Michele Altamura

Le ragioni di un mestiere / Intervista VQM

I Vico Quarto Mazzini insieme a Paola AielloNatalie Norma Fella sono in scena, da febbraio, con il loro Sei personaggi in cerca d’autore. Lo spettacolo ha debuttato al Teatro dell’Orologio di Roma, dove i VQM ci hanno concesso questa intervista, e l’11 aprile sarà al Teatro Kismet Opera di Bari (che lo ha coprodotto). Michele Altamura, Nicola Borghesi, Riccardo Lanzarone e Gabriele Paolocà si sono incontrati nel 2007 alla Civica Accademia d’Arte drammatica “Nico Pepe” di Udine e hanno intrapreso insieme un percorso di ricerca che li ha portati a produrrre Diss(è)nten (2010), Il sogno degli artigiani (2011), Boheme! (2013) e Amleto FX (2014). Dal 19 al 30 ottobre li abbiamo visti a Bologna, in veste di organizzatori del Festival 2030 (leggi l’approfondimento).
Nella loro messa in scena del testo pirandelliano interrogano l’autore e i suoi personaggi come fossero i protagonisti di un grande classico, attualizzando gli stati esistenziali dell’artista e ricercando tra le righe della pièce le ragioni di un mestiere e le spinte di una passione. Ad majora!

La prima domanda ne comprende due: che rapporto avete con il teatro di testo e perché avete scelto di mettere in scena un testo di Pirandello?
Gabriele Paolocà La sfida era affrontare un testo che non fosse nostro. È la prima volta che lavoriamo su qualcosa che non abbiamo scritto noi, anche se l’abbiamo resa nostra. La scelta di Pirandello nasce dalla volontà di lavorare su un classico italiano, un nostro autore, come si fa con Cechov e Shakespeare da quasi un secolo e trovando la libertà di prendere un testo, frantumarlo e renderlo strumento della nostra poetica. Pirandello è sempre un autore ostico, difficile, è impossibile riuscire a districarsi tra le sue trame.

Foto di Manuela Giusto

Foto di Manuela Giusto

Michele Altamura L’idea è nata al Teatro dell’Orologio, durante le repliche di Boheme! a marzo 2014. Pensavamo allo spettacolo successivo, volevamo lavorare su un classico e Fabio Morgan, il direttore del teatro, ci ha suggerito di lavorare su un autore con cui avessimo un rapporto di amore e odio, che, fondamentalmente, non ci piacesse. Secondo lui, come poetica di compagnia, se avessimo lavorato su testi e autori di cui siamo appassionati avremmo rischiato di essere compiacenti; lavorando, invece, con degli autori scomodi, avremmo tirato fuori il meglio, saremmo diventati più “cattivi”, non avremmo concesso nessuno sconto. Da quel momento, ci siamo chiesti quale Pirandello fare e abbiamo scelto il suo testo più famoso: Sei personaggi in cerca d’autore.
Rispetto al rapporto con il teatro di testo, sia con i nostri precedenti lavori – Diss(è)nten e Boheme! si fondano comunque su una drammaturgia di parola –, che nei lavori con altri artisti, da soli o in gruppo, ci è spesso capitato di affrontare testi: Gabriele ha lavorato con Le Belle Bandiere, io e Riccardo, e poi anche Gabriele, con Michele Sinisi. Dall’altra parte, però, cerchiamo sempre una deriva verso l’immagine, anche per creare un conflitto tra questi due elementi che poi si sintetizzi sulla scena.

Gabriele Paolocà È un trand divertente che ci sta dando sempre più gusto. Ultimamente, ho fatto un lavoro in solitaria sull’Amleto. Era una cosa che volevo fare da tempo e che consisteva in una destrutturazione totale del testo per parlare di me accanto ad Amleto. Nel caso dei Sei personaggi, più leggevo il testo meno sentivo quella libertà che mi dava Shakespeare, ma, forte di questa esperienza del 2014, mi sono detto: perché no?!

