michele di stefano mk

Lasciarsi attraversare: il viaggiatore di mk in un luogo altro

Sulla terrazza di Ca' Giustinian

Sulla terrazza di Ca’ Giustinian

«Al primo incontro nella foresta con una tribù indigena armata e minacciosa, l’antropologo Miklucho Maklaj decide di stendersi per terra e dormire. Gli indigeni, colti di sorpresa da tanta arrendevolezza, lo lasciano illeso. E poi lo accettano». Fa riferimento a questa vicenda, Michele Di Stefano, nel ricevere il Leone d’argento a Ca’ Giustinian, lo scorso 21 giugno. Premio che dedica «all’arrendevolezza del corpo e alla sua permeabilità». Una capacità di resa che non esclude, anzi comporta, un grande coraggio.
Un’apertura del corpo e una disponibilità all’incontro di cui abbiamo già parlato con il coreografo di mk in una conversazione dello scorso anno. In quell’occasione si faceva riferimento alla costruzione di un evento, Angelo Mai Italia Tropici, che – allo stato attuale, con un’inchiesta giudiziaria che vede coinvolto lo spazio romano, recentemente dissequestrato – ci appare davvero, e non senza amarezza, come un altrove.
Nell’episodio che vede protagonista lo studioso russo, l’avvicinamento è inteso come un approssimarsi all’altro. Una condizione che è propensione fisica, a fronte di un’ovvia predisposizione mentale, di una sapienza che sta per farsi esperienza.
Ed è uno sguardo sapiente quello che riconosciamo nei performer di mk al loro ingresso nello spazio scenico, che sia un teatro o una piazza. Un guardare oltre a sostegno di un incedere diritto, di un camminare eretto, di una fermezza che scivola repentinamente in flessibilità. Gli arti si piegano senza scomporsi, la colonna s’incurva senza sciogliersi, «le vertebre si pongono in una condizione molto più liquida», il corpo è pronto a lasciarsi attraversare.
Si sposta in gruppo o intraprende passaggi solitari, il viaggiatore di mk, esploratore esperto o novello straniero, (s)perduto o immerso in luogo altro.
È il singolo alla scoperta di un paesaggio sconosciuto, nella performance parassitaria Grand Tour, “indagine turistica nel mondo circoscritto della produzione spettacolare contemporanea” performance che vede protagonista lo stesso coreografo.

Sahara Para Todos

Sahara Para Todos

È un sopravvissuto in Robinson, individuo che smarrisce se stesso, ridefinendosi nell’incontro con un’innocenza primordiale (leggi un approfondimento).
Sono, invece, occasionali viaggiatori quelli di Clima – a breve a Marsiglia a La Friche – nuclei eterogenei e disomogenei in movimento, a condividere uno spazio comune, che sia la sala nera dell’India (durante il cantiere di Perdutamente) o gli spazi aperti del Santarcangelo Festival, nell’edizione 2013.
E se, in quell’oggetto coreografico, il gruppo si mostrava compatto per poi sfaldarsi, nella creazione vista a Venezia, Sahara Para Todos (guarda il video), i performer attraversano Campo San Maurizio uno, due, o tre per volta, fino ad abitarlo insieme, nelle diversità di sguardo e nelle difformità di fisicità in movimento.
Rintracciamo, nell’omogenea calibratura del corpo, molteplici traiettorie di orientamento. È possibile, per la prossimità delle figure fra loro, cogliere l’insieme, così come seguire i singoli, ma ad attrarre, ancora una volta, è l’errore, nel senso etimologico del termine. Error che coincide, in Robinson, con il corpo giallo del selvaggio, che attraversa lo spazio senza mai partecipare alla danza. Error che, nell’esito del laboratorio della Biennale Danza 2014, è incarnato da un danzatore in abiti comuni (pari a quelli degli altri) con maglia fluo, che osserva a lungo prima di partecipare alla danza.
Michele Di Stefano chiede ai performer di dimenticare il movimento imparato, di lasciare che il corpo lo esegua, mentre l’attenzione si concentra sullo spazio, o sul tempo, o sugli incidenti che possono interrompere il corso già irregolare. Non ostacoli, non impedimenti all’azione ma possibilità di esposizione del corpo a circostanze non prevedibili, come accade con il suono delle campane in Campo San Maurizio, che, per un breve lasso di tempo, sovrasta la musica.
Lo spettatore può fermarsi alla superficie, o compiere uno sforzo, assimilare il movimento del gruppo per concentrarsi sulla fissità o sulla mobilità di un individuo, o cogliere i continui cambiamenti generati dall’incontro, o cercare la distanza tra i corpi, isolare i pieni, esaltare i vuoti.

