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Ronconi, il Nuovo Teatro e una nuova critica: alla Biennale del 1975

Lasciatemi divertire: un progetto su Luca Ronconi curato da Claudio Longhi per la stagione 2017 de La Soffitta, centro del Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna (20-22 febbraio). Una rivista, “Culture Teatrali”, tutta dedicata al tema della regia in omaggio al maestro; gli interventi degli autori che hanno partecipato; una due giorni di proiezione di video dall’opera ronconiana; e un pomeriggio di discussione, insieme a tutti quegli interlocutori (attori, costumisti, scenografi, ma anche organizzatori e critici) che negli anni si sono avvicinati a quell’«oggetto così sfuggente», complesso e molteplice che è stato il teatro di Ronconi.

Per ricordare il regista a 2 anni dalla sua scomparsa e tornare a riflettere su alcuni aspetti della sua opera, anche rispetto all’eredità che ha lasciato – com’era nello spirito del progetto curato da Longhi – pubblichiamo di seguito l’intervento preparato da Roberta Ferraresi per la sessione dedicata a Il gran teatro ronconiano della conoscenza: prospettive a confronto.

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2012: L’ultima Biennale di Ronconi
C’è un Ronconi oltre i suoi bellissimi, grandiosi spettacoli. Oltre la regia. Oltre l’epoca del rapporto con gli Stabili e il teatro pubblico. È il Ronconi maestro, quello dell’instancabile impegno formativo (inteso però non solo direttamente, ma anche in un senso ampio e lato che giungerà a toccare anche la pratica critica e i nostri giorni). Un aspetto centrale in tutta la sua vicenda teatrale, che arriva fino all’esperienza emblematica del Centro di Santa Cristina e che in realtà si esprime anche nella sua ultima Biennale, quella del 2012; forse un episodio minore, ma significativo per diverse ragioni. Non solo perché è il mio ultimo contatto diretto con Ronconi (nel quadro di un laboratorio di critica insieme ad Andrea Porcheddu). Ma anche per le modalità stesse di presenza del regista in quel contesto: Ronconi partecipava con un laboratorio in una Biennale tutta College, strutturata solo per workshop e senza spettacoli; in più – come ebbe a dire lui stesso – aveva proposto un laboratorio “particolare” rispetto al consueto dei percorsi di lavoro con attori in vista di un nuovo spettacolo – un laboratorio di regia, dedicato soprattutto ad allievi registi al lavoro ciascuno con un gruppo d’attori su Questa sera si recita a soggetto (testo affrontato dal maestro in un celebre spettacolo del ’98 su cui intendeva tornare). In più, la presenza alla Biennale 2012 è significativa perché gli viene lì conferito il Leone d’Oro alla carriera. Un riconoscimento anche questo tutto particolare. Basti riascoltare il discorso tenuto alla cerimonia di premiazione dal Presidente Paolo Baratta, che non si presenta come il classico elogio delle qualità dell’artista e delle motivazioni che hanno spinto al premio, ma che è pervaso di una gratitudine – dice il Presidente – «speciale»: per «aver interpretato in modo nuovo la Biennale, come luogo dove si dischiude la conoscenza della creazione artistica» al tempo della direzione ronconiana dei settori musica e teatro dal 1975 al 1977 (e tanto di questo “modo nuovo” è a tutt’oggi un eredità preziosa, viva nell’articolazione delle proposte della Biennale).

Il Laboratorio Internazionale del Teatro del 1975
La Biennale Teatro del 1975, la prima diretta da Luca Ronconi, è anch’essa una Biennale del tutto particolare. Perché? Un’idea ce la si può fare anche solo scorrendo i nomi degli artisti in programma: oltre lo stesso Ronconi, presente a inaugurare la rassegna il 25 agosto con l’incredibile spettacolo Utopia da Aristofane, ci sono per esempio le punte dell’avanguardia internazionale (Living Theatre, Odin, Ariane Mnouchkine con il suo Soleil, Grotowski), nuovi artisti come Meredith Monk, numerosi italiani fra cui Giuliano Scabia.
Ma non è solo questo. Non è una Biennale “particolare” solo per i grandi nomi invitati a partecipare. Del resto, non erano mancati fino a quel momento nella rassegna veneziana, meritoria d’aver portato in Italia almeno dal decennio precedente il meglio dell’avanguardia internazionale. Fino al 1975 la Biennale era stata in effetti un evento unico, di grandissimo richiamo, ma tutto sommato restando ancorata alla forma-rassegna, cioè presentando una serie di spettacoli (certo bellissimi e indimenticabili, che hanno segnato la storia del teatro). Si chiamava “Festival Internazionale del Teatro”. Quando invece Ronconi arriva a dirigerla, a metà degli anni Settanta, introduce quella che Gianfranco Capitta – nell’incontro pubblico in occasione del Leone d’Oro 2012 (video) – definisce una vera e propria “parola magica” (poi il regista specificherà però che non è stato certo lui a “portarla” al festival). La Biennale del ’75 si intitola infatti: Laboratorio Internazionale del Teatro, dove la “parola magica” è ovviamente “laboratorio”.