Come avete lavorato per questo spettacolo?
Gabriele Paolocà Siamo stati spudorati nell’ignorare tutto il carico che porta Pirandello, anche forti della lettura di molte critiche che parlavano dei Sei personaggi come di un’opera che racchiudeva tutto il pensiero pirandelliano. I critici del tempo, che amavano molto l’autore, gli rinfacciavano il fatto che avesse messo un capolavoro in mano a una storia senza un forte appeal. Abbiamo deciso di affrontare Piradello mettendoci dentro quello che amavamo. Mi appassiona Uno, nessuno e centomila e, in generale, l’evoluzione che Pirandello fa fare ai suoi protagonisti. Quindi, abbiamo preso il capocomico e gli abbiamo fatto fare un processo che assomigliasse a quello di Vitangelo Moscarda, attraverso questo suo essere libero che lo fa diventare il primo prigioniero di se stesso. Da questo ragionamento è scaturita una riflessione profondissima, almeno per me, sul mio mestiere. Il viaggio è partito dalla frase che la figliastra dice del capocomico: “per tentarlo, tante volte, nella malinconia di quel suo scrittojo, all’ora del crepuscolo, quand’egli, abbandonato su una poltrona, non sapeva risolversi a girar la chiavetta della luce e lasciava che l’ombra gl’invadesse la stanza e che quell’ombra brulicasse di noi, che andavamo a tentarlo…”. Da questa battuta, sono apparsi tutti i concetti pirandelliani, soprattutto quello di un’illusione più vera della realtà. La domanda che mi sono fatto è: e se questa illusione che ti sta portando a compiere i passi che compi ogni giorno ti stia fregando? Da quel momento, è partito il gioco attraverso il quale abbiamo trovato le fila di questo spettacolo. Così, ad esempio, il fatto che non avessimo i due giovinetti per il ruolo dei bambini è diventata una forza e non un limite. Quest’uomo disperato che decide di smettere di fare teatro, ma che non riesce a smettere di pensare al teatro, che incontra questi personaggi che gli chiedono di continuare a farlo e gli fanno capire che la loro è una richiesta totale, procede, durante la storia, nel tentativo di riempire un vuoto. Nel finale, però, ritorniamo all’ambiguità che è propria del finale pirandelliano. La cosa bella è che la domanda non è se il giovinetto sia morto o meno, ma se l’autore si ammazzi o meno.

Foto di Manuela Giusto

Foto di Manuela Giusto

Michele Altamura Nella creazione, in tanti momenti, abbiamo, secondo me, autorialmente, servito il testo. Ad esempio, tutta la parte in cui i personaggi si indicano segue alla lettera il testo pirandelliano.

Gabriele Paolocà Tutto lo spettacolo è costruito nell’ottica del processo creativo che vive l’autore. Ma era Pirandello ed è di una tenerezza infinita il fatto che lui sentisse profondamente di raccontare male la storia che lo ossessionava. Noi gli abbiamo solo dato retta.

Michele Atamura C’è una recensione di Artaud ai Sei personaggi in cui lui dà del genio a Pirandello e gli dice che chi non capisce questo testo, non capisce niente di teatro. Noi abbiamo assecondato l’autore fino alle conseguenze più estreme e, nostro malgrado, lui ha resistito, come sempre accade con i grandi testi. Mi è sempre piaciuto il fatto che “tradurre” e “tradire” siano due parole che hanno la stessa radice: per tradurre forse bisogna tradire. Secondo me, è una chiave di lettura importante per il teatro di tutti i tempi. Quello che per Pirandello era irrappresentabile, oggi è superato, quello che per lui era osceno, per noi è banale.

