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A Primavera dei Teatri: tra dialettica collettiva, Perrotta e Latini

Roberto Latini - foto di Angelo Maggio

Roberto Latini – foto di Angelo Maggio

C’è crisi, e necessità di rifondarsi. Di fare tabula rasa ricostruendo dal niente. Conservare purezza e pratiche sane; acidificare impurità. Il teatro, dunque, quale strumento di proselitismo. Per coscienze svuotate. Per spolverare un senso critico sotto sabbia. Una riflessione indotta, semplicemente incoraggiata, suggerita o accennata almeno. Se non è atto politico, non è detto non debba avere dignità o ragione d’essere l’esecuzione teatrale. Ma, il contesto attuale, storico, sociale, obbliga a delle prese di posizioni serrate, ferme, necessariamente osmotiche. E se le rivoluzioni nascono individualmente, una moltitudine di singoli, concentrati contemporaneamente sulla stessa rappresentazione (fenomeno), formano e amplificano una comprensione comune, potenzialmente esecutiva.

Nelle rassegne e nei festival, la materia vivida di fruizione asseconda lo scambio, la parola, il dibattito. Non solo tra spettatori ansiosi di commenti a fine scena o turisti in vacanza… Dialettica collettiva, invece, che semina o potrebbe seminare, per futuri raccolti. E cambi direzionali.

A Castrovillari, il festival di Primavera, è un evento speciale. Prima di tutto perché si percepisce la tensione (di volontà) nell’attuare un discorso sul teatro ché non sia esclusivamente panem et circernses. Poi, perché possibile in una terra impossibile. Perché una strana alchimia scandisce i giorni. Un’inconsueta unione empatica. Magari così in maschera da risultare verosimile (il teatro che si estende oltre se stesso); probabilmente ruffiana; sicuramente non disinteressata. Ma c’è. Un bene comune.
Succede a Castrovillari, che dopo 3 giorni di festival sembra siano passate settimane. Succede che una cittadina di provincia si emancipi e diventi un borgo europeo. Che un gruppo di studenti universitari alimentino la passione nel volere cibarsi di fatti teatrali ascoltando in un bistrot le parole di un critico, Giulio Baffi, la cui vita è scorsa tra palco e realtà. Succede che nelle segrete del Castello Aragonese, prigioni fino a vent’anni dopo l’Unità d’Italia, un musicista, Gianfranco De Franco (esecutore e compositore delle musiche di Dissonorata e La Borto), materializzi le percezioni degli uditori e li porti a compiere viaggi sensoriali. E l’umido dei sotterranei sembra diffondere tanfo di carni putride e angosciosi respiri.