IMMAGINI DALLE REPLICHE VENEZIANE 
DI “APOCALIPSYS CUM FIGURIS” (1975)

Infatti, quegli artisti importanti e ormai celebri che abbiamo nominato non sono invitati a Venezia a fare spettacoli. O, almeno, non soltanto, non primariamente. In realtà ci sono anche messinscene, seppur non certo tradizionali; ma anche coloro che portano i propri allestimenti sono impegnati inoltre a fare laboratori (come Meredith Monk) e tutti sono coinvolti in densi incontri con gli spettatori. Fra questi, c’è Jerzy Grotowski: in Biennale con il suo ultimo spettacolo, Apocalypsis cum figuris, nelle sue ultimissime repliche, a cui assistono 3.000 persone nella ventina di serate programmate. Ma il lavoro è allestito in una piccola isola della laguna, San Giacomo in Paludo e al pubblico viene data la possibilità, poi, di rimanere a confrontarsi con gli artisti, creando così un’esperienza di fruizione e contatto piuttosto anomala per lo spettatore. Ma c’è dell’altro: Apocalypsis cum figuris è di diversi anni prima, nel frattempo la ricerca del maestro polacco è andata da tutt’altra parte. In più, Grotowski e il suo gruppo lavorano lì per 2 mesi: sull’isola, con incontri quotidiani con gruppi italiani e internazionali, di confronto e condivisione di lavoro; con 8 diversi stage su tematiche differenti; fino alla conclusione del percorso con una 2 giorni di incontro pubblico a Mirano.
Su un’idea e una pratica diverse di teatro lavora anche il Living, presente in Biennale con la trilogia L’eredità di Caino, composta di 3 performance di argomento politico di cui una parte svolte come sit in nelle piazze della città. E su una modalità nuova di incontro con l’altro si concentra naturalmente anche il Teatro Vagante di Giuliano Scabia, impegnato per 3 mesi a “scrivere” la “storia” della città di Mira insieme ai suoi abitanti. Poi c’è l’Odin Teatret di Eugenio Barba, che arriva alla Biennale dopo un percorso di viaggio, ricerca e scambio in Veneto per un unico momento di contatto con il pubblico che il 24 settembre assume le forme di un lungo incontro composto da interventi di Barba sul ruolo e senso del teatro, dalla documentazione video-fotografica del percorso recente della compagnia e da dimostrazioni di lavoro degli attori.

IMMAGINI DELLA BIENNALE TEATRO 1975 
(RONCONI, LIVING, ODIN, MEREDITH MONK)

Lo sguardo della critica
Il titolo dell’incontro, Immagini da una realtà senza teatro, può spiegare molto della particolarità di questa Biennale di Luca Ronconi. E anche in realtà dei problemi e questioni che ha sollevato. Infatti, come testimonia lo stesso regista nell’intervista condotta da Capitta per il Leone d’Oro 2012, quella del Laboratorio ’75 è stata una «esperienza importantissima»: per esempio perché permette oggi di toccare diversi aspetti e livelli dell’opera ronconiana, dalla direzione artistica all’idea di laboratorio, delle pratiche formative intese però nel senso ampio della ricerca teatrale. Ma anche perché – è sempre Ronconi a ricordarlo – quelli erano «anni di straordinaria effervescenza per il teatro (…) dove quello che era nuovo era veramente nuovo, talmente nuovo» – riflette il maestro – «che spesso nemmeno piaceva». E qui veniamo a un altro punto-chiave, che rende quella Biennale anche oggi significativa: le reazioni diffusamente (e spesso pesantemente) negative della critica nei confronti del festival del ’75, come se quei grandi artisti dell’avanguardia internazionale, con le loro proposte riunite dal direttore Ronconi, avessero deluso e spiazzato le aspettative. “Ma questo è teatro? Fanno ancora teatro?” sono le domande che si leggono riecheggiare da una pagina all’altra dei giornali.