Nei vostri precedenti spettacoli, avete fatto anche delle regie collettive. Come funziona una regia collettiva e perché per i vostri Sei Personaggi avete scelto la regia individuale di Gabriele Paolocà?
Riccardo Lanzarone Non sappiamo come funziona una regia collettiva universalmente. La cosa interessante del nostro gruppo è che, all’inizio di un lavoro, ognuno di noi parte da un approccio diverso. Magari, uno partirebbe dall’immagine, uno dal testo, uno dal corpo. La prima cosa che abbiamo provato a fare, sia con Diss(è)nten che con Boheme!, è stata fare un passo indietro rispetto alla prima idea. Con Diss(è)nten il tema di partenza era la politica, la violazione della privacy – erano gli anni del berlusconismo –, l’esigenza di raccontare il nostro contesto. Trovato il macro-tema, ognuno di noi ha proposto una modalità di lavoro e il testo ci ha aiutato in corso d’opera. All’inizio volevamo fare una cosa particolare: Diss(è)nten doveva essere parte de La trilogia dell’apatia. Il primo studio era sulla politica, il secondo sulla religione, il terzo sulla società. Poi, Gabriele ha scritto il testo di Diss(è)nten e abbiamo cominciato a elaborarne più versioni, cambiandolo continuamente, finché non è arrivato, dopo almeno quattro repliche, il testo finale. In un caso, una proposta scenica suggeriva qualcosa a Gabriele, in un altro caso era la scrittura di Gabriele a suggerire qualcosa a noi.

Gabriele Paolocà La regia collettiva è un’autogestione condivisa e noi stiamo imparando attraverso questa autogestione anarchica e senza maestri. Quest’autogestione collettiva ha voluto che le nostre peculiarità diventassero i nostri punti di forza. Lavorando su questi punti di forza sono emerse alcune singolarità. Quindi, ad esempio, per i Sei personaggi io ho espresso la volontà di fare la regia. Pensavo stasera, mentre facevamo lo spettacolo, a quanto le parti più personali che fa Riccardo, che è il caratterista in questo caso, siano esattamente l’essenza di quello che Riccardo stesso ha portato a questa compagnia. Il lavoro che fa Michele sulla recitazione è quello che ha sempre voluto fare. Il lavoro che io adesso, per la prima volta, faccio da fuori è veramente quello che ho sempre voluto fare.

Foto di Manuela Giusto

Foto di Manuela Giusto

Quindi, è un’autogestione che ricerca e mette a frutto le potenzialità individuali?
Riccardo Lanzarone Esattamente. Anche perché la piccola differenza è stata che anche negli spettacoli precedenti ognuno di noi poteva stare sulla scena ma esercitando, sempre, uno sguardo anche esterno. In questo modo, non andavamo mai veramente a fondo e ci mettevamo molto più tempo. Con i Sei personaggi, in un mese di prove, è stato, per certi versi, molto più semplice. Abbiamo discusso insieme molte delle scelte ma, poi, Gabriele, da fuori, ha avuto sempre l’ultima parola.

Gabriele Paolocà Il Teatro Kismet ci ha concesso questa possibilità. Io, ad esempio, ho sempre voluto essere un light designer e, con questo spettacolo, ho avuto la possibilità di giocare con la mia passione. Siamo figli della nostra generazione, sappiamo fare un po’ di tutto, anche se noi siamo attori…

Infatti, volevo capire questo: come vi muovete tra tutte le funzioni di cui mi parlate e che ricoprite?
Riccardo Lanzarone Noi siamo attori, tutto il resto è stato fatto per esigenza, ma cercando anche il piacere del fare le luci, del dirigere, eccetera.

Che tipo di formazione offre la “Civica Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe” che avete frequentato e che, ultimamente, sta sfornando una serie di artisti che girano molto sulla scena nazionale?
Paola Aiello Durante il primo anno, ci si pone come obiettivo quello di destrutturare i clichés fisici, verbali, il modo di porre la parola e il corpo, e si lavora sull’improvvisazione a tema, oltre che sul gruppo e sull’ascolto. Il secondo anno è dedicato alla Commedia dell’Arte e ha come scopo sia quello di lavorare in gruppo – per questo, probabilmente, escono diversi gruppi dalla scuola – che di potenziare l’ascolto dell’energia comune. Il terzo anno si articola attraverso seminari più o meno lunghi. Il percorso triennale permette di abituarsi a reagire ad approcci molto diversi. È una preparazione un po’ schizofrenica, ma completa.

Riccardo Lanzarone Infatti, è una scuola che prepara artisti, fa lavorare molto in autonomia, lascia tanto tempo per provare. Inoltre, si fanno quelle che vengono chiamate Soireés, cioè delle serate in cui i singoli studenti, da soli o in gruppo, possono decidere cosa presentare al pubblico occupandosi della regia, della scelta del testo, eccetera.

