l’origine del mondo recensione

Ritratto d’un interno poco accogliente

Recensione a L’origine del mondo. Ritratto di un interno – scritto e diretto da Lucia Calamaro

foto di Angelo Maggio

È l’annata della donna in teatro. Inteso universalmente, nel significante di dimensione, di mondo, di genere, tematica. E non si distoglie L’origine del mondo. Ritratto di un interno visto al teatro Morelli nel secondo venerdì della rassegna More Fridays, targata Scena Verticale. Il contemporaneo in città, in materia di quinte e sipario.

Non si bissa il bagno di folla della prima uscita, nella settimana passata, a marchio ricci/forte. Le presenze allo spettacolo scritto e diretto da Lucia Calamaro con Daria DeFlorian, Federica Santoro, Lucia Calamaro, sono discrete. Tendenti allo scarso. Tra il primo e il secondo dei due episodi andati in scena – l’allestimento in realtà ne ha quattro – un buon numero di spettatori ha abbandonato. Approfittando del buffet allestito per l’occasione. Sarà stato per il costrutto scenico poco digeribile se non a una elitaria platea di “addentrati” ai lavori? O per la mancanza di dinamicità se non si considera il verbalizzato deludente per le aspettative degli accorsi? O ancora per lo stile esageratamente intellettuale che ha allontanato i più stakanovisti della fluidità asciutta?

Fatto sta che lo spettacolo scritto e diretto dalla drammaturga e regista romana, una che di teatro se ne intende a meraviglia, ha diviso gli umori dell’esiguo pubblico. Chi lo definisce noioso e asfittico. Qualcun altro esemplare, perché trasborda sottoforma squisitamente umana, quel mal di vivere, quella melanconia, quello spleen tipici effetti di una natura ricca e policroma. E lo fa accentuando sembianze decisamente teatrali: l’attore, la drammaturgia, la parola. Dipingendo l’essere donna nelle tinte più fosche, patologiche perché retrospettiva velata d’un grandeur di genere. Quando l’avere troppa testa, o anima, commista alla delicata sensibilità in rosa, consegue tuffi negli abissi depressivi. Perché ci si interroga sui grotteschi resoconti di un andirivieni marcio. Lucida consapevolezza su moti esistenziali, contraddittori, miseri, rozzi.

foto di Angelo Maggio

Il lavoro delle attrici sulle tavole del Morelli ha rappresentato un altro dei motivi che ha fatto amare lo spettacolo. Intanto per la mole del testo memorizzato e trasposto con severa pignoleria interpretativa. Di altro, per le movenze composite di naturalezza e incarnato, enunciazione viscerale, sincera, sentita. Una finzione che non sembrava tale. Ancora, saziante è stato l’indagare interiorità scansando banalità da piagnistei e disperazioni allarmistiche. Da assumere connotazioni comuni, tenendo fede alle finalità dell’ardire in scena rappresentando la vita. In questo caso un senso comune interno. Un ritratto, appunto, giocando sull’ambiguità semantica di interno casa e interno umano. La protagonista, tra frigo e lavatrice, spese, tavoli, figlie e mamme, sviscera il proprio dramma depressivo. Ma non lo racconta, lo dà in pasto. Inconsapevole, probabilmente, quando l’ultimo bagliore della coscienza di sé si affievolisce e la confusione l’inghiotte. Superba la prova di Federica Santoro, figlia e psicanalista della donna, la spalla drammatica dell’attore principe, un contenitore di suoni, per una mamma “distratta” dalla malattia. Passionale la Calamaro in scena quando figura la madre della donna, meridionale e battagliera, incisiva e poco astrusa, a cercare soluzioni al fattaccio. Conduce per mano le tre donne un’attitudine comune all’intellettualità, al colto, all’interrogarsi filosoficamente, all’interesse artistico, di cui è inevitabilmente pregno il testo.

Un dramma borghese non di alta digeribilità. Ricorderebbe Pinter, se non fosse così bulimico. O Yasmine Reza, in chiave soft e iper reale. Da metabolizzare.

Visto al Teatro Morelli, Cosenza

Emilio Nigro