Che cosa stesse succedendo – lì e nella scena contemporanea – si può vedere ancora oggi sulle pagine del numero 13 della rivista “Biblioteca Teatrale”, che è una delle poche fonti complessive di documentazione sull’intero progetto della Biennale del ’75. Il dossier dedicato alla manifestazione porta un titolo singolare: I sintomi. Sintomi che si possono vedere proprio in quella Biennale. Sintomi di «una rassegna di dimissioni» dove «gli artefici della rivoluzione del teatro contemporaneo affermano la necessità di smetterla col teatro», mostrando «appena ancora, come l’ultimo fuoco nella brace, il virtuosismo e le vestigia di una vecchia ricerca». Così si legge su quel numero di “Biblioteca Teatrale”: «Ciò che i sintomi ci mostrano è un processo di ridefinizione, ma non la ridefinizione dei contenuti, delle proposte, della comunicazione teatrale; la ridefinizione dei confini stessi del teatro». E dunque:

«È comprensibile che chi sta sui bordi e guarda il luogo del teatro abbia la sensazione di un vuoto, di un’emorragia insensata e mortale. Sembra che l’organismo che sta esaminando si ritragga su di sé, si consumi quasi per un desiderio d’annullamento. (…) È prevedibile che tutto appaia così per un errore di prospettiva: in realtà quei gesti non sono rivolti a lui, non sono messaggi, sono i preparativi per la partenza; né quell’organismo si consuma, semplicemente si allontana».

Non sono “sintomi” da cogliere solo in senso negativo secondo gli autori (che pure commentano e riflettono intorno agli articoli della critica ufficiale sulla Biennale di Ronconi). Sono secondo loro «sintomi di un possibile futuro del teatro».

Il Nuovo Teatro dopo il ’68
Cosa stava succedendo nel Nuovo Teatro degli anni Settanta? Alcune risposte vengono da Franco Quadri, che 4 anni dopo cura il catalogo della Biennale ’75, con una distanza di tempo che secondo il critico consente di “misurarla meglio”: appunto per esempio rispetto alla possibilità di «aver verificato come il concetto di laboratorio (…) avrebbe poi dilagato nella sperimentazione (…) contrassegnando gli anni a venire». Quadri, nella sua introduzione, parla di un momento di crisi o, meglio, di “autocritica” della cultura di gruppo, i cui esponenti sono già alla ricerca di una nuova idea di teatro, fondata su una diversa concezione e pratica della relazione con il pubblico, che definisce «incontro non spettacolarizzato».
Marco De Marinis, nel suo libro dedicato al Nuovo Teatro tocca la questione ponendo questa particolare fase alla fine del proprio percorso e del volume, come orizzonte ultimo. Ne parla come del momento “della rottura dei limiti”, di una “messa in crisi” del teatro dopo il ’68 che si esprime in fenomeni come la dilatazione materiale del fatto teatrale, lo spostamento di interesse dal prodotto-spettacolo ai processi che innesca, una diffusione senza precedenti di interesse per le esperienze performative. Tanto per rendere l’idea attraverso alcuni esempi campionati dall’inventario di De Marinis, è l’epoca in cui Peter Brook fonda il CICT a Parigi, con cui compie i suoi viaggi-teatro e inaugura una originale ricerca interculturale; in cui l’Odin (come si vede in Biennale), dopo i grandi successi di Ferai Min Fars Hus si scioglie e ricombina, andando a cercare un diverso modo di pensare e fare il teatro, e di entrarvi in relazione – per esempio con la pratica oggi celebre del “baratto”–, in luoghi remoti e non abituati alla fruizione spettacolare in senso stretto (le esperienze a Ollolai in Sardegna e a Carpignano Salentino sono proprio del 1974/75); è il momento in cui – per restare alle presenze della Biennale del 1975 – anche il Living si scioglie e cambia modo, con un filone guidato da Julian Beck e Judith Malina che si impegna nell’attivismo politico (a partire dal Brasile). «Il teatro non mi interessa più», è la celebre frase pronunciata da Jerzy Grotowski in quel periodo, quando il regista abbandona il fare spettacoli e la sua attenzione si rivolge a una ricerca svolta attraverso il teatro. Così è anche in Italia, dal già citato Teatro Vagante di Scabia a per esempio il progetto CAMION di Carlo Quartucci o di Leo e Perla a Marigliano; o anche fino al temporaneo abbandono delle scene di Carmelo Bene (1968>1973) e del trasferimento oltralpe di Ronconi, che di lì a poco darà avvio (nel 1976) al Laboratorio di Prato.
Erano questi tutti «percorsi di fuga dal teatro» segnati, come riflette De Marinis, da «una crescente tensione al superamento dei limiti». Ma – si chiede lo studioso – una fuga verso dove, verso cosa? «Diciamo» – si risponde – «verso un dopo, un aldilà, un oltre il teatro, che per alcuni non avrà più niente a che fare con il teatro stesso (…) o per altri sarà un teatro talmente trasformato nelle sue modalità e nelle funzioni che non si riuscirà più a riconoscerlo come tale restando al di qua di quei limiti».