Paola Aiello Sono anche occasioni per mettere a frutto tutti gli insegnamenti appresi durante il giorno e metterli al servizio di una ricerca personale, per sperimentarsi come autore o regista. È uno spazio prezioso che tante accademie non hanno ed è un modo per trovare delle affinità con altri colleghi. Un altro aspetto importante della “Nico Pepe” – e lo dico da pigra – è che è strutturata con un regime un po’ militare, per gli orari e per l’impostazione di alcuni rapporti, e questo riesce a stimolare l’anima disciplinata che c’è in ognuno di noi e insegna a riconoscere quello che si fa come un lavoro che ha bisogno di essere trattato con disciplina.

Michele Altamura Claudio (de Maglio, ndr) – il direttore –, vedendo gli studenti esausti, dice sempre che solo quando si tocca il fondo delle proprie energie si trova un’energia nuova, una qualità diversa.

Volevo chiedere a voi, ragazze, che non fate parte dei Vico Quarto Mazzini, come ha funzionato il vostro coinvolgimento nello spettacolo.
Natalie Norma Fella Abbiamo fatto tutti la stessa scuola, anche se loro tre, non Nicola (Borghesi, ndr), erano dello stesso anno. Ci siamo incrociati, ci siamo visti lavorare, abbiamo assistito a queste Soirées che erano delle occasioni per conoscersi, e ci siamo tenuti d’occhio, prima, e in contatto, poi. Il rapporto che c’è tra tutti noi, a livello personale, è molto forte. Il sostegno ai progetti di ciascuno di noi, anche al di fuori dell’accademia, è sempre stato molto attivo.

Foto di Manuela Giusto

Foto di Manuela Giusto

Riccardo Lanzarone La cosa bella è incontrare le persone in un periodo di formazione. A ciascuno di noi è capitato di dire che gli sarebbe piaciuto fare un lavoro con gli altri. Per la prima volta, questo è stato possibile, il sostegno del Teatro Kismet ci ha permesso di coinvolgere delle persone con cui avevamo un feeling.

Michele Altamura A livello politico, non poetico, ci siamo spesso interrogati sulla possibilità di chiamare delle persone, ma, non potendo garantire niente a nessuno, alla fine, abbiamo sempre rinunciato. Paola e Natalie scommettono con noi, però a partire da una base che ci fornisce qualche garanzia.

Riccardo Lanzarone Per la prima volta, abbiamo lavorato in condizioni umane, in un teatro. Abbiamo provato Boheme! in un luogo in cui non potevamo entrare prima delle sei di pomeriggio, quindi provavamo fino alle tre di notte. Abbiamo provato Diss(è)nten in una soffitta impolverata, con i giubbotti e i cappelli di lana. Nel caso dei Sei personaggi abbiamo lavorato in delle condizioni normali.

Come siete arrivati al Teatro Kismet?
Michele Altamura Siamo arrivati in Puglia vincendo un bando regionale nel 2010. Stavamo producendo Diss(è)nten e abbiamo cominciato a interfacciarci con le realtà anche più grandi di noi che esistono nella regione. Da pugliese e barese, il Kismet è stato il luogo dove ho iniziato a vedere il teatro, dove ho visto per la prima volta Emma Dante, Castellucci e tanti altri. All’epoca, avevamo ventiquattro, venticinque anni, con la nostra umiltà siamo andati dalla direttrice artistica, Teresa Ludovico, e le abbiamo chiesto di guardare i risultati del nostro lavoro. Lei, dopo un po’ di tempo, li ha visti e ci ha detto che ci avrebbe dato una possibilità nella sala piccola, in seconda serata, a fine stagione. È andata molto bene, il pubblico è stato molto contento. L’anno dopo hanno ospitato il Boheme! Al Kismet siamo arrivati così: in punta di piedi, proponendo uno spettacolo, e poi, pian piano, costruendo dei rapporti, non solo professionali ma anche umani con Teresa, ma anche con il Presidente (Augusto Masiello, ndr) e con il Direttore amministrativo (Vincenzo Cipriano, ndr).