Sahara Para Todos

Sahara Para Todos_particolare

E, ancora una volta, la natura è solo evocata, con immagini, suoni, odori. E, ancora una volta, il luogo non è raggiunto, non è abitato. Sappiamo che c’è un punto d’approdo, come ci ricorda, stavolta, un secchio con il pescato, rovesciato dinanzi al pubblico, e come, in Robinson, ci hanno ricordato, con una prepotente invasione di palco, variegati e abbondanti fiori. Ciò che vediamo, ciò che seguiamo, è «l’uomo in continua osservazione del paesaggio e della geografia», come si legge nelle motivazioni per l’assegnazione del prestigioso riconoscimento. È il percepire un altrove, piuttosto che rivelarlo, perché, ci ricorda Michele Di Stefano, «nell’avvicinamento succedono le cose più interessanti del processo».

Rossella Porcheddu

Modi d’incontro con l’alterità

Recensione a Robinson – di MK

foto di Luca Trevisani

foto di Luca Trevisani

Robinson obbliga a uno sforzo. Quello della visione, prima di tutto: tanti passaggi dello spettacolo si svolgono in un dialogo di luce e controluce, penombre e diverse densità di grigi, in un sapiente trattamento – si potrebbe dire materico – della luminosità e delle condizioni di visibilità. Poi, quello della focalizzazione: la scena è spesso popolata di centri molteplici, lontani fra loro, da cui si innescano percorsi coreografici di pari pregnanza, fra cui lo spettatore è obbligato a scegliere (può seguirne uno, lasciarsi trasportare da un altro, tentare di afferrare l’insieme). Ancora, lo sforzo della “narrazione”: lo spettacolo è sostenuto da un tessuto sonoro unico e continuo, che non si ferma mai (creato da Lorenzo Bianchi Hoesch); così come la struttura compositiva e il disegno coreografico: diviso abbastanza esplicitamente in scene specifiche, Robinson è un lavoro che sembra fondato sui nodi di connessione fra un passaggio e l’altro, una serie di innesti che legano le diverse scene in un unicum fluido. Infine, lo sforzo del senso: lo spettacolo sembra contenere – contenere, ma anche rischiare di essere continuamente sfondato da – qualcosa di incombente, di enigmatico, una domanda che scorre sotterraneamente e si riformula, l’ombra spessa e presente di un mistero.

Michele Di Stefano, nelle note al nuovo lavoro di MK creato a partire dalla riscrittura di Michel Tournier del Robinson Crusoe di Defoe, parla di un personaggio in cui «l’incontro con l’altro spinge a una totale reinvenzione di se stesso»; e, in questo contesto, lo scopo della danza è quello di «tenere sempre vivo proprio il momento cruciale dell’incontro, quello in cui è ancora possibile l’invenzione di un accordo nuovo tra i corpi». Quello di MK e di Di Stefano è un Robinson che si apre al cambiamento, disposto alla metamorfosi, all’influenza, alla variazione; anzi, alla propria rigenerazione attraverso l’incontro con l’altro e il diverso.

I segni di alterità, la presenza dell’altro, del diverso, di qualcosa di incommensurabile è un filo teso che attraversa tutto lo spettacolo, declinandosi di volta in volta secondo variazioni diverse, sempre inaspettate e spesso sorprendenti. A partire dal grande “materassino” d’argento (parte della scenografia ideata da Luca Trevisani), che si alza e prende il volo come un palloncino e rifrange la luce in maniera autonoma durante le prime scene. Poi con una figura smaccatamente altra: i danzatori di Robinson indossano tutti abiti dai colori chiari, neutri, così come la scena, imbevuta di un grigio abbastanza omogeneo; ma la presenza incarnata da Philippe Barbut è dipinta di giallo e nero, con degli short a righe rosse e bianche; tutti gli altri si muovono, questo strano “selvaggio” variopinto invece dimostra una fissità incredibile: entra, si ferma, resta a guardare; imperturbabile, si converte in una perturbazione della visione.