Perrotta - foto di Angelo Maggio

Perrotta – foto di Angelo Maggio

Giovedì, terzo giorno di festival, giorno di prime. Mario Perrotta con Un bès. Antonio Ligabue in prima serata al teatro Sybaris e Roberto Latini in seconda nella Sala 14 con Noosfera Museum.
Il dualismo dell’artista-uomo nel lavoro inedito di Perrotta, di chi sa di “meritare un bacio, da artista, e elemosinarlo da pazzo”. Un’indagine in terra di confine (umana e cerebrale), in cosa è dentro e fuori; riflessione approfondita sulla libertà d’agire per proprio dettame e i condizionamenti di etichette altrui.
Perrotta arriva sul palco dalla platea, mendicando affetto, comprensione, gesti d’umanità. Il suo sguardo assente, stralunato, svela il timore (probabilmente) della prova davanti un pubblico “attento”. Davanti a un teatro gremito e una trentina di spettatori concentrati più sull’attesa della sbavatura, della stonatura, anziché mettere occhi e sensi sulla scena liberandosi da sovrastrutture di ruolo e mestiere…
Trapela l’emotività che non è solo del personaggio. Quella è calcata in maniera naturalistica, e tramite il linguaggio teatrale, metaforico, intuitivo, percepibile, s’incarna e si fa veicolo tra il pubblico al buio. Una dialettica ricercata, sperimentata a commistioni di poetiche inconsuete, codificate ma originali. Tre pannelli a grate, dei finestroni ingabbiati, come unico elemento scenografico che diventano, nel retro, lavagne cartacee in cui Perrotta tratteggia a carboncino. E rappresenta paesaggi (ambientazioni), personaggi, visioni d’una mente diversamente abile. Ricerca e sperimentazione. Padronanza attoriale e fisicità versatile a prodursi in elemento scenico. Assenza di sintesi e verticalismo pronunciato. Consuetudine dei lavori scritti e interpretati, la regia è postuma alle esigenze di attori e costruzione di scene. Che nel troncone finale dello spettacolo, assumono forme più familiari di narrazione e dialoghi con doppi indivisibili. Un leggero riverbero di caratterizzazione eguale a se stesso macchia leggermente la prova: l’incertezza della prima, il timore precedentemente accennato. Un moderno innestato a trame consolidate, emerso con la spettacolarizzazione del prodotto visivo. Il palco diventa camera oscura, in alcune scene, dove sono proiettate, a luce fantasmagorica, paesaggi, disegni, volti. Fantasmagorie, come attorno a uno scemo del villaggio. Artista. Bandito e ammirato. In eterno conflitto tra il fuori e il dentro. Ma senza maschere d’ordinanza. Se ne evince non un’attenzione epica su un accaduto, una biografia, nemmeno un tentativo catartico nell’osservare qualcosa per cui provare pietà e espiare. Piuttosto uno specchiarsi riaffiorando in superficie, da noi, da dentro, quella parte di follia stipata accuratamente sottovuoto.

Roberto Latini - foto di Angelo Maggio

Roberto Latini – foto di Angelo Maggio

Latini è un poeta del gesto. Scevro dal lirismo. Padrone in scena, del suo corpo e della sua voce. Padrone non egoista né autoreferenziale. Ma pasto per pubblico e oggetto di voyeurismo impalpabile. Di trasmissioni non immediate. Su cui tornare, con la riflessione, da diverse angolazioni di vista, di analisi. Il teatro che apre la mente. Di un linguaggio non intellegibile, diretto o esplicativo. Metaforico, ermetico, simbolico, immaginifico. Dopo Noosfera Lucignolo e Noosfera Titanic, il terzo movimento del progetto, Noosfera Museum, si propone suggerimento della semantica testuale, come esposizione di mutazioni fisiche e essenziali effetto del «disagio dell’attesa di un futuro che si è dimesso dalla nostre aspirazioni». Voci da rifugi, da corazze (o prigioni) di solitudini. In uno spazio (d’azione scenica) ipertecnologico e naturale (luci, effetti sonori, fumo artificiale, alberi e terra, sangue, vino), Latini incarna la gelatina umana ammassata come in una fossa comune di anonimati, di dispersione. Ambendo al calco della bellezza tenuta in serbo «dalla platea che l’ha custodita». Cinquanta minuti di mutismi materializzati visivamente; l’intromissione della parola sgranata dagli amplificatori (in fuori campo) poi modulata dalle corde vocali dell’attore. Senza troppo cenno d’impostazione, cruda, dal profondo, precisa e scandita, confidenziale. Museum, esposizione di corpi e interiorità in gabbia e in processione sistematica. Contrapposizione a sintassi dogmatizzata. Urgenza sensibile tradotta in linguaggi altri, liberi. Liberi dal confezionamento per cerimonie, liberi dagli unici sguardi possibili, da prospettive banali. Liberi come dovremmo essere dalla standardizzazione di ambizioni, volontà, atteggiamenti. Per partiture prese a sacrificio attoriale dell’espressione accurata. Per tensione teatrale tenuta chirurgicamente a ritmo costante e un talento, cibo per uditori non ipocriti.

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari 

Emilio Nigro

 

Al via Primavera dei Teatri: tra Malosti e Maniaci d’Amore

Dalla XIV edizione del Festival Primavera dei Teatri, il nostro corrispondente Emilio Nigro ci manderà alcune pagine di diario, raccontandoci l’atmosfera che distingue il festival calabro diretto da Scena Verticale e alcuni spettacoli che lo animano.

