mantica 2014

I progetti curatoriali di Màntica 2014

Lucia Amara, teorica del teatro; Giovanni Leghissa, filosofo ed epistemologo; Sonia Massai, studiosa di letteratura inglese ed esperta di teatro shakespeariano; Simone Menegoi, critico e curatore d’arte; Sandro Pascucci, filosofo di estetica della musica; Enrico Pitozzi, teorico della corporeità e del movimento. Sono loro i protagonisti di Màntica, l’ultima edizione del festival di ricerca teatrale e musicale diretto da Chiara Guidi, che si è svolto dal 4 al 10 dicembre al Teatro Comandini di Cesena.

Studiosi, filosofi e critici sono stati chiamati per mettere in luce la complessità del lavoro artistico, per instaurare un dialogo tra il pubblico e l’opera, nella definizione di un “luogo in cui l’opera d’arte diventi leggibile”. Sono stati inoltre invitati a proporre i nomi di coloro che in seguito, nelle giornate di Màntica, avrebbero “aperto” la loro opera agli spettatori, attraverso proposte laboratoriali, incontri o prove aperte.

Abbiamo cercato di approfondire le “letture” che sono state proposte dai curatori, chiedendo loro come è stato accolto l’invito di Chiara Guidi e come si è sviluppato il progetto curatoriale. Di seguito i contributi ricevuti – in forma scritta – ad opera di Lucia Amara, Sonia Massai, Sandro Pascucci e Enrico Pitozzi.

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Lucia Amara

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Das Spiel (Il Gioco). Un rito di guarigione di Alessandro Bedosti

Con Alessandro Bedosti c’è una lunghissima frequentazione amicale. All’interno di questo recinto intimo, come in tutti i rapporti di amicizia, si muovono tante cose. Chiara Guidi conosce i modi in cui si sviluppa la nostra relazione di pensiero e per questo ci ha proposto di esseri presenti a Màntica con la stessa modalità. Il dialogo tra me e Alessandro è paritario, nel senso che non ha ruoli definiti a priori (lui l’artista e io il pensatore/teorico) e spesso nasce da esigenze pratiche. Alessandro lavora da anni nella scuola dove insegno Lettere, a Zola Predosa (in provincia di Bologna) e, insieme, abbiamo sviluppato diversi progetti con gli adolescenti, tra cui una Compagnia Teatrale della Scuola, un gruppo di ragazzi che con noi lavora su testi shakespeariani. L’ultimo impegno è stato incentrato su Romeo e Giulietta che imperituramente immortala la condizione dell’adolescente nel rapporto con un adulto non-dialogante e chiuso nei propri protocolli di violenza e imposizione. Gli adolescenti ci pongono domande continue e noi ne facciamo nutrimento del nostro pensiero, cercando di sfuggire agli obiettivi condivisi dalla scuola per ricrearne di nuovi che, poi, danno forma ad altre immagini volutamente spostate in luoghi che vogliamo indagare e che riproponiamo ai ragazzi, anche se non in maniera esplicita. Vige una specie di segreto sui processi sotterranei.
Il dialogo con Alessandro Bedosti si alimenta anche attorno ad un altro nucleo fondamentale, non staccato dalla pedagogia, che è la letteratura. Laddove si crea il vuoto e la sottrazione, luoghi fondamentali della ricerca di Alessandro, il soccorso viene dalla parola letteraria che sostiene e stampella quel possibile scomparimento a cui questo artista spinge con tenacia la sua opera. Per questo l’iscrizione – HO SCELTO IL NULLA – in calce a un quadro descritto ne L’Iguana di Anna Maria Ortese è divenuto per noi un’immagine “curativa”, in un certo qual senso. Ci sono molti libri che hanno “educato” il dialogo tra me e Alessandro. L’Idiota di Dostoevskij è un ormeggio sicuro. Nel caso specifico del lavoro esposto a Màntica, Das Spiel (Il Gioco). Un rito di guarigione, si profila a tratti il Cristo di Holbein, immagine che appare all’Idiota Principe Myskin nella parte centrale del romanzo. Il dipinto raffigura una deposizione adagiata su una tela di due metri di lunghezza e trenta centimetri di altezza: non c’è scampo, non c’è movimento possibile, la fine è una questione di spazi, una cattura ineluttabile. Altri testi letterari di cui ci nutriamo sono i carteggi d’amore tra poeti, come quello tra Rainer Maria Rilke e Lou Salomé o Marina Cvetaeva, tra Paul Celan e Ingeborg Bachman.
Per questo Alessandro ed io abbiamo deciso di non fare una conferenza al pubblico ma di allestire un tavolo sul quale posare questa materia di libri esponendo uno dei luoghi materiali della “nostra cura” e che io ho vegliato durante la permanenza di Alessandro a Màntica. Il pubblico poteva girare attorno o guardare o toccare o, con la lettura, rubare fugacemente uno stralcio. Si tratta di “trovare le parole” – come si dicono Ingeborg Bachman e Paul Celan nel carteggio che li accompagnò tutta la vita.