foto di Luca Trevisani

foto di Luca Trevisani

Quando entra, il primo “Robinson” (Biagio Caravano, con la lettera “R” cucita sulla maglietta) sembra tutto preso dalla frenesia della propria dinamica, fino a ritararla lungo orbite eccentriche e ad assumere, infine, la pacata posizione che fu del “selvaggio” nella prima scena: steso, al centro del palco, a guardarsi intorno. Ma è veramente questa strana figura a dominare con il suo spesso portato di alterità, la sua anomalia sgargiante? A volte tocca qualcuno con una lunga asta, interviene più o meno percettibilmente sul movimento e sui rapporti fra i danzatori e lo spazio, ricordando appena la logica che sosteneva Quattro danze coloniali viste da vicino (leggi l’articolo). In generale, si può dire che sia un motivo strutturale che torna spesso nel percorso di MK nel post-coloniale. Parlava forse dell’esercizio di potere dell’uomo sull’uomo, dell’altro sull’altro; di fascinazione e di inquieta influenza. Ma la situazione, qui, è ben diversa. La perturbazione non funge da nucleo di innesco di una variazione importante in modo permanente: diventa anch’essa una possibilità, una casualità che emerge dalla contingenza, un piccolo accidente che può avere o meno conseguenze.

Un altro elemento che ha a che fare con la dimensione dell’alterità e che sembra oggetto di approfondimento e superamento si trova nei rapporti fra i danzatori, fra i corpi in scena, fra i loro movimenti e le traiettorie attraverso cui si mettono in relazione con lo spazio. Spesso, nella danza di MK, tutto questo livello era scheggiato da un senso di incomunicabilità, di differenza, di autonomia del corpo e del gesto. Robinson è contrappuntato da passaggi di assolo di grande potenza (anche quando ci sono più danzatori in scena), ognuno possiede una propria grammatica distintiva che ripete, dilatando o accelerando, i passi a due sono velati da una logica dialettica; ma i momenti di più grande impatto sono senza dubbio i numerosi pezzi corali, in cui tutti i danzatori in scena partecipano alla costruzione coreografica in un armonioso modo d’assieme.

foto di Michela Leo

foto di Michela Leo

Lo stesso si può dire per un altro nodo incandescente che ritorna negli ultimi lavori del gruppo: l’intenzione mirata alla decontestualizzazione del segno (leggi l’articolo sul Giro del mondo in 80 giorni). Il disegno coreografico insisteva su quello spazio vuoto in cui comunemente si trova il filo che lega l’oggetto, l’immagine, al significato cui rimanda; interveniva per ustioni e cesure, sciogliendo i rapporti tradizionali; ma, a questi, non tentava di sostituire nuove connessioni, sensi, ragioni. I movimenti, le traiettorie, le figure erano estratte, tranciate rispetto al loro contesto di provenienza, comunque intuibile ma non così determinante; stavano, operavano, esploravano e abitavano, col loro corpo e col movimento, uno spazio comune ma non condiviso. Non è così in Robinson. Anche in questo caso, l’atteggiamento permane a intridere tutta la composizione, ma resta come in sottofondo, per emergere di tanto in tanto, fra le altre opportunità di sviluppo del disegno coreografico. Lo spettacolo sembra piuttosto orientarsi verso un’astrazione in cui tutti gli stimoli di contestualizzazione sono rimanipolati in una composizione unitaria. I segni straniati e stranianti paiono come liquefatti e stemperati; la concentrazione sembra invece più calcata sull’incontro fra i corpi, fra le loro posizioni e traiettorie nello spazio, sulle modalità di trattamento del tempo e dell’ambiente.

