questionario spettacolo cresco

Spettacolo dal vivo: uno sguardo interno sull’indagine

Lavoratori dello spettacolo: ormai quando si sente parlare di questa categoria si pensa inevitabilmente agli occupanti del Teatro Valle, agli scioperi in sala; si pensa all’Enpals ormai SuperInps, si ricordano i commenti di alcuni politici riguardo una “casta di fannulloni” legati all’aumento della benzina di qualche mese fa per “salvare” il FUS (Fondo Unico per lo spettacolo). Molti sono i pregiudizi riguardo un settore il cui impatto economico viene a malapena considerato – almeno dalla maggioranza. In questo bailamme di voci contrastanti e chiacchiere a volte dispersive è proprio un atto di concretezza basilare a fare piazza pulita e a dire le cose come stanno. Ed è davvero insolito che questo atto arrivi proprio da una “casta” o considerata tale, che con un’iniziativa del genere dimostra di saper osservare se stessa, auto-analizzando problematiche economiche come pochi settori in Italia hanno fatto.
Stiamo parlando della ricerca sul settore dello spettacolo dal vivo lanciata da C.Re.S.Co. – con il supporto di Zeropuntotre – e realizzata dalla Fondazione Fitzcarraldo Onlus nel maggio scorso, attraverso la diffusione di un questionario per la raccolta di dati sul profilo dei lavoratori e sulle imprese di spettacolo presenti su territorio nazionale (leggi l’articolo). I risultati sono stati presentati a Roma il 25 novembre scorso all’Opificio Telecom Italia presso la Fondazione Romaeuropa.

Foto di Rossella Viti

Fare un’analisi approfondita ed incrociata dei risultati può essere molto complesso, un punto di vista interno – qual è quello della sottoscritta aderente al C.Re.S.Co. – può essere d’aiuto all’orientamento tra le maglie dei dati raccolti, chiarendo alcuni punti, a partire dalla motivazione stessa della ricerca. Tra le ragioni che hanno spinto più di settanta operatori nazionali a finanziare l’indagine vi sono: la totale mancanza di un sistema di leggi aggiornate sul finanziamento pubblico, l’assenza