Riccardo Lanzarone È come se loro fossero i testimoni dei nostri passi. Quando siamo arrivati in Puglia eravamo un po’ spaesati, non sapevamo cosa fare, e poi, a poco a poco, loro hanno assistito a tutte le cose che abbiamo fatto.

Paola Aiello Quello che si vede molto chiaramente da fuori è che, da parte del Kismet, della direzione artistica, c’è una fiducia senza necessità di sorveglianza, una fiducia non solo dichiarata ma quotidiana. È una cosa da strillare a voce alta perché è una cosa che poi paga.

Chi sono i vostri maestri?
Michele Altamura Romeo Castellucci per noi è molto importante. Sappiamo che non arriveremo mai a fare il suo tipo di teatro, ma la sua poetica è molto presente.

Gabriele Paolocà Io vado da Shakespeare a Aphex Twin.

Michele Altamura De Berardinis – che ha preso i classici e li ha rivoltati completamente, centrandoli sull’attore – e Carmelo Bene.

Riccardo Lanzarone Per me: Castellucci e De Berardinis.

Natalie Norma Fella Per me, Nina Simone.

Paola Aiello Gianni Rodari.

A cura di Nicoletta Lupia

La fine dell’epoché: i VicoQuartoMazzini e il Festival 20 30

Sul Festival

“Ai miei compagni di questa sera auguro, come ogni sera, di andare in scena senza paura”. Così Nicola Borghesi dà voce ai VicoQuartoMazzini (VQM), organizzatori del Festival 20 30 e introduce i colleghi che reciteranno quella sera. Pronuncia la frase a effetto con un senso lontanamente drammatico ma profondamente autoironico. Viene da chiedersi, e lui lo sa: paura di che? Del pubblico? Della critica? Del futuro!
All’origine della rasssegna, che si è svolta a Bologna dal 19 al 30 novembre, ci sono una serie di domande: “Se molti giovani non studiano e non lavorano, cosa fanno? Come è stato trasformato dalla disoccupazione dilagante l’immaginario di una generazione? Che impressione fa studiare nella consapevolezza che è probabile che servirà a poco? Di chi pensiamo che sia la colpa? Come stiamo veramente? Chi saranno i 20 30 nel 2030?”. Il festival si è servito della categoria dei giovani e, invece di allargarla, come succede in questa nostra spesso inospitale Italia, l’ha circoscritta, definita, le ha attribuito dei complementi, le ha fatto fare delle scelte, l’ha fatta lavorare, con entusiasmo, senza quella paura a cui alludeva uno dei curatori ogni sera e senza cedere alla frustrazione della difficoltà che spesso può colpire i giovani, instillando in loro un senso di insoddisfazione improduttivo e castrante.