Al via Primavera: tra Malosti e Maniaci d’Amore

castrovillariDopo del tempo al chiuso – una lunga stagione rigida piovosa e scura – riprendere la strada comporta una sorpresa continua. Come vedere per la prima volta le cose del mondo. Con lo stupore di un bambino curioso di tutto e cosciente di nulla. Le percezioni si dilatano, i sensi s’affinano; gesti, voci, volti, s’amplificano. Impressioni continue. Un groppo di ginestre su un colle sembra un’immagine dipinta. Un quartiere, medievale, che dice di dominazioni aragonesi, fatto e rifatto per giorni, mesi, anni, svela un dettaglio inedito, uno scorcio stucchevole, un dinamismo esotico. Un baretto d’un vicolo malandrino, sgrauso, con brutti cerri e l’atmosfera truce, assume contorni affascinanti. Suggestivi. Delle suggestioni che si avvertono nelle periferie criminali. Lo strano fascino del pericolo…

Bentornata Primavera. La fioritura è di stagione. L’habitat quello di sempre. A cui però non ci si abitua mai. E se ne ha sete e fame, quando tarda. Qui, in terra di Calabria, in una zona conservatasi testimonianza borbonica, tra le più intatte antropologicamente. Tra il Pollino e l’urbanizzazione del grosso centro di provincia, costumanze salvaguardate e innesti sociali digeriti appena. Dove sorrisi e maschere d’ordinanza, di convenzione, si acutizzano a un tale livello di finzione da sembrare sinceri. Dove si è poveri economicamente e culturalmente, arretrati e pieni di contraddizioni, ma ricchi d’integrità intellettiva e morale, di spirito, di senso, d’umanità. Quella ricchezza che il teatro dovrebbe diffondere, nelle varie trame in cui si dipana. Arrivando in sordina o di prepotenza, per metafora o realismo estremo. Una via di comunicazione ambigua, non necessariamente immediata, chiara, intellegibile. In ogni caso viva, senza possibilità di correzione subitanea, senza possibilità di replay. Un’azione collettiva. Che può diventare corale livellando comprensione e messaggio, ascolto e eseguito, gesto e visualizzato. Un gioco reciproco. Uno scambio diseguale ma uniforme. Incubatrice di emozioni.

foto di Angelo Maggio

foto di Angelo Maggio

Dovrebbe essere emozionante il teatro che vale. Al di là delle classificazioni o nomenclature di genere, tecnica, critica e resoconti di significato. E spiegare perché uno spettacolo lo è e un altro no. Facile a dirsi…
Emozionante lo è stato Lo stupro di Lucrezia di Valter Malosti. Shakespeare. La parola che incanta. L’incisività del verso che descrive moti, situazioni, congetture, a rimando, per metafora o allegoria, inarrivabile. E stupisce – dello stupore di un bimbo curioso di tutto e cosciente di nulla – da creare ipnosi.
Peccato che gli attori non sono stati sempre all’altezza, durante l’ora e mezza di spettacolo, di dare giusta grazia a questa dialettica celeste. Comprensibile, tuttavia, considerando la mole di lavoro fisico a cui sono sottoposti. Per vivificare lo stupro della moglie di Collatino, Lucrezia, l’allettante, la casta, la fedele. Una violenza di cui i due coniugi sono colpevoli, l’uno per aver fatto venire l’acquolina in bocca all’erotomane confidando virtù e virtuosismi dell’amata, l’altra rea di bellezza tentatrice. Giustificazioni per la superbia di Tarquinio carnefice e simbolo della cecità effetto della libidine, della presunzione indotta dal potere, dell’animalità dell’essere governati dall’istinto. Emblema primordiale, emblema del potere (il popolo romano insorge contro la monarchia portando il vessillo del suicidio di Lucrezia). E Lucrezia è vittima predestinata, ciò che in fenomenologia è indicato come movente, e nelle disquisizioni filosofiche astratte come episodio necessario al compimento del fato. Però Lucrezia è una donna. Una donna stuprata. Il palco diventa megafono del dolore. Dell’onore perduto. Della devastazione fisica e mentale. Malosti lo trasforma in un vuoto d’anima, con un parterre di luci a trasmettere (sensibilmente) un groviglio di angoscia e orrore, un duello di corpi nudi (padrone e sottoposto) sequenziale e crudo – l’asessualità, la mancanza di percezioni sensuali all’assistere a nudità sottoposte a violenza – un’estetica carica di semiotica audiovisiva e innesto di feticci contemporanei. Con il risultato, però, di non avere convinto il pubblico, poco soddisfatto da qualcosa ritenuta (ormai) di repertorio, di consumo, di codificabile e catalogabile. L’alterità del frigo, le postazioni microfonate, l’amplesso esplicito. Teatro moderno sintetizza un evolversi di tecniche o una ricerca raffinata nell’indagine della realtà, delle fonti, dell’eredità drammaturgica e teatrale?