Biennale ’75, Nuovo Teatro e nuova critica
Questo è un momento molto, molto particolare del Nuovo Teatro. E la prima Biennale di Ronconi si può considerare un momento di congiuntura, un caso emblematico in almeno due sensi: è una Biennale “di riepilogo” rispetto al passato, in quanto riunisce a Venezia gli artisti di punta dell’ultimo decennio, che coi loro spettacoli avevano cambiato per sempre la scena contemporanea; ma dall’altro lato è anche una Biennale “di apertura” verso il futuro, perché certifica in modo assolutamente singolare i cambiamenti in corso che già stavano di nuovo radicalmente trasfigurando il profilo del teatro di quegli anni.
Ma la Biennale e il Nuovo Teatro dopo il ’68 non hanno un impatto radicale solo sulle arti sceniche e sulla ricerca teatrale. Penso da un lato alle accese perplessità che si sono scatenate sui giornali in occasione del festival veneziano del ’75, alle domande della critica tradizionale, e dall’altro lato a come e perché quel numero di “Biblioteca Teatrale” ne abbia documentato i lavori. Perché il fatto è piuttosto strano: non è una rivista specializzata o di settore, ma una pubblicazione accademica, diretta da Ferruccio Marotti e Cesare Molinari all’Università di Roma dal 1971, fra l’altro edita in un momento delicatissimo della storia del teatro italiana, appena nata come disciplina universitaria negli anni ’60, quindi ancora presa nella definizione del suo campo di studio, dei suoi oggetti di indagine e nella sperimentazione di modi e strumenti adatti per studiarli. La cosa è strana perché gli autori di “Biblioteca Teatrale” non sono critici nel senso tradizionale del termine, ma studiosi. E inoltre l’anomalia, la diversità rispetto ad approcci più tradizionali emerge anche a guardare la struttura stessa del numero 13 della rivista, le modalità di racconto che propone di quella Biennale: il lavoro di una selezione mirata di artisti in programma (Ronconi, il Living, l’Odin e Grotowski) è testimoniato tramite un mix – dicono gli autori – di «materiali, riflessioni, brani registrati, dichiarazioni dei protagonisti e cronache o divagazioni degli osservatori, citazioni», che dispiega una gamma piuttosto ampia di scrittura – a diverso titolo – critica anche rispetto ai differenti gradi di coinvolgimento possibile dell’osservatore nel proprio oggetto di indagine. Il racconto inoltre è scritto a più mani da persone di diversa provenienza, formazione, funzione: a teatrologi come Ferdinando Taviani e Franco Perrelli, con la collaborazione di Fabrizio Cruciani e Nicola Savarese si affiancano da un lato studiosi anche di altre materie (Guido Fink) e uno stretto collaboratore di Luca Ronconi in Biennale, Mario Raimondo. E i singoli contributi infine sono montati insieme in un discorso unitario, cadenzato da riflessioni di carattere generale e trasversale.

È in questo senso che la Biennale Teatro del ’75 diretta da Luca Ronconi non certifica solo il mutamento in corso nel Nuovo Teatro di quegli anni, ma testimonia anche le altrettanto radicali trasformazioni che questo nuovo corso delle arti sceniche – con l’investimento inedito sulla dimensione del laboratorio, sui processi creativi, sul tentativo di provare forme di relazione diverse con il pubblico – sembra aver richiesto con forza alla critica. Interrogando, mettendo in crisi e in discussione non solo il modo di fare teatro, ma anche di osservarlo, analizzarlo, raccontarlo: ponendo domande che hanno influenzato tutto il secondo Novecento – e che risuonano forti ancora oggi nella loro validità – sul senso stesso del teatro e anche della critica.

Roberta Ferraresi