operaestate 2011

Incontro con Bersani, Buscarini e… Family Tree

Family Tree/Frammento #1: Volta

 

A B.Motion Danza è stato presentato Family Tree/Frammento #1: Volta, il lavoro vincitore del Premio Prospettiva Danza 2011. Abbiamo incontrato gli autori: Chiara Bersani e Riccardo Buscarini.

 

Come è nato il progetto Family Tree?
Chiara: Inizialmente il progetto era stato scritto per la Biennale dei Giovani Artisti BJCEM. Doveva essere una cosa completamente diversa, un’installazione, ma era già presente la volontà di lavorare sull’albero genealogico, sul passato, presente e futuro e su noi come persone esistenti adesso e come anello di congiunzione. C’era tutta la poetica di base. Poi il lavoro è stato abbandonato perché ci sono stati altri impegni ed è stato ripreso quando ho conosciuto Riccardo e ho iniziato a pensare che poteva essere interessante lavorare insieme. Quando gli ho parlato di questo progetto a lui è interessato subito molto e abbiamo iniziato a dargli la struttura che ha adesso: un lavoro in capitoli, in generazioni, dotato di una frammentarietà e progettualità molto più ampia.
Riccardo:
Il progetto generale è una serie e il primo elemento della serie è un trittico a cui stiamo lavorando in una sorta di creazione collettiva nonostante io sia il direttore del primo frammento, Matteo Ramponi, nostro collega e carissimo amico, lo sarà del secondo, mentre Chiara dirigerà il terzo.
C.:
Siamo noi tre e Antonio de la Fe.

Come si sono accostate le vostre poetiche?
R.: Questa è la parte più interessante del lavoro perché siamo uniti da un’amicizia recente che ha tuttavia come anello di congiunzione una carissima amica di entrambi. Le due poetiche si sono incastrate molto bene e il processo di Volta, che è il primo frammento, è stato uno dei più fortunati della mia vita perché non c’è stata mai una lite, una discussione… Io lavoro con dei media molto minimali e questo favorisce l’unione tra la mia poetica e quella di Chiara e di Matteo, che vengono da un percorso di visual theater e di teatro di ricerca che lavora molto con i materiali. La mia attenzione verso la gestualità più minimale e quotidiana, l’immagine del corpo, e il loro background di lavoro coi materiali si sono congiunti estremamente bene. Lo studio sulla luce si accosta alla ricerca di un movimento molto lento; io e Chiara facciamo le stesse cose, lei non utilizza la carrozzina, e questo è un modo per parificare i nostri corpi.
Ho imparato molto da loro e ho condiviso la mia prospettiva sul movimento che parte principalmente dal gesto quotidiano, o comunque molto semplice. Lavoro spesso con l’immagine in sé del corpo statico, su ciò che può comunicare.
C.:
È stato un incontro fortunato. Parlando ci eravamo resi conto che avevamo interessi molto affini anche affrontando cose semplici, come il fatto che ci piacessero i carillon; immagini che entusiasmavano entrambi e che poi sono tornate nelle scelte della struttura del lavoro. Questo ha reso lineare il processo creativo.

Quindi avete lavorato anche per immagini?
R.: Il concept è basato sull’iconografia classica religiosa dalla quale prendo spesso ispirazione; è in risposta al progetto globale di Chiara; è la traduzione di questo progetto sulla memoria e sulla famiglia.

Family Tree/Frammento #1: Volta è il lavoro vincitore del Premio Prospettiva Danza 2011…
R: La sintesi delle due poetiche è stata uno dei motivi per il quale abbiamo vinto il Premio; lo abbiamo riscontrato spesso durante il feedback degli operatori e dei giudici. Il nostro è un linguaggio rischioso perché si colloca al limite della danza e della performance, anche se allo stesso tempo ci muoviamo costantemente. Io lavoro con il movimento e quindi posso solo definirmi coreografo.
C:
Io ho deciso che sono una danzatrice! (ride, ndr)

Che cosa vi ha portato questo Premio?
R.: È stata un’occasione di estrema visibilità, abbiamo ricevuto molti inviti, tra cui B.Motion; abbiamo avuto il supporto economico per la creazione della prima serie, il primo trittico, e anche inviti di co-produzione, supporto di residenza, di spazio per la creazione.