foto di Angelo Maggio

foto di Angelo Maggio

Fertile e prorompente l’impronta registica allo spettacolo: fedeltà al verbo Scespiriano e costruzione sulle meccaniche attoriali, sul rappresentare altro da ciò che si vede e l’occhio legge a primo assorbimento, sul disegno visivo d’arte, sull’impostazione vocale adottata per il narratore. Umorale la prova d’attore, flebili nell’ attacco – probabilmente destabilizzati dall’ “ansia da prestazione” – più padroni nella seconda parte, con un punto a favore di Alice Spisa, sottotono Jacopo Squizzato, immaturo. Complessivamente, il suffragio del pubblico, è discorde. Per il rigore di movimenti troppo precisi, per un calo di climax delle scene successive all’amplesso violento, per un ipnotismo testuale distratto da inefficaci trasposti vocali; Per un disegno scenografico da cornice, poco sfruttato nella speculazione totale dello spazio; Spettacolo emozionante, avvertito, sudato, ma ancora distante, plastico.

Di diversa pasta lo spettacolo in seconda serata. Nella location inedita del Castello Aragonese. Il primo, si è visto al Teatro Sibarys.

foto di Angelo Maggio

foto di Angelo Maggio

Fresca la sera incorniciata dallo scenario naturale del Castello. Muri e facciate lasciate all’identità austera del passaggio del tempo. Fresca l’esecuzione sul palco de Il nostro amore schifo del duo Maniaci d’Amore (Francesco D’amore, Luciana Maniàci). Meridionali approdati al teatro da strade di formazione altre (Scuola Holde – Torino) per cui evidente il tratto letterario nella partitura drammaturgica e l’intenzione scenica di veicolare il testo, la trovata prosaica, il gioco di parole. Perfetta dizione lui, naturalistica lei, con l’inflessione messinese e l’apertura vocale negli innumerevoli “per sempre” reiterati a totem di caratterizzazione. I “per sempre” di quell’amore pensato prima che vissuto. Adolescenziale. Intollerante nei confronti del qui e ora universale, matrice del lineare funzionamento delle manifestazioni vitali. Cliché di coppia, non stagionata per “verginità” anagrafica, ma mossa da normative di codificazione comune, dogmatica. Come s’avesse un libretto d’istruzioni per movimenti di sentimento. E fuori dai resoconti concettuali, il lavoro dei due – un frutto verde con pezzetti di rossa maturità – convince per la frizzantezza dell’approccio e della dimestichezza con le pratiche di messa in scena. Per la padronanza nell’intervenire chirurgicamente con la sicurezza del professionista, nonostante la poca esperienza. E le strutture troppo in vista (quelle di pianificazione, le idee adottate nella costruzione, gli ingranaggi dialogici) come in un cantiere con uno scheletro d’edificio, il lavoro attoriale ingenuo e semplicistico, l’autenticità spinta all’eccesso, sono piccoli nei su pelle candida, setosa. Stupore per i coup de theatre (ripetuti) nel finale. Intelligenti, di uno spettacolo intelligente.

Dal Festival Primavera dei Teatri, Castrovillari

Emilio Nigro