le nuvole aristofane

La povera patria di Latella

Recensione a Le nuvole – regia di Antonio Latella

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Spesso si rimettono in scena gli antichi classici rivendicandone l’universalità dei temi, e quindi il loro eterno valore; ma quando si tratta di una commedia di 2500 anni fa sull’educazione delle nuove generazioni e sulla corruzione morale quale è Le nuvole di Aristofane – riallestito da Antonio Latella per il Festival dei 2Mondi di Spoleto lo scorso anno– forse la spiegazione di tanta attualità sta in un ben più amaro: “nulla è cambiato”. E il regista campano suggerisce che, anzi, la situazione è peggiorata.

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La porta del pensatoio, dove Socrate istruisce i suoi adepti, si è rimpicciolita e ha preso le forme di un boccascena con tanto di siparietto rosso: l’ingresso al sapere è diventato più ristretto, ostico; la cultura  si è trasformata in intrattenimento e il filosofo (un eccezionale Massimiliano Speziani) in un predicatore/majorette che cantando “follow me!” raccoglie proseliti. Insieme a Speziani, che dà anche voce o movenze al pupazzo di Fidippide, figlio fannullone (o bamboccione) del vecchio Strepsiade, in scena altri due clown (che conservano di questa magica figura circense solo le smisurate calzature): Annibale Pavone, che interpreta con grazia e bravura l’anziano padre, e Marco Casciol, irriverente e convincente discepolo della scuola. Maurizio Rippa, infine, in tutù e ventaglio di piume, diverte con le sue movenze da improbabile soubrette e incanta con le sue incursioni musicali. Ma dire che la commedia aristofanea – tradotta da Letizia Russo sia stata riadattata per soli quattro attori sarebbe, per questa messa in scena, riduttivo: giocato tutto tra ribalta e platea, lo spettacolo si fa forte di una metateatralità che coinvolge il pubblico in prima persona. Alla ricerca di una relazione che è forse il vero, unico lieto fine dell’amara commedia.

Antonio Latella, grazie anche all’incredibile versatilità dei suoi attori, costruisce un lento e fortissimo climax di significato che fa di questo suo nuovo lavoro uno spettacolo divertente, leggero, poetico, amaro e profondamente e sottilmente  intelligente. Se il primo impatto è cabarettistico, clownesco ed irriverente, traducendo con originalità ma coerenza i toni dell’antica commedia, al ritmo di scheletri che, scendendo lentamente dalla graticcia,  riempiono l’aria in scena come nuvole, tutto si fa più sinistro e serio. Il desiderio di Strepsiade di far apprendere al figlio l’arte per eludere la giustizia, richiamando alla memoria personaggi attuali ben noti, fa incrinare l’atmosfera festaiola: un mondo in cui tutto diviene relativo, perché l’arte oratoria e un gran sorriso assicurano il successo nonostante processi e appurate illegalità – e questo si insegna ai giovani – non può che garantirsiun inesorabile declino. Se poi anche il “discorso giusto” sull’educazione – quello che dovrebbe rifarsi ai principi della tradizione, dell’austerità e del rispetto, in contrapposizione al “discorso ingiusto” più lascivo e vizioso – risuona come un ben meno condivisibile proclama fascista, lo spettatore, in luce ed eletto a giudice dell’agone, non sa proprio

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più cosa scegliere. L’unica cosa che gli resta da fare è tornare in silenzio nel buio della platea, a constatare il lento abbruttimento dell’uomo: gli scheletri, in posture che dipingono in scena una sorta di giudizio universale, si involano; sul palco appaiono tre scimpanzé, di cui uno con la fascia tricolore. La figura umana è vitale nella sua immagine di morte, e bestiale e disumana nelle sue forme in vita. Maurizio Rippa al microfono, con la sua voce delicata, intona una canzone (Povera Patria di Battiato) dolce e atroce, come una ninnananna che culla l’assonato popolo italiano nell’ossimorico tentativo di risvegliarlo. Un lungo letargo, e intanto “nel fango affonda lo stivale dei maiali. Me ne vergogno un poco, e mi fa male vedere un uomo come un animale”.

Una scena finale magistrale, toccante, che chiude uno spettacolo impegnato nel senso più profondo del termine, perché si assume la responsabilità di ricercare un rapporto più umano e diretto con la platea senza, per questo, appiattire o semplificare nulla. L’idea che alla gente comune si debbano dare divertimenti leggeri, semplici, perché “se no non capisce”; il pregiudizio che il popolo sia ignorante e superficiale: ciò lo rende tale. Una spirale di instupidimento che inverte l’evoluzione umana verso la barbarie, e che questo spettacolo cerca di minare obbligando il suo pubblico a fare qualcosa che da tempo, ormai, non gli viene più richiesto: pensare.

Visto al Teatro Verdi, Padova

Silvia Gatto