In quale spazio lavorate per la produzione?
R.: Abbiamo il supporto dell’Accademia Domenichino da Piacenza, la scuola dove mi sono formato fino a cinque anni fa, che per noi è una base, e poi di Teatro Gioco Vita che ci ospiterà a marzo. Il loro sostegno è una cosa molto bella.
C.:
La cosa strana per me è che eravamo tre artisti piacentini, anche Matteo è di Piacenza, e non avevamo mai lavorato nella nostra città. Avere quest’anno finalmente l’appoggio di Teatro Gioco Vita per me è importante anche a livello di ritorno alle origini, soprattutto per un lavoro come questo sulle radici.
Inoltre un altro ente che ci sta supportando è il Teatro Comunale di Ferrara…
R.:
E poi ci sono gli sponsor privati come Stanhome e INA Assitalia.

Questi sponsor sono arrivati dopo il Premio Prospettiva Danza?
C.: No, sono arrivati prima perché altrimenti per noi non sarebbe stato possibile partecipare al Premio, date le spese di vitto e alloggio della residenza.

Come è stato il confronto con gli altri ragazzi che hanno partecipato al concorso?
R.: È stato un ambiente non competitivo, molto arricchente.
C.:
È stato bello. Anche nel dietro le quinte, prima di performare, c’è stata molta solidarietà.

Volete darci qualche anticipazione sulla seconda parte?
R.: La seconda parte è stata scritta da Matteo. Sarà collocata prima di questo lavoro, in linea con un’operazione cronologica e concettuale. Il titolo è HALLWAY | prima che tutto si distingua, quindi prima ancora della nascita, prima della distinzione, prima dell’identità. Per usare un’immagine concreta si potrebbe dire che è un lavoro visivo basato sulla non-definizione che precede l’identità, il concepimento. Per usarne una più astratta…
C.:
… possiamo pensare al Big Bang! (ride, ndr)

E la terza parte?
C.: Nella terza parte verrà coinvolto un altro artista, un dj, che è mio fratello. Visto che il finale tornava alla persona che aveva scritto il progetto, mi sembrava interessante inserire la famiglia vera, la famiglia di sangue. Il terzo frammento sarà un lavoro intenso, probabilmente, è ancora molto lontano, ma come progetto iniziale è fortemente musicale grazie al contributo di Mattia. Sarà un epilogo sull’addio, sulla distanza, sull’eredità; andarsene, salutarsi, lasciare una traccia; sarà un lavoro sulla nostalgia, tematica che è tornata spesso e che vorremmo affrontarla totalmente in questa parte.

Family Tree è un lavoro molto intimo. Cosa ha significato riprendere questo progetto dopo anni in cui è rimasto abbandonato?
C.: È stato importantissimo; ero molto dispiaciuta di averlo messo da parte anche se volevo essere sicura che quando lo avrei ripreso sarei stata in grado di svilupparlo visto che pur sapendo dove volevo andare, non sapevo ancora come. Family Tree è un lavoro molto intimo ma reso aperto dall’idea di chiamare tanta gente, di affidarlo ad altri perché il progetto è tutto di consegne: io ti consegno il progetto, tu mi dai una risposta e poi ci lavoriamo insieme.
R.:
È un modo per fare diventare il personale universale in una maniera onesta, pura e molto pratica; è una cosa concreta che secondo me funziona perché dà a Chiara una distanza ottimale per separarsi dal progetto, dalla sua idea e da questa dimensione intima.
C.:
Anche perché l’idea è quasi di creare una stanza dove chi decide di entrare ci consegna la sua intimità. È un continuo riformularsi di una rete di persone con i propri segreti che dal personale, che può diventare anche un po’ morboso, portano la propria soggettività in scena, in maniera più aperta e in dialogo con il desiderio degli spettatori di entrare loro stessi nel  lavoro.