Si potrebbe dire, insomma, che forse ci troviamo di fronte a un passaggio ulteriore del lungo percorso che MK sta svolgendo da qualche anno nel campo dell’immaginario post-coloniale, della mentalità esotica ed esotista, dell’energia che scaturisce dall’incontro con l’alterità e la differenza, nelle variazioni e nelle influenze che innesca. Sembra di cogliere un punto di non ritorno, di intravvedere un nuovo orizzonte, più che di godere di una summa (o una “mappa”) dell’itinerario svolto fino a questo punto.
Si avverte una tensione al superamento dal punto di vista tematico, rispetto a un’indagine che negli anni ha dischiuso prospettive originali e di un certo spessore, che hanno attraversato tanto i canoni della letteratura d’avventura (Verne, Defoe) che quelli dell’immaginario globalizzato (il turismo, l’esotismo), così come gli avamposti del pensiero post-coloniale, post-antropologico, post-capitalistico.
Ma si può forse presentire anche una mutazione dal punto di vista coreografico. Si potrebbe dire che in Robinson si avverta, in sottofondo, quasi un tentativo di  ricondurre la non-danza alla danza, che però – dopo il lungo percorso di ricerca di MK – non è certo quella dei canoni ormai consolidati. Certo l’esito è in un certo senso più omogeneo, ricco di una pluralità di livelli in cui di volta in volta vengono cercati e rifondati gli equilibri, di cui vengono saggiate diverse temperature (solo/assieme, grigio/colore, luce/ombra, centro/traiettoria, ecc.).
Gli elementi distintivi attraverso cui il percorso di MK nel post-coloniale si era fatto conoscere negli ultimi anni sono presenti, ma coordinati da una serie di innesti che determinano un disegno coreografico fluido che sembra rimpastarli per condurli altrove. Si potrebbe dire che l’effetto sia quello di una grande, inesausta tensione all’astrazione. C’è l’armonia d’assieme, la neutra serenità dei grigi, la ripetizione di una partitura; ma la variazione – l’altro – è sempre in agguato dietro l’angolo, predisposta a rimescolare le carte. E succede spesso; ma il discorso funziona anche quando questo non accade: in Robinson il rischio della destabilizzazione lavora anche sul piano della potenzialità e della latenza, a livello concreto, quasi fosse una forza in gioco fra le altre sul palco, pienamente presente e materica. Danza e non-danza, tradizione e innovazione, regola e eccezione, norma e sperimentazione… Forse è anche di questo incontro con l'”altro” che riesce a raccontare oggi il lavoro di MK.

Visto al Teatro Argentina (Roma) e a Fabbrica Europa – Teatro Cantiere Florida (Firenze)