Festival 20 30

Festival 20 30

Quattro spettacoli, quattro laboratori, quattro esiti, quattro compagnie – Generazione Disagio, Chiara Stoppa, Maniaci D’Amore e gli stessi VQM – e moltissimi ragazzi iscritti. “Tutto scandalosamente GRATIS”, recita il sottotitolo.
La compagnia organizzatrice ha ricevuto un finanziamento dalla Fondazione Del Monte e, con il sostegno dell’Associazione tutte per l’Italia, in un anno è riuscita a mettere in piedi questo piccolo/grande contenitore che, ogni sera, ha visto il tutto esaurito con un pubblico di giovanissimi, meno giovani e operatori.
Quattro compagnie, si diceva, scelte in base ad alcuni criteri semplici: la visione di video integrali, la data di nascita, la tematica vicina a quella del Festival, una sensazione di prossimità, nella differenza, con i colleghi. E la possibilità di pagarle.
In una strana Bologna apparentemente distratta, disattenta e forse disillusa, i VQM raccolgono consensi inattesi e si vedono premiati da una replica ulteriore, richiesta dalla Fondazione, del loro spettacolo – l’ultimo in programma –, che fa sforare di un giorno la rassegna. La coda fuori dall’Oratorio San Filippo Neri di Via Manzoni, ad ogni appuntamento, è forse il premio più grande, certamente il più evidente, per questi giovani professionisti che iniziano già a pensare a futuri possibili, declinazioni ulteriori, allargamenti progettuali. Un po’ organizzatori, un po’ artisti, Michele Altamura, Nicola Borghesi, Riccardo Lanzarone e Gabriele Paolocà hanno incontrato un indubitabile favore del pubblico – in parte costituito dai laboratorandi – grazie alla loro capacità comunicativa e relazionale, ai contatti diretti con alcuni amici preziosi – Quit the doner e Lo Stato Sociale, entrambi protagonisti dell’ultimo appuntamento domenicale che si è fatto sintesi dell’intero festival –, alla gratuità degli eventi, alla voglia di fare.Oratorio San Filippo Neri
Certo, il Festival 20 30 è stato un bel contenitore, i VQM hanno dimostrato capacità e competenze nell’organizzarlo e si sono fatti carico di una discreta dose di rischio, considerando l’istituzione finanziatrice, il contesto bolognese ricco di stagioni diverse e lo spazio teatralmente poco ospitale, anche se molto bello. L’offerta è stata eterogenea, spaccato di una generazione che sceglie di non sospendere il pensiero, ma anche di non rimanerne prigioniera e che non taglia i ponti con il passato, ma riprende il Verbo del Padre – la parola, negli spettacoli, è stata quasi sempre un appoggio, una base forte e presente –, problematizzandolo. Le domande alla base del festival – Come stiamo veramente? Chi saranno i 20 30 nel 2030? – sono ben poste e sintomatiche di una certa consapevolezza. Le risposte sono state, a volte, imprecise, come se, nel tentativo di offrire un caleidoscopio di punti di vista, avessero mancato il bersaglio, perdendosi in perdonabili ingenuità, esponendosi meno di quanto avrebbero potuto. D’alttra parte, è un primo esperimento in cui sono contenute ottime premesse per migliorare.

Su Boheme!

Se i grandi Padri della nostra cultura italiana vivessero oggi, in questa nostra dissestata Italia, incontrerebbero i nostri stessi problemi? Si troverebbero a dover cedere a un sistema che mortifica le coscienze e la creatività?
Boheme! dei VQM – spettacolo coprodotto dal Festival Internazionale Castel Dei Mondi e dal Teatro dell’Orologio di Roma – cerca di dare risposta a queste domande.

Boheme! (Foto di Manuela Giusto)

Boheme! (Foto di Manuela Giusto)

Un redivivo Puccini (Gabriele Paolocà) viene richiamato sulla Terra da un Ministro della Cultura clown (Nicola Borghesi): emiliano (come il nostro Franceschini?), pancia gonfia e piena, vestito in bianco rosso e verde, tacchi a spillo, ossessionato dalla pulizia del suo Ministero desertificato. Ad una nazione esterofoba serve una nuova opera che esalti la sua storia e le sue tradizioni. La Bohème va riscritta. Puccini, lentamente, cede, sedotto dalle lusinghe del potere, dalla possibilità di redenzione che gli viene offerta, dalla promessa di una fama semplice e immediata, mentre il suo personaggio, Rodolfo (Michele Altamura), lo ingiuria, chiede di essere difeso, si prodiga in ridicoli tentativi di suicidio in linea con il suo carattere bohèmien, ma, alla fine, viene divorato dalle logiche che cerca di delegittimare. Sintetizzando, quindi: il compositore viene letteralmente drogato dal potere, mentre la sua creatura, artista puro e incorrotto, prova a non lasciarsi sedurre e accusa l’indolenza molle del “padre”, mentre impazza la metonimia del ridicolo sistema culturale contemporaneo che, alla fine, prevale.
Luci a vista, il quadro del Presidente-Mastro Lindo sullo sfondo, una sedia barocca. Un paio di momenti che, in uno spettacolo tutto di parola, debordano in silenzi performati e simbolici, una buona presenza attorica e un testo (curato da Gabriele Paolocà) che dichiara un certo lavoro sulle fonti – oltre a quelle più strettamente legate alla figura del compositore, Murger e il suo Scène de la vie de bohème e il riadattamento cinematografico di Kaurismäki La vie de Bohème.