Elena Conti / Carlotta Tringali

Dentro il mondo di Sobarzo

Recensione a MiningRodrigo Sobarzo

Superano i confini tra danza e teatro gli spettacoli presentati durante la stessa serata del 24 agosto al Festival B.Motion Danza: Cosas di Alma Söderberg e Mining di Rodrigo Sobarzo si muovono entrambi nell’ambito della performance, indagando diversi aspetti del corpo. Entrambi usciti dalla scuola di danza di Amsterdam SNDO, i lavori dei due coreografi possono essere accostabili per alcune scelte ma allo stesso tempo si distanziano per le tematiche affrontate e per i risultati ottenuti. Se il pezzo della Söderberg ha riscosso un bel successo di pubblico ricevendo uno scroscio di applausi, non si può dire la stessa cosa del secondo spettacolo che ha suscitato non poche perplessità dividendo e alimentando discussioni all’uscita del Garage Nardini. A prescindere se sia piaciuto o meno, lo spettacolo ha già in sé un’ottima qualità, ossia quella di accendere una discussione e di spingere a riflettere.

Mining di Rodrigo Sobarzo

Se è semplice elogiare la Söderberg e il suo Cosas per le capacità straordinarie che l’artista mostra sul palco, per la sua eccezionalità nell’intrecciare canzoncine bambinesche a testi tratti dalla cronaca facendo diventare il corpo una cassa di risonanza ed espandendo le potenzialità vocali, più complesso è analizzare lo spettacolo di Sobarzo. Il cileno, di adozione olandese, compie con Mining un esercizio fisico notevole, estenuante: mentre il movimento tende verso una continua contrazione, Sobarzo per lungo tempo produce un urlo mono-tono che sembra provocato da una sofferenza interiore. Ma più che dal suono prolungato, la sensazione di angoscia è data dagli spasmi fisici che si modificano a piccoli tratti: il coreografo compie un percorso non solo di natura corporea ma anche spaziale; come se partisse da un punto e percorresse, lentamente a tappe, tutto il Garage Nardini. Da una posizione eretta si piega sulle ginocchia per poi distendersi in terra e rialzarsi, accostarsi al muro e lì ripiegarsi: il tutto facendo fuoriuscire dal corpo questo forte urlo fatto di continui segmenti vocali che dopo un ascolto prolungato sembrano non provenire più dal corpo ma da un’altrove. E verso un altrove è proprio dove conduce il lavoro di Sobarzo: dotato di una forza incredibile, il coreografo sembra entrare in una sorta di trance psicofisica che gli permette di superare la soglia del dolore e di condividere questa condizione di passaggio con chi lo sta guardando. Se all’inizio la sofferenza di quel fisico in preda a spasmi è palpabile, andando avanti durante la performance si ha la sensazione che quel corpo potrebbe continuare all’infinito, che non abbia bisogno di fermarsi e che stia aprendo a sconosciuti la sua interiorità. Il dondolio di Sobarzo ricorda moltissimo i momenti di preghiera di alcune religioni islamiche o il movimento dei bambini che soffrono d’autismo: in entrambi i casi è un mondo privato quello che viene esteriorizzato e una volta entrati in questo luogo ci si abbandona come se si fosse sotto ipnosi. Non si tenta di comprendere le varie parti che compongono questo mondo: ognuno è libero di riceverne e osservarne gli aspetti che preferisce e semplicemente lo si esplora, entrando in una sintonia emotiva. A interrompere questo viaggio-trance è il suono di un cellulare, voluto dal coreografo, che riporta alla realtà e mette a tacere l’urlo prolungato di Sobarzo. Tornato il silenzio, l’artista lega il suo corpo a una lunga asse di legno: anche qui non ci sono percorsi di senso obbligati da percorrere, l’immaginario a cui rimanda spazia dove lo spettatore preferisce. E se inizialmente questo elemento esterno poggiato sul corpo può veicolare una sensazione di pesantezza, ecco che questa subito viene sostituita da una voglia di libertà: Sobarzo dondola da destra a sinistra, come quasi volesse spiccare il volo. All’angoscia rumorosa della prima parte subentra lo spostamento d’aria di queste ali ruvide: è questo un momento di ampio respiro che acquista valore e si rende necessario per un equilibrio interiore; equilibrio che in ogni caso non trova una stabilità, rotta stavolta dal violento gesto del coreografo che con un’ascia colpisce il legno fino a spezzarlo in due parti.

Una performance che spinge lo spettatore a superare dei confini ben marcati tipici della nostra esteriorità, come può essere il fermarsi al primo impatto: Sobarzo invita ad andare oltre, a farsi catturare e vivere un’esperienza unica. Un lavoro che mostra come la novità, significativa e difficile da comprendere, sia ancora possibile oggi; ma che deve anche trovare lo spazio necessario per mostrarsi e la predisposizione delle persone ad accoglierla.