Roberta Ferraresi

Angelo Mai, Tropici in movimento

tropicantesimoNasce da un desiderio di incontro, tra mk, PAV e Angelo Mai Altrove Occupato. Offre un diverso consumo del prodotto-spettacolo, tra lecture, performance e video. Intende sperimentare visioni e fruizioni senza confini. Si propone una periodicità, come ci aveva raccontato in un’intervista di giugno il direttore artistico Michele Di Stefano.
A distanza di cinque mesi dalla prima edizione, Angelo Mai Italia Tropici, al secondo appuntamento, ribadisce una vocazione a tracciare e incrociare traiettorie, attraversare un altrove, identificato stavolta come un paesaggio sonoro «costruito sulla disponibilità degli artisti a ragionare di destinazioni possibili».
Diversi i formati, differenti le tecniche, varia la fruizione. Si può restare seduti ad ascoltare, come accade con la microconferenza di Marco Dotti, riflessione sul gioco d’azzardo, o con la conferenza spettacolo di Chiara Guidi, tra ricordi d’infanzia e voci registrate. Si può stare in piedi nello spazio durante Tuono di Dewey Dell e Black Fanfare, o Tropicantesimo di Hugo Sanchez, Anna Clementi e Lola Kola, o unirsi alle sperimentazioni, partecipare al gioco, come succede con la performance interattiva del Collettivo Cinetico, I x I No, non distruggeremo l’Angelo Mai.
Non c’è omogeneità tematica, non c’è un’unica modalità esecutiva, o un uguale formato. I diciotto lavori, creati ad hoc, commissionati, o adattati per la due giorni romana, sono dispositivi coreografici, indagini sonore, incroci ritmici.
Ci si sposta da una sala a un’altra, da un ambiente a un altro, per incontrare visioni boschive e orchestre mute, figure tra l’umano e l’animale, assenze di luce e presenze di suono.
C’è una fitta e finta vegetazione in apertura delle due serate del 19 e 20 novembre. Ci sono vestiti attillati, copricapo di piume e un mix di sonorità in Tropicantesimo. Quasi un brindisi inaugurale, colorato e frizzante, per dare il la.
Sembra introdurre il tema del solo, Marco Dotti, nel suo Senza grazia. Azzardo e vita quotidiana. Una sedia e un microfono per estrapolare dalla trilogia edita da ObarraO − due volumi già pubblicati e l’ultimo in uscita nel 2014 − spunti di riflessione sulla società, sul tempo, sull’uomo. «Siamo insieme ma soli» dice alludendo alla ludopatia, e consegnandoci l’immagine di un individuo che chiudendosi sul gioco dà le spalle al mondo. E l’idea di solitudine resta in Tre inverni consecutivi di Fabrizio Favale/Le Supplici, danza silente tra buio e luce, ricerca di un’assenza, con l’imprevisto scroscio della pioggia in sottofondo, soffocato soltanto dalla musica finale.
masque_teatro_-_just_intonationÈ una figura androgina, ripiegata in posizione fetale, il volto nascosto e la schiena arcuata, quella di Eleonora Sedioli in Just intonation. Fa incontrare l’uomo e la macchina, Lorenzo Bazzocchi di Masque teatro, la materia e il suono, la carne e il metallo. Gli arti si tendono, si tendono le corde, un pianoforte, capovolto, emette suoni atomici, mentre un altro dorme, muto testimone di ciò che non accade.
E se il sistema di fuga di Maurizio Saiu – il cui pezzo s’intitola Nella spelonca di Abdullam. Qui me la cavo facendo il pazzo! – porta il suono fuori dallo spazio scenico illuminato, sottolineando l’isolamento, parte dalla solitudine ma si apre al dialogo Bangalore Air Show di Biagio Caravano e Luca Brinchi, che ai lati opposti di uno stesso tavolo si ascoltano, si seguono, si rincorrono, costruendo uno spazio sonoro.
Sono i primi bagliori di un concept live album quelli che il Teatro delle Moire presenta il 20 novembre. Song for Edgar è assenza di musica per un’orchestra di carne che suona strumenti di legno, è assenza di parole per bocche che si allargano in sorrisi allucinati, è assenza di sguardi per occhi chiusi e volti coperti. Primi passi di quello che vuole essere un viaggio nell’universo di Edgar Allan Poe.
Torna indietro nel tempo, Chiara Guidi, nella Relazione sulle verità retrogade della voce, per inseguire suoni che scappano, per piegare la voce, che si fa fieno, elastico, velluto, per tratteggiare bozzetti sonori.
tuonoCosì come sono schizzi coreografici quelli di Ornitologia, della durata di cinque minuti, con la stessa musica e le stesse posizioni di apertura e chiusura. Dialoga con il video Iacopo Fulgi, mimando con tanto di cresta posticcia i movimenti di un pappagallo, con evidenti esiti comici. Imita una coreografia inventata da bambina Giorgina Pilozzi, eseguendo le pose immortalate in vecchi scatti fotografici, proiettati sul fondale, tra presente e passato, incoscienza e coscienza. Schiena nuda, vestito dalla fantasia tropicale, collant verdi a fasciare cosce e gambe, Daria Deflorian ingaggia una lotta col proprio corpo e con il pavimento, dando vita a una coreografia volutamente disarmonica, sbilanciata, che si conclude con brevi e ansimanti frasi, consegnate a un microfono.
Risalgono dal fiume come anfibi, saltano nella foresta come lupi i bambini selvatici di Sérgio Cruz, che in Animalz concentra in poco più di tre minuti l’evocazione di leggende antiche e utopiche alternative alla realtà sociale contemporanea.
Emergono dal buio senza mai rivelarsi completamente, sono sagome in negativo quelle di Tuono, che chiude, con pulsazioni elettroniche e coreo-azioni, la due giorni romana. E che con sussulti, sonori, visivi, fisici, primitivi, istantanei, in continuo mutamento, ben rende l’idea dei giardini in movimento di cui parla Gilles Clement, non ingabbiati in una forma definita ma capaci di “tradurre una certa felicità di esistere”.