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Macbeth su Macbeth su Macbeth di Chiara Guidi

Macbeth su Macbeth su Macbeth di Chiara Guidi

Sonia Massai

La mia partecipazione a Màntica è scaturita da una conversazione con Chiara Guidi cominciata nella primavera dell’anno scorso a proposito di Macbeth su Macbeth su Macbeth e poi sviluppata in occasione di un incontro col pubblico dell’Arts and Humanities Festival che si tiene ogni anno al King’s College London in ottobre. Io sono particolarmente affascinata dall’originalità dell’approccio di Macbeth su Macbeth su Macbeth che non esclude, ma anzi rende necessaria, una rilettura attenta del testo Shakespeariano. L’invito a Màntica mi ha consentito di confrontare la mia (ri)lettura dell’opera teatrale e del testo Shakespeariano con le reazioni del pubblico. Le mie domande, mirate a capire cosa avesse suscitato interesse, sorpresa, o stupore, hanno messo in luce la diversità dei “punti d’accesso” all’opera e l’utilità di uno spazio che permetta all’artista, al pubblico, e al critico/curatore di riflettere sui vari livelli di leggibilità dell’opera. Nel momento in cui l’esposizione all’opera diventa occasione per un confronto collettivo, l’interpretazione acquista un valore che va oltre l’ermeneutica poiché trasforma gli spettatori in “comunità interpretative” (Stanley Fish).

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MÀNTICA 2014. Le briciole di Pollicino.
di Sandro Pascucci
Gennaio 2015

Pongo, preliminarmente, una breve riflessione sul (mio) ruolo di curatore, all’interno di una delle sezioni di Màntica 2014 “Stele di Rosetta”. Lo faccio con un esplicito riferimento all’ultimo libro di Giorgio Agamben L’uso dei corpi (Vicenza 2014): “… ciò di cui ci si prende cura è il soggetto stesso delle relazioni di uso con le cose e con gli altri… ciò sembra implicare qualcosa come un circolo… che non conosce soggetto e oggetto, agente e paziente.”

La circolarità dell’incontro tra l’opera di Cage – in contrappunto con i suoni di Bach e Liszt –, la proposta esecutiva compositiva di Fabrizio Ottaviucci (al pianoforte) e Daniele Roccato e il Ludus Gravis Ensemble (ai contrabbassi), l’ascolto ricettivo interpretativo del pubblico (e del curatore) prefigurano uno spazio di comprensione e contemplazione più che dialogico e dialettico, più sincronico che diacronico, più di prossimità che di confronto, più di presenza(e) che di rappresentazione(i).