Visto al CSC-Garage Nardini, B.Motion Danza Bassano del Grappa

Carlotta Tringali

Un percorso tra le stanze di Suite-Hope

Recensione a Suite-Hope – di Chiara Frigo

Suite-Hope di Chiara Frigo

Le stanze di Palazzo Pretorio ci accolgono con la sua voce; amplificate da casse, le parole di Chiara Frigo rivolgono agli spettatori delle domande, pongono di fronte a scelte che solo poi, nella prima camera di Suite-Hope, quella degli “omini bianchi”, si manifesteranno come svelamento, intromissione nell’intimità di una persona ma anche ricerca in sé volta a un cambiamento. Suite-Hope è uno «spettacolo per due interpreti e un popolo di carta», come recita il sottotitolo, presentato in una versione site-specific per questo spazio a Cittadella. Le stanze vuote e dalle luci fredde del Palazzo, che per altre occasioni si sono fatte sedi espositive, si sono accostate alle possibilità fornite dalla vicinanza con le danzatrici, in un accerchiamento della scena che ha consentito al pubblico di comprendere il lavoro e unirsi alle interpreti. Il popolo protagonista, e testimone delle azioni coreografiche, è costituito da poetiche sagome stilizzate, omini fatti di carta con una sola piega sulla metà per consentire loro di mantenere una verticalità dal pavimento, unica espressione di vita a loro consentita. Al primo incontro, queste figure sono neutre, bianche. Il colore viene portato in scena dai costumi delle due danzatrici, Chiara Frigo e Marta Ciappina – danzatrice che ha collaborato con lei nell’intimo e poetico Nonsostare dello scorso anno –; i loro sono vestiti quotidiani, larghe t-shirt e pantaloni dalle tinte sgargianti. A partire dalla ricerca coreografica cara a Frigo, il gesto quotidiano viene estrapolato dal suo contesto e rielaborato per lasciare che non ne rimanga altro che una labile traccia nel linguaggio coreutico. A dominare le stanze di Palazzo Pretorio è la sola concentrazione di energia ed emozione che trapela dal gesto. Un movimento che si indirizza a tratti verso una sincronia, una simultaneità che verrà in poco tempo annientata per tornare alla dilatazione dell’azione dell’una rispetto all’accelerazione dell’altra, in un continuo incontrarsi per perdersi di nuovo.

Suite-Hope si costruisce per passaggi, veri e propri trasferimenti da uno spazio all’altro, ma anche per slittamenti concettuali tra le diverse condizioni umane. Al popolo di carta è assegnato il ruolo di guida in questo percorso; simboli di cambiamenti, mutazioni e “amputazioni” alle quali sono stati sottoposti incondizionatamente dalla società contemporanea, gli omini compongono una scrittura a terra che si accosta fluidamente alla danza di Frigo e Ciappina, così come alle bellissime musiche utilizzate (da Alva Noto al compositore berlinese Franf Bretschneider e Leonard Cohen). Un respiro, un segno di speranza e resistenza giunge sul finale e, coerentemente, i protagonisti sono due figure – di carta o reali? – che nonostante tutto continuano a sorreggersi contando l’una sul sostegno dell’altra.

Visto a Palazzo Pretorio, Cittadella

Elena Conti

 

Choreoroamer #2: Alessandro Sciarroni

Siete curiosi di conoscere meglio i segni particolari dei nove coreografi partecipanti a Choreoroam Europe 2011? Li abbiamo incontrati e “schedati”… Ecco le risposte di Alessandro Sciarroni

 

Nome: Alessandro Sciarroni

Data di nascita: 25.07.1976

Luogo di nascita: San Benedetto del Tronto (AP), Italia

Centro con cui partecipa a Choreoroam: Operaestate (IT)

 

 

 

 

1) Alessandro Sciarroni in tre parole
Misantropo part-time, sentimentale e il contrario di sentimentale

2) Definisci in una frase la tua ricerca coreografica
Cercare di fermare qualcosa che se non fermassi andrebbe perduta per sempre e nessuno se ne accorgerebbe.