Rossella Porcheddu

Attraversare un altrove: incontro con Michele Di Stefano all’Angelo Mai

TROPICI_pieghevole_front-lightC’è chi si aggrappa a un palo sognando le Dolomiti di fronte alle Terme di Caracalla, come Cristian Chironi. Chi trasmette un codice corporeo danzando versi di Kerouac, come Marco Mazzoni di Kinkaleri. Chi, come Monica Gentile, ricerca una ‘minimal dance’ e chi, come Fabrizio Favale, allude a paesaggi arcaici. Chi ci attrae magneticamente verso un interno borghese, come Rhuena Bracci di gruppo nanou. E chi ci osserva dietro la maschera di Spiderman, come Iacopo Fulgi dei Tony Clifton Circus, avvolto in una ragnatela di nastro isolante. Ci sono danzatori, performer, artisti che hanno accolto l’invito di Michele Di Stefano a intraprendere un viaggio nella performance, attraversare un altrove, tracciare e incrociare traiettorie. A raccontarci la temperatura, le condizioni e le fruizioni di Angelo Mai Italia Tropici è il coreografo di MK, direttore artistico della manifestazione sostenuta da PAV, che ci presenta, in quest’occasione, i suoi progetti estivi, dalla partecipazione a Danza Urbana al Festival di Santarcangelo, dalle Serate di danza dell’AND alla Biennale College. Senza dimenticare alcune riflessioni sulla pratica performativa, sui compagni di viaggio e sulle possibilità del corpo. Parola chiave, “outdoor”: fuori dai luoghi e fuori dalla danza.

«La tre giorni romana nasce da un desiderio di incontro: ho sempre considerato l’Angelo Mai un luogo importante in città, non solo da un punto di vista urbanistico-atmosferico, ma anche per la programmazione culturale, perché offre condizioni di gestione e fruizione dello spazio flessibili e sregolate, pur mantenendo un’alta qualità degli oggetti performativi e il rispetto per il pubblico.
Ho risposto all’esigenza di aprire alla danza contemporanea con un progetto che ha una posizione differente rispetto al consumo del prodotto-spettacolo, e a cui si vuole dare un’occasione di periodicità, cioè la possibilità di costruire un discorso sulla performance, di sperimentare visioni e fruizioni senza confini. Lo specifico della danza è stato inteso alla mia maniera, estremamente espansa, quindi c’è tutto ciò che riguarda l’atteggiamento del corpo di fronte alla manifestazione di sé e di fronte a un pubblico».

Come hanno reagito gli spettatori? Avete avuto un buon feedback?
Sì, siamo stati molto attenti a come il pubblico ha vissuto e annusato Angelo Mai Italia Tropici. È stato colto il punto, cioè tenere una tensione alta al di là dell’apprezzamento sul singolo spettacolo; anche perché non faccio una selezione di questo tipo, mi interessa l’atteggiamento dell’artista rispetto a quello che produce.

Quindi estrema libertà sul pezzo proposto?
Hanno scelto gli artisti quando, quanto, come, e che tipo di ricerca proporre. Certo, avendo questo atteggiamento decontratto, è importante che la macchina sotterranea sia solida, perciò io, Francesca Corona, alla direzione organizzativa, e il direttore tecnico, Davide Clementi, abbiamo voluto garantire una piattaforma di base sulla quale loro potessero oscillare liberamente. Ciò che chiedo è che non venga vissuto come una rassegna. Entrare nel quadro della politica culturale romana non vuol dire sovrapporsi con uno specifico ad altri festival. Però, mi piacerebbe che ci fossero delle casse di risonanza tra questo progetto, Short Theatre, ad esempio, o i progetti Dna curati da Anna Lea Antolini.

mic_in_lawL’Angelo Mai, l’India di Perdutamente, il Museo Pigorini. C’è un senso diverso nel fare spettacoli in questi altrove?
La parola chiave è “outdoor”: stare fuori, anche in termini di danza. Per me l’attitudine del performer è quella del corpo all’aperto, con le vertebre che si pongono in una condizione molto più liquida, perché all’aperto le regole non sono certe e la scansione del tempo non è prevista.
L’Angelo Mai è stato scelto perché permette l’avvicinamento alla costruzione di un evento che ha questa qualità. Nell’avvicinamento succedono le cose più interessanti del processo, e qui c’è la flessibilità giusta perché ciò accada. Inoltre, spostare l’appuntamento fuori dai teatri apre il desiderio di condividere il tempo con lo spettatore in spazi che non lo hanno già regolamentato; riguarda il desiderio di incontrarsi con un atteggiamento più aperto, mentre il teatro ha le sue regole, ed è interessante perché ha quel cerimoniale che a volte mi piace indagare.