Daniele Roccato

Daniele Roccato

Ludus Gravis Ensemble

Ludus Gravis Ensemble

Fabrizio Ottaviucci

Fabrizio Ottaviucci

Attraverso Cage – nomen omen –, si apre la gabbia delle convenzioni che spartiscono il campo della creazione tra arti autografiche – la pittura, la poesia, il cinema… – e allografiche – la musica, il teatro, la danza… Così l’esecuzione di una delle pagine del Concerto per Piano e Orchestra (nella versione di 63 fogli mobili per solo pianoforte – lo Steinway gran coda suonato da Ottaviucci nella sala del Conservatorio Maderna (!) ) “eseguibile integralmente o parzialmente in qualsiasi sequenza”; o i Four6 affrontati dai cinque contrabbassisti, ciascuno con il proprio strumento diverso per fattezza e età, assieme al pubblico chiamato ad intervenire per adempiere al dettato dello spartito “per qualsiasi modo di produrre suoni” (nel riverberante salone ottocentesco di Palazzo Ghini): tutto ciò ci riconduce, forse, all’origine autografica di ogni linguaggio artistico (Nelson Goodman), e le scansioni proprie della creazione musicale – la composizione trascritta e codificata e la sua interpretazione – dall’esecutore all’ascoltatore – si riposizionano in uno spazio antigerarchico e antidiacronico, aderendo al suono/i, epifania sensibile dell’esserci, fenomenologia musicale del rapporto io-mondo, del “mio non alibi nell’essere” (Michail Bachtin).

Autografia. Allografia. Omeografia: modulazioni aspettuali e tensive dell’estetica.

Ritorno alla metafora del viaggio (già nel dialogo tra me e Chiara in apertura dell’opuscolo di Màntica 2014), per i molti aspetti significativi che possono riguardare e risuonare inbetwinn l’interpretazione dell’opera d’arte come esperienza estetica. In primo luogo il viaggio presuppone un tragitto, uno spostamento da un punto di partenza all’altro, verso una meta. Meta come approdo sicuro nella misura in cui vi ritroviamo in essa qualcosa che ha a che fare con il nostro luogo di origine (del viaggio). E l’idea di arrivare in un luogo che ci dia sicurezza rinvia ai rischi, agli imprevisti del viaggio, che possono compromettere l’itinerario, fino a portarci a smarrirci. E, infine, il poter raggiungere felicemente la meta che ci siamo dati, implica un sapere, una tecnica, una comune passione.

L’opera d’arte sta all’inizio e alla fine del nostro viaggio perché è essa stessa viaggio; punto di partenza e insieme meta transfigurata attraverso il suo vitale transito ermeneutico; esperienza estetica che è sinonimo di prassi sensibile: “La musica non ha un senso, ma un significato che si svela nel praticarla, nell’usarla… Esperienza, uso, prassi d’autore. E di esecutore. Ma anche, e massimamente, esperienza, uso e prassi di fruitore…, per eccellenza, esperienza collettiva collaborante. Happening” (Edoardo Sanguineti).

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Strata di Maria Donata D'Urso_Foto Laura Arlotti

Strata di Maria Donata D’Urso_Foto Laura Arlotti

Enrico Pitozzi

L’invito da parte di Chiara Guidi è stato per me l’occasione per andare a fondo rispetto ad una direzione che mi appartiene e che ha la forma di un dialogo a più voci, sia con Chiara che con Maria Donata D’Urso, la coreografa da me proposta per Màntica: pensare l’opera secondo una prospettiva aperta, che metta cioè in luce la fitta rete di relazioni che essa instaura con il mondo. Ciò significa tornare – in modo radicale – ad avere una certa sensibilità per le cose impalpabili, che si sottraggono all’economia del commento.
Per fare questo serve un’altra andatura, una condotta nuova, in cui il curatore contribuisce a far emergere – in sintonia con l’artista – il pensiero implicito in ogni opera e che affiora secondo le sue leggi: un pensiero fatto d’immagini, di atmosfere: un pensiero che avvolge.
Per andare in questa direzione è necessario – così si è diramato il progetto curatoriale – condividere con l’artista una sensibilità di visione delle cose, che si esprime anche attraverso una organizzazione comune di momenti laboratorio, in cui l’interno e l’esterno, dell’opera divengono l’oggetto dell’analisi.