3) Lo spettacolo che ti ha cambiato la vita
Sono sempre spettacoli che non ho visto. Tra tutti la performance Azione sentimentale di Gina Pane

4) Se la tua vita fosse uno spettacolo, chi sarebbe il coreografo?
Alain Platel

5) E se ti chiedessi di scegliere il coreografo tra uno dei Choreoroamers?
Marco D’Agostin

6) L’aspetto che preferisci di Choreoroam
Non c’è la pressione del tempo

7) L’aspetto più difficile di Choreoroam
Le cene fuori (sorride, ndr)

8) Un ricordo che porterai con te di Choreoroam – Bassano del Grappa
Ieri  (23 agosto 2011, ndr) quando ho visto qualcosa nello sharing; mi ha fatto molto emozionare perché ho capito che lo potevo capire… Non mi chiedere di più perché non te lo dirò!

Elena Conti / Carlotta Tringali

Choreoroamer #1: Marco D’Agostin

Siete curiosi di conoscere meglio i segni particolari dei nove coreografi partecipanti a Choreoroam Europe 2011? Li abbiamo incontrati e “schedati”… Ecco le risposte di Marco D’Agostin

 

Nome: Marco D’Agostin

Data di nascita: 28.01.1987

Luogo di nascita: Valdobbiadene (TV), Italia

Centro con cui partecipa a Choreoroam: Operaestate (IT)

 

 

 

1) Marco D’Agostin in tre parole
Radici, racconto e domani

2) Definisci in una frase la tua ricerca coreografica
Mantenendo fede a un linguaggio esclusivamente fisico e corporeo, la ricerca è il tentativo di trovare dei nuovi modi di raccontare nuove storie

3) Lo spettacolo che ti ha cambiato la vita
Singular sensation di Yasmeen Godder

4) Se la tua vita fosse uno spettacolo, chi sarebbe il coreografo?
Ann Van den Broek

5) E se ti chiedessi di scegliere il coreografo tra uno dei Choreoroamers?
Pablo Esbert Lilienfeld

6) L’aspetto che preferisci di Choreoroam
Il grande valore che assume la convivialità

7) L’aspetto più difficile di Choreoroam
Il confronto con l’Altro

8) Un ricordo che porterai con te di Choreoroam – Bassano del Grappa
Forse la prima sera quando abbiamo iniziato a lavorare con Alessandro Sciarroni che proponeva solo ai maschi una ricerca che partiva dalle idee delle danze folk tirolesi; io solitamente ho molte difficoltà a relazionarmi con gli uomini nel lavoro e invece quella sera si è scatenata una sinergia incredibile fra di noi, in un modo molto giocoso… E quella sera lì credo me la ricorderò per tanto tempo.

Elena Conti / Carlotta Tringali

Tra acrobati e giullari nel castello di Corsetti

Recensione a Il castello (2° frammento: Il segreto di Amalia) − regia di Giorgio Barberio Corsetti

«Kafka (…) è la chiave che permette a Barberio Corsetti di aprire le sue scene-scatola e ricontestualizzare i totem-video, di riuscire a inondare con i suoi spettacoli le vie, le stazioni e le fabbriche della città»: così Stefania Chinzari e Paolo Ruffini descrivono in Nuova scena italiana il rapporto di Giorgio Barberio Corsetti con lo scrittore ceco, iniziato ormai in un (forse) lontano 1988 con Descrizione di una battaglia, a partire da tre racconti kafkiani. Parole che ancora oggi sembrano riassumere con semplicità e lucidità l’approccio del regista che continua a scontrarsi/incontrarsi con la poetica di un autore che così tanto ha dato alla letteratura contemporanea. Il castello (2° frammento: Il segreto di Amalia) prende vita dall’omonimo romanzo, già affrontato nel 1995 al Théâtre National de Bretagne: un’opera complessa, iniziata a due anni dalla morte dello scrittore e rimasta incompiuta, che Barberio Corsetti ha saputo adattare ad una scena mutevole, in grado di trascinare lo spettatore in un viaggio all’interno del Castello degli Ezzelini di Bassano del Grappa, nell’ambito di Operaestate Festival Veneto. Il lavoro costituisce la seconda tappa di un percorso avviato con Il castello (1° frammento: Frida), evento site-specific presentato al Festival dei 2 Mondi Spoleto 54.

