – Settimana di drammaturgia contemporanea abbiamo incontrato Paolo Puppa, rivolgendogli alcune domande non solo sulla sua direzione scientifica di questa rassegna, ma anche sul suo essere scrittore, dramaturg e performer.

In questi giorni di convegno abbiamo ascoltato diversi interventi sulla figura del dramaturg, sulla sua importanza nel processo teatrale. Cosa differenzia questa figura in Italia rispetto al resto d’Europa?

C’è una differenza sostanziale, in quanto all’estero questa parola è un mestiere, riconosciuto, garantito e spesato, mentre da noi è ancora un work in progress, nel senso che non è stato accettato fino in fondo. Il dramaturg di solito si inserisce come un mestiere aggiuntivo a delle figure fisse che sono il commediografo da un lato e dall’altro il regista; quest’ultimo utilizza il dramaturg come traduttore aggiunto che serve come trait d’union tra un sistema di un Paese all’altro, per ridurre i rischi della traduzione. Da noi c’è, da un lato, il teatro di ricerca, che è un teatro molto vivo, dove il teatro di parola è meno centralizzato e dove soprattutto la rappresentazione di testi scritti da altri è spesso irrilevante. E d’altra parte, nei teatri stabili, è il regista stesso a fare da dramaturg: non chiede l’aggiunta, i costi di una figura esterna. Il dramaturg in Italia stenta a mettere radici per il fatto che sono prioritarie le figure del regista o dell’attore-regista che fa tutto da solo.

Parlando della sua esperienza in qualità di scrittore e di dramaturg. Lei ha affrontato la rielaborazione in chiave contemporanea di personaggi della mitologia classica ma anche della tradizione biblica. Come riesce ad affidare a questi personaggi i temi dell’attualità?

Nella mia drammaturgia – una drammaturgia al plurale – ci sono anche commedie tradizionali con personaggi contemporanei. C’è un filone di drammaturgia alla seconda potenza – specialmente quella dei monologhi – dove parto dal concetto che tutto è ormai stato detto ed è solo una questione di rielaborazione, come fosse una costruzione di scritti apocrifi. Quando scrivo un testo contemporaneo con personaggi di oggi faccio molta fatica ad introdurli perché devo trovare un sistema per raccontare il loro passato, la loro situazione. Viceversa, quando prendo dei personaggi celebri, posso evitare tutto questo lavoro di flashback, partendo dal fatto che c’è una condivisione di conoscenza tra me e la sala – un po’ come il teatro antico dove la tragedia prendeva sempre dei personaggi che erano già conosciuti. Inoltre faccio l’uso di una grande metafora di Jung in cui Dio è morto, è morta la religione, sono morti i miti ma risorgono come malattie, come patologie; come la nevrosi, diceva Freud, è un’antica magia collettiva che diventa minoritaria e viene praticata dal singolo che ha una psicosi. I miei personaggi antichi, o classici o biblici o anche tolti dalla letteratura, vengono buttati allo sbaraglio nel Nordest di oggi, tra la crisi economica e insieme un certo benessere “microaziendale”. C’è qui una spaventosa solitudine delle nuove generazioni, delle famiglie abbandonate sia dal partito sia dal campanile – non c’è più quell’elemento coibente che una volta era rappresentato nel Veneto dal Pc e dall’altro dalla Parrocchia –: il benessere e la nuova famiglia “monodinamica” (non ci sono più né nonni né zii) portano a questa solitudine tra genitori e figli. Quindi queste mie mitologie tornano dalla finestra come patologie contemporanee. E poi cerco di realizzare quella metafora di Pasolini secondo cui il dialetto è morto, ma torna come lingua sporca: spesso i miei personaggi hanno un accento veneto che funziona da spiazzamento. Di recente ho pubblicato un testo, Lettere impossibili, in cui immagino grandi autori dell”800 e ‘900 da Svevo a D’Annunzio, da Pasolini a Gadda, da Ibsen a Joyce o Beckett, che sono calati in un quotidiano; invento delle situazioni apocrife in un contesto quasi piccolo-borghese, sotto forma di lettera – sono monologhi epistolari in cui questi autori diventano personaggi piccolo-borghesi, ma sono delle invenzioni verosimili.

Nel momento in cui lei scrive un testo, lei ha un rapporto con esso, anche quando è lei stesso a metterlo in scena come regista e come performer. Quando affida a un’altra persona il suo testo, che cosa cambia?

È molto più emozionante, perché in quel momento vedo il teatro come metafora della vita, vedo che cos’è la “interpretazione”. Quando sono io stesso che faccio monologhi maschili, posso dire che lo concepisco e lo “porto in giro con la carrozzina”. Quando invece lo do ad altri mi capita di avere un’emozione perché vedo la oggettività. Io in questo momento sto parlando e tu mi ascolti e mi fraintendi perché vedi di me – in termini pirandelliani – l’aspetto esterno e cogli una tua prospettiva che io non riesco a vedere. Quando poi mi mettono in scena io vedo il fraintendimento, vedo l’oggettività di ciò che sta nel mio me che diventa cosa reale. La messa in scena ad opera di un altro è rendere visibile quello che avviene ogni giorno nei rapporti interpersonali, cioè l’equivoco, il fraintendimento. È in qualche modo snervante, ma è anche straordinario perché è il sale della vita, la convivenza tra le diversità.

A proposito della rassegna Il teatro in tempo di crisi. Come la partnership tra teatro e università può affrontare la crisi: è possibile?

È una partnership allargata ad altri Enti perché l’università ha dovuto avvalersi dell’apporto della Regione – decisivo – e dell’apporto anche con il Ministero degli Esteri. Oggi organizzare con la ristrettezza economica è sempre una sfida e dobbiamo sempre ricorrere al fund raising – cioè trovare fondi. Noi siamo sempre stati abituati a stare in biblioteca e ora dobbiamo diventare dei promoter finanziari se vogliamo fare qualche cosa. Bisogna partire da questa carenza economica dell’università. D’altra parte ci sono nelle università delle nuove forze come il nuovo Rettore che ha una particolare predilezione nell’investire sul teatro a condizione che ci siano altri sponsor. È fondamentale la sinergia tra il mondo del teatro universitario e mondo accademico: parlare di teatro nelle università come fosse una civiltà sepolta o scomparsa non ha senso, bisogna mostrarlo ai ragazzi e anche farglielo fare.