È qui che l’opera si fa spazio affettivo capace di trascendere chi l’ha creata. Affiora dal tessuto del mondo per farci vedere in modo nuovo ciò che abbiamo da sempre sotto gli occhi.
Ciò afferma con forza un principio: oltre alla distanza che esiste tra noi (curatori o spettatori poco importa) e l’opera, una distanza vissuta – come la chiama Merleau-Ponty – ci collega alle cose che per noi contano davvero, per le quali abbiamo un affetto che non possiamo spiegare a parole, ma solo circoscriverlo per allusioni, rinvii, ellissi. L’opera parla sempre di noi. E della comunità che in essa si aggrega.
Questa distanza incommensurabile – priva di geometria – testimonia in ogni momento la portata della nostra esistenza, dell’esatto punto che occupiamo nel mondo.
O bagliore improvviso che fa vedere le cose, o il nulla.
Credo sia questa, oggi, la sfida alla quale risponde un curatore.
Credo sia questa, oggi, la sfida che ogni spettatore accoglie.

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Torna all’intervista a Chiara Guidi
Màntica 2014: la leggibilità dell’opera d’arte

a cura di Elena Conti

Màntica 2014: la leggibilità dell’opera d’arte. Intervista a Chiara Guidi

Lo scorso dicembre, si è svolta al Teatro Comandini di Cesena, la 7ª edizione di Màntica. Il festival ideato e diretto da Chiara Guidi / Socìetas Raffaello Sanzio, da sempre fondato sul dialogo serrato tra musica e teatro, si è presentato in una nuova versione: a guidare la scansione delle giornate è stata infatti la necessità dell’ideatrice di restituire allo spettatore il fenomeno artistico in tutta la sua complessità, volgendo lo sguardo verso la creazione di un Osservatorio sperimentale. A questo è corrisposto il coinvolgimento di filosofi, studiosi e critici chiamati da Chiara Guidi a curare un proprio percorso di visione all’interno di Màntica, a fornire una lettura – aperta e in forma dialogica – di un processo di lavoro di un artista ospite. Alla visione degli spettacoli, sono così seguiti momenti di incontro e approfondimento, ma anche percorsi di conoscenza del lavoro dell’interprete attraverso proposte laboratoriali. Quello che segue è il frutto di un incontro con Chiara Guidi, un’intervista in cui si è cercato di approfondire il suo lavoro artistico, ponendo la sua ricerca in stretta connessione con la direzione di Màntica.

Immagine Màntica 2014 L’ultima edizione di Màntica ha visto una svolta importante, è stata cancellata la parola “festival” per assumere invece quella di Osservatorio sperimentale. Qual è stata l’idea fondante di questa settima edizione?
Màntica è nato sette anni fa in relazione a un corso di formazione che feci con sedici persone interessate a una ricerca sulla voce intesa come strumento musicale che portò alla realizzazione del Madrigale appena narrabile. Il corso lo costruii intrecciando la mia ricerca sulla voce con quella di altri artisti e pensatori cercando di creare, intorno agli interrogativi che la voce poneva, un sistema in grado di evidenziare la complessità e l’impossibilità di dare alla voce un significato.
La realizzazione finale del Madrigale chiese la presenza del pubblico e lì nacque l’idea di festival, ossia di un luogo che raccogliesse l’eredità laboratoriale del corso e la mettesse a disposizione del pubblico ancor prima dello spettacolo.
Il festival doveva essere prima di tutto un grande laboratorio per un pubblico chiamato a vedere non solo spettacoli o concerti, ma anche a sperimentare quei processi di lavoro che avevano preceduto i lavori conoscendo “da vicino” l’artista.
Quest’anno è avvenuto un cambiamento.
Se Màntica per sei anni ha creato una relazione intima tra pubblico e opera attraverso la presenza dell’artista, ora il curatore e il critico si collocano in modo prioritario tra opera e pubblico per creare una relazione tra il linguaggio dell’opera e il potere di intendere dello spettatore.
Il potere manifestativo della musica diventa paradigmatico per leggere l’intimità di un’opera. L’anima di Màntica, la musica, deve ispirare lo sguardo critico che non può spiegare, non può illustrare ma può cogliere la forza di quanto viene rappresentato attraverso domande alle quali non si può dare risposta e che, tuttavia, generano conoscenza.
Il pubblico in quanto tale ha una responsabilità critica.
Màntica la chiede con l’aiuto e la guida di un critico.
Tra le edizioni passate e quella di quest’anno c’è una forte continuità ma l’attenzione si sposta completamente sulla capacità del pubblico di osservare e leggere.
Per cui Màntica non è più un festival ma un osservatorio.
Per realizzarlo occorre abituare lo sguardo.
Con esercizi.
Esercizi critici.