Il romanzo narra di K., un agrimensore che giunge di notte ai piedi di un castello governato da una burocrazia rigida e inflessibile, che porterà il protagonista a cercare di avvicinarsi agli abitanti del villaggio con lo scopo di poter finalmente parlare con i signori del castello. Ripercorrere la vicenda di K. (interpretato da un superbo Ivan Franek) significa seguirlo in un deambulare mistico tra zone di luce e ombra nei meandri di un luogo che presta le sue mura ad una narrazione solida, capace di far sprofondare il pubblico in un continuo movimento interiore, parallelo a quello del protagonista della vicenda. Ed è lo stesso regista che, al pari di una guida spirituale, invita gli spettatori a percorrere i confini della struttura, fino ad addentrarsi in uno spazio che lentamente assume le forme di un labirinto: scatole di cartone, sacchi di iuta, oggetti di legno e poveri ben si prestano a costruire l’immagine di un mondo artificiale, governato da una potente macchina burocratica in grado di attanagliare gli esseri umani ad un asservimento totale, senza vie di uscita.

Attraverso una magistrale orchestrazione degli spazi e la recitazione degli attori della compagnia Fattore K, Corsetti riesce a creare un universo mutante: fessure e spiragli mettono costantemente in discussione le certezze che lentamente prendono forma in K. e, di riflesso, nel pubblico. Il progredire della vicenda rivela la potenza di un mondo che attraverso la sua apparente stabilità è in grado di controllare la realtà, gli esseri umani e le loro scelte. Sin dalla scena d’apertura i personaggi rivelano infatti la loro natura di protesi di un potere superiore, dando forma ad abiti innestati su una scenografia che suggerisce l’esistenza di un’entità in grado di manovrare le sue marionette.

La vera potenza della scrittura scenica scaturisce così dalla capacità del regista di disvelare piani nascosti che conferiscono alla drammaturgia una solidità destabilizzante, fortemente legata alla realtà attuale. La messa in scena si configura come una vera e propria rappresentazione, creata di volta in volta davanti agli occhi di un pubblico lentamente risucchiato da un vortice che rende difficile distinguere realtà e finzione. Complice di questo movimento è l’abilità di Corsetti di attingere alle peculiarità del linguaggio cinematografico e audiovisivo e della potenza che la tecnologia di questi mezzi espressivi offre. Se infatti da una parte l’uso della musica serve a creare le transizioni tra una scena e l’altra senza rompere il fluido scorrere della vicenda, così il video viene utilizzato per creare piani di realtà differenti, che emergono dalle pietre del castello stesso: proiezioni di presenze accennate che rimandano all’esistenza di un altro mai palesemente rivelato. E non poteva mancare il ricorso alla tecnica del blue screen, cara a Corsetti sin da La pietra di paragone e Tra la terra e il cielo: il meccanismo − totalmente svelato agli occhi del pubblico e utilizzato per ripercorrere il passato della famiglia di Olga (uno dei personaggi che aiuta K al suo arrivo al villaggio e sorella di Amalia) − seppur straniante, permette al regista di creare ellissi temporali che non distraggano dalla narrazione, ma che alimentino la struttura a matrioska in cui ormai si è incastrati. È infatti lo stesso Corsetti a puntualizzare che «il fatto che l’immagine venga creata in diretta di fronte agli occhi del pubblico, svela anche l’illusione, ci mette di fronte non solo al reale come illusione ma all’illusione che viene data come realtà.»

Nonostante la complessità della vicenda narrata, Giorgio Barberio Corsetti riesce a trasformare Il castello in uno spettacolo che pur rispettando i temi kafkiani, fa sorridere e scivola nella mente dello spettatore, trasportandolo in un sogno abitato da acrobati e giullari: un mondo caro al regista, già direttore artistico di Metamorfosi – Festival di confine fra teatro e circo, che in occasione della sesta edizione dichiarava che i baratri dell’inconscio sono «meglio scossi, a volte, dalla risata infantile che ti suscita un clown con la sua arte inqualificabile. E alla radice di tutto c’è magari Ovidio, o il Kafka che non riteneva riproducibile lo scarafaggio della sua Metamorfosi». Ed è con questo riso inquietante e destabilizzante che ci si risveglia da quello che potrebbe essere ugualmente sogno o realtà, lasciandoci alle spalle le mura del castello.

Visto al Castello degli Ezzelini, Bassano del Grappa

Giulia Tirelli