A ottobre, durante uno degli incontri Waiting for Dna all’Opificio insieme ad Alessandro Sciarroni, si è aperta una riflessione sulla pratica performativa e si sono raccontati i diversi processi creativi. Come si svolge il lavoro per i performer di MK?
Quando c’è una richiesta specifica è dichiarato che si tratta della superficie delle cose, cioè ci sono dei pattern di movimento che vengono proposti perché vengano dimenticati; il performer deve eseguirli in automatico per occuparsi di altro, della questione del tempo, ad esempio, o dell’incidente tra una cosa e un’altra. In generale, io creo una condizione, che è molto rigorosa, perché non si parla di improvvisazione ma di una temperatura specifica che il corpo deve raggiungere e che, quando manca, può far crollare lo spettacolo. E il rischio è continuo, perché non c’è una scrittura che può essere letta come idea: se non c’è il corpo, non c’è lo spettacolo e questa è una presa di posizione chiara.

Questo vale anche quando c’è il coinvolgimento del pubblico, com’è stato per Clima a Perdutamente?
Al pubblico chiedo esattamente la stessa calibratura che chiedo a Biagio Caravano: tutti sono nella stessa condizione, nella stessa difficoltà. È una gestione di sé, della propria partitura fisica in tempo reale in uno spazio visto per la prima volta. All’India era quasi sempre lo stesso, a Santarcangelo, dove Clima accompagnerà l’intera durata del festival, sarà ogni giorno differente. A settembre saremo a Bologna per Danza Urbana, dove vorremmo usare una visione quasi esclusivamente da lontano, nell’orizzonte. E poi Clima sarà anche a Short Theatre. L’idea è di creare una comunità di agenti segreti, che portino avanti il processo, perché hanno un bagaglio alfabetico di sequenze che possono continuare a utilizzare nel tempo.

Michele Di Stefano in "Speak Spanish" - foto di Amedeo Novelli

Michele Di Stefano in “Speak Spanish” – foto di Amedeo Novelli

Tra i progetti estivi, c’è la partecipazione di MK a Biennale College. Come si articolerà Invenzioni?
Costruirò con i performer una durata, fatta di creazione, di studio, di ricerca. Non li utilizzerò come interpreti di un progetto già prefissato, ci muoveremo insieme. Ho delle idee, ovviamente, ma rispondo anche alla situazione che mi trovo davanti. Inoltre, Virgilio Sieni, con il quale ho un ottimo dialogo, ha chiesto di presentare anche il lavoro specifico di MK, perciò vorrei far incontrare Impression d’Afrique (visto da poco a Roma, al Museo Pigorini, ndr) con il progetto Invenzioni. Ho invitato anche Lucia Amara a parlare di Raymond Russel, che è una delle piste che stiamo seguendo per Impression d’Afrique, e Margherita Morgantin farà un intervento sul clima di quella situazione nella Sala Loggione alla Fenice, dove si svolgerà il laboratorio, sempre in pomeridiana, con la luce naturale e le finestre aperte.

Una coreografia per l’Accademia di Danza su musiche di Wagner, Joseph_kids con Alessandro Sciarroni e la presenza nel cartellone 2013\2014 del Teatro di Roma. Un’estate di impegni e una nuova stagione intensa?
Il lavoro di Sciarroni mi interessa molto, e ho accolto volentieri il suo invito. Il progetto con l’Accademia Nazionale di Danza, con la quale c’è un dialogo dallo scorso anno, mi ha regalato molte sorprese: è un ambito che non mi aspettavo così fecondo, gli allievi sono super alfabetizzati, hanno una disponibilità alta, e quando annusano che qualcosa cambia nella loro possibilità di espressione corporea, leggi nei loro occhi il cambiamento, ed è magnifico. E poi ci sarà la produzione all’Argentina a febbraio, dove concluderemo il ciclo sul viaggio, sull’altrove, con Robinson.

Progetti, collaborazioni, incontri, e la presenza costante dei compagni di viaggio, Philippe Barbut, Biagio Caravano, Laura Scarpini. Qual è il segreto di un rapporto così duraturo?
Il desiderio di lavorare ancora insieme, un’apertura costante verso altre persone. Ma soprattutto la capacità di spostarsi in continuazione. Spostandoci ogni volta, quello che ci troviamo davanti è alla stessa distanza da tutti, e quindi siamo di nuovo insieme.

Intervista a cura di Rossella Porcheddu

Anche Viviana Raciti ha intervistato Michele Di Stefano per Angelo Mai Italia Tropici: leggi l’articolo su Teatro e Critica…