Non so cosa accadrà il prossimo anno.
Sogno la creazione di un’accademia stabile, con dei principi che pur regolandone l’esistenza, non cessino di sovvertire l’unicità del giudizio.
Non cerco un unico discorso inglobante, ma nel solco della tradizione mi pare sostanziale, oggi, poter prendere singolarmente posizione. Scegliere.
Occorre fare esercizio di apertura, sovvertimento, dislocamento… in una accademia con 13 proposizioni in cui abituare lo sguardo e l’ascolto a un diverso approccio con la realtà e con il proprio desiderio.
Per farlo occorre uno spazio reale che contenga una tensione. Quella del nostro tempo.
In questa edizione di Màntica ho guidato un laboratorio ispirato agli animali.
Uno, in particolare, mi attrae: l’insetto-capricorno la cui larva, per tre anni, abita il tronco della quercia e vive lo spazio che mangia per cui, crescendo dilata lo spazio in cui vive.
Vorrei concepire in questo modo lo spazio dell’accademia e viverlo in base al movimento che si produce. Vivere lo spazio che mangio ed escludere lo spazio che non mangio.
Entro nell’accademia mettendo in moto il mio desiderio.
Creo lo spazio con la mia presenza. Lo spazio non è affidato a chi mi accoglie e mi guida.
Il mio desiderio forma l’accademia e mi forma.
Agli artisti posti alla guida dell’accademia il compito di disgregare, di aprire, spezzare.
Ogni libro deve essere frantumato e ogni storia deve poter generare mille storie.

Màntica si distingue per il rapporto che instaura tra artista-curatore, curatore-pubblico e artista-pubblico. Si esplicita un dialogo aperto pur nella chiara identificazione che può tracciare la linea del curatore. Come si è sviluppato il lavoro con Sandro Pascucci, Enrico Pitozzi, Simone Menegoi, Giovanni Leghissa, Lucia Amara e Sonia Massai?
L’artista deve tacere. Non deve porsi tra la sua opera e il pubblico.
Per questo ho bisogno di studiosi, curatori, critici.
A loro ho affidato Màntica e ciascuno di loro si è posto di fronte alla questione “come relazionare l’opera e il pubblico”: Simone Menegoi, ad esempio, l’ha messa in scena.
Il teatro si attua nel presente, nel pubblico c’è il presente eppure questo presente va reso inattuale.
Per non restare incastrati in un giudizio che nell’immediatezza porta con sé il peso del cliché e del luogo comune.
La complessità di ogni linguaggio artistico sposta la visione della realtà ed esige uno sforzo che il critico non può semplificare dando delle informazioni, delle spiegazioni che riducono la complessità.
L’osservatorio non può riunire le opere in un unico tempo e renderle omogenee in un unico spazio.
Anche il linguaggio critico deve, ogni volta, conservare con un’invenzione la specificità propria e dell’opera.
Màntica chiede a Sandro Pascucci, Enrico Pitozzi, Simone Menegoi, Giovanni Leghissa, Lucia Amara e Sonia Massai questo sforzo.
Per non rinunciare alla bellezza dell’opera.

Ludus Gravis Ensemble Performance con coreografie di Italo Zuffi / Simone Menegoi Italo Zuffi Strata di Maria Donata D'Urso II - Foto Laura Arlotti Fabrizio Ottaviucci

*alcune immagini da Màntica (clicca per ingrandire)