Boheme! Foto di Manuela Giusto

Boheme! (Foto di Manuela Giusto)

Ritroviamo il rapporto padri/figli rideclinato in quello creatore/creatura; la dialettica tra arte e potere; la sovrapposizione dei registri drammatico e comico che sconfina nel grottesco. Il tutto in una struttura forse troppo aperta, che lascia troppo al caso i rimandi tra testuale e simbolico. Boheme! è una dichiarazione di poetica rara per dei giovani, esplicita e limpida, inquadrata in un’estetica che può migliorare; è una presa di posizione decisa che, però, non si rispecchia in una altrettanto consapevole cornice rappresentativa.

I rimandi tra il festival e lo spettacolo sono chiaramente moltissimi e sembra quasi che il secondo abbia ispirato alcuni caratteri del primo, cercando e riuscendo ad andare incontro ad una generazione intelligente che si pone le giuste domande e che spesso, però, non trova nei suoi sistemi di riferimento delle risposte convincenti.

Sull’ultima sera

Un coro di ragazzi disposti in quattro file sullo sfondo, tre leggii in proscenio, luci piene, aperte, a dichiarare la voluta sospensione dell’ordine della rappresentazione: un po’ dentro e un po’ fuori dal palcoscenico, dal teatro, a sconfinare nella realtà di tutti i giorni, nelle discussioni famigliari, nelle voci della pubblicità. Il blogger giornalista Quit the doner costruisce uno scambio di battute tra un Padre, un Figlio e un Nipote di tre generazioni diverse con grande acume. Il dialogo si ambienta nel 2030 e fa del Figlio il personaggio-porta-parola della nostra generazione: un quaranta/cinquantenne spiantato che vive ancora in casa con il padre, che, da giovane, ha abbandonato suo figlio in un orfanotrofio perché troppo impegnato a scrivere una webserie mai prodotta, che lentamente tenta di completare il suo romanzo opera prima, ma si perde in aperitivi bio e in un diffuso senso di malinconia che sa di fallimento ma, che, nell’idealismo, non cede alla sconfitta. Il Nipote – nostro figlio – lavora in una non meglio identificata multinazionale che produce droni apparentemente per usi civili: al soldo di Google, i droni monitorano l’Africa, riconoscono e pongono rimedi a problemi agricoli, di tanto in tanto sterminano qualche villaggio. In questo scenario che ha aggirato l’apocalisse prendendovi parte e assecondandola, riconosciamo i germi del nostro presente palesati in una lettura critica esercitata da uno sguardo lucidissimo sull’attualità e sulle direzioni che le economie stanno prendendo. Il blogger, con un’ammirevole durezza, smonta le logiche del nucleo familiare mettendo in scena una lingua pop che decontestualizza il parlato quotidiano nobilitandolo. Ne risulta una coralità superficialmente divertente, profondamente aspra, che altalena tra il paradosso sciocco e la critica alla nostra generazione e a quella dei nostri padri, colpevoli di averci detto: “Fai ciò che più ti piace. Prenditi un tempo per decidere”. Quel tempo sta per finire, ci dice Quit the doner, ce ne hanno dato troppo, noi ne abbiamo fatto la norma e non una fase, non abbiamo saputo farlo fruttare ed ora il nostro romanzo non vedrà mai la luce, siamo diventati individui-numero, creeremo una generazione di mostri senza cuore e non avremo abbastanza armi intellettuali per combatterla.
Un discreto colpo allo stomaco, ottimamente assestato.
Subito dopo, il distensivo concerto de Lo Stato Sociale, tra una canzone e un momento di improvvisazione, prosegue sulla linea tracciata dal festival: i musicisti invitano i loro coetanei a smettere di stare fermi in attesa di un’anacronistica mano dal cielo, di un’occasione, di una rettifica giudiziosa e meritocratica del sistema.
Signori, l’epoché, la stoica sospensione del giudizio, deve finire.

Nicoletta Lupia