Màntica ha assunto il titolo Stele di Rosetta e il sottotitolo La leggibilità dell’opera d’arte. Traspare la volontà di dare respiro allo spettatore, al suo ruolo in relazione all’opera. Quest’attenzione è punto centrale anche della sua ricerca: lo scorso anno le è stato conferito il Premio Speciale Ubu per “la pluriennale ricerca […] – si legge nella motivazione – capace di porre sempre nuove domande al mondo del teatro. E per i festival Màntica e Puerilia, la cui concezione si connota come laboratorio e condivisione del proprio processo creativo, in dialogo con differenti artisti e con portatori di altri saperi”. Si annulla ogni possibile confine temporale in cui racchiudere un festival, ma pur nella brevità, Màntica ha un ruolo importante, ovvero quello di divenire luogo esperienziale.
Mi affascina in Shakespeare il suo costante interrogarsi sull’arte mentre la poesia traccia il racconto.
All’interno di un perimetro narrativo, di un confine estetico pone contemporaneamente domande all’uomo e all’arte. Colloca bellezza e orrore vicini sospendendo il giudizio per testimoniare, con l’arte, la ferita. Il dilemma tra bene e male, tra bello e brutto.
E lì creare una tensione che deve rimanere tale, rinnovandosi continuamente per non cedere all’abitudine.
Questa tensione credo sia la forza esperibile dell’arte.
La si può non solo vedere, osservare, ascoltare ma viverla perché ci riguarda.
Tocca ciò che cerchiamo, desideriamo.
Desideriamo?

Il mio lavoro mira costantemente alla creazione di un confine dentro cui collocare il mio desiderio: cercare una voce.
Ogni spazio è, perciò, per me il suono di una voce.
La decifrazione della stele annulla la molteplicità delle voci e lo spazio della stele diventa uno.
Màntica deve porre sempre nuove domande e, per farlo, deve cambiare, sfuggire alla rigidità di una sola interpretazione e assumere le cose della realtà dal loro punto di vista.

Nel corso di Màntica abbiamo avuto l’occasione di assistere a Macbeth su Macbeth su Macbeth. Uno studio per la mano sinistra [leggi la recensione], al quale è seguito l’incontro con Sonia Massai e in cui è stato osservato come dalla frammentarietà del testo lo spettacolo riesca a restituire unità all’opera. Come si è sviluppato il lavoro sulla drammaturgia?

Macbeth su Macbeth su Macbeth - Foto di Luca Del Pia

Macbeth su Macbeth su Macbeth – foto Del Pia

Ho un’attrazione verso questo testo da tantissimo tempo, poi cinque anni fa ho incominciato a leggerlo avvalendomi di più traduzioni. All’inizio ho lavorato intorno a Macbeth con i ragazzi delle scuole superiori di Cesena ma senza raccontare loro la trama; doveva nascere da loro il desiderio di andare a scoprire la storia.
Con il passare del tempo il testo mi si è spezzato tra le mani e alcune frasi si sono ingigantite.
La prima è stata “Nulla è per me tranne ciò che non è” che andava a congiungersi con una frase di Conrad a cui, in quel periodo, pensavo spesso e che diceva più o meno così: quando scrivo devo rendere giustizia alla realtà, mettere nella scrittura anche ciò che non si vede.
Mi capita spesso di sentire che ciò che si vede è spinto da ciò che non è visibile grazie all’esperienza di lavoro avuta con Scott Gibbons nella preparazione dei suoni costruiti per la Tragedia Endogonidia.
Le tracce che avevamo ideato avevano una struttura talmente stratificata che, a seconda dello spazio nel quale venivano suonate, ogni volta cambiavano mettendo in luce sonorità che erano sempre presenti ma che lo spazio rendeva inudibili.
C’è stata una seconda fase di lavoro di Macbeth, nata dall’incontro con gli attori dell’ultimo anno di una scuola di Rennes. In quell’occasione unii Macbeth all’ornitologia.
Eppure tutte le fasi di lavoro di Macbeth non hanno mai cercato il finale.

Ho accumulato pensieri, trascritto azioni, selezionato movimenti finché ho incominciato la produzione vera e propria dello spettacolo con Anna (Molina) e Agnese (Scotti) in uno spazio completamente spoglio. Lì dovevo vedere la traccia nascosta.
Lì dovevo sentire la presenza del fantasma.
Dovevo vedere ciò che non c’è.
Macbeth tradisce, ossia sposta il Re da un’altra parte.
In questa tragedia il Re si sposta continuamente, da una bocca all’altra. Da un corpo all’altro.
Io stessa ho tradito l’opera entrandovi dentro e divorandone – come l’insetto-capricorno – solo una parte.
Come si può pensare di mettere in scena un classico se non riconoscendo che lo si può fare solo in parte?
Per poterlo cercare continuamente.
Entrare in Macbeth è stata un’esperienza che mi ha mutato. E una parte di me si è consumata.
Per questo alla fine metto in scena la mia morte creando un sottile equivoco: rompere l’illusione e far credere che mi sento davvero male. Il reale bussa e l’arte lo accoglie.

Macbeth su Macbeth su Macbeth - Foto di Luca Del Pia

Macbeth su Macbeth su Macbeth – foto Del Pia

In Macbeth vi è un continuo (tutt’altro che impertinente) dialogo con il pubblico: dalle attrici che entrano in scena per nascondersi, fino al richiamo finale di un “noi”. Un modo di portare dentro lo spettatore – anche con le immagini – ma senza alcuna imposizione, appunto allontanando il voi ed evocando un noi.
Macbeth siamo tutti noi. Non uccidiamo il re ma desideriamo e per il desiderio che portiamo compiamo degli spostamenti. Il to make ha una notevole frequenza in questa tragedia: Macbeth è dannato al fare anziché all’essere, ma il fare non ha nome per cui, non potendolo nominare e conoscere si avvicina al suo contrario: non fare. Tra fare e non fare si rinnova ostinatamente l’incontro con le sorelle fatali. Un continuo inizio e una continua fine.
Credo che “Macbeth” ci chieda di stare tra fare e impossibilità del fare, nel vuoto che l’attimo del tra crea.
Il tra è come la piccola macula cieca del nostro occhio.
Lì il giudizio è sospeso e ritorna il caos delle possibilità. Tra agire e non agire, tra bello e brutto, tra bene e male, tra un Re e un altro Re c’è un uomo, noi, Macbeth.
Non solo.
Stare nella macula cieca è la scelta che Macbeth rivolge all’arte oggi: aprire una ferita sapendo di non poterla risanare, per testimoniarla come palpito, come lacerazione.

Nello “spazio” del Macbeth, sono tante le collaborazioni che si sono instaurate…
In quello spazio perdo il mio nome. Voglio perderlo il mio nome. Cercare altri nomi e suddividere con loro il peso di questa ricerca che non può avere una fine. È un atto senza nome

Tornando a Màntica, la leggibilità dell’opera d’arte a cui i curatori assegnano differenti esperienze nel corso di questa edizione, porta anche a delle scelte nei confronti dei soggetti coinvolti – penso ad esempio all’incontro che ha seguito la visione del lavoro di Alessandro Bedosti, rivolto agli adolescenti.
Lo sguardo ha un’età e all’età si addicono certi discorsi.
La potenza della fragilità del lavoro di Alessandro non poteva reggere un discorso adulto.
Lo avrebbe soffocato.
E ha scelto l’apertura dei giovani.
Florenskij, prima di morire, ha scritto una lettera ai suoi figli invitandoli ad avere uno sguardo in grado di cambiare continuamente punto di vista rispetto all’oggetto analizzato.
Sì, occorrono più ottiche. È necessario uno sguardo metrico che metta accenti e isoli le parole per poi entravi dentro.

C’è un ricordo, un’immagine capace di raccontare la storia di questi sette anni di Màntica?
In questi anni Màntica ha ospitato bravi interpreti che mi hanno dato la possibilità di dimenticare Màntica e il pensiero che lo regge.
Ci sono stati momenti di emozione inaspettata. Arriva, passa e va, generando il puro piacere dell’essere.

Intervista a cura di Elena Conti

In seguito all’incontro con Chiara Guidi, Il tamburo di Kattrin ha proseguito la riflessione andando ad approfondire i progetti curatoriali ideati per Màntica 2014. Continua a leggere:I progetti curatoriali di Màntica 2014
I contributi di Lucia Amara, Sonia Massai, Sandro Pascucci e Enrico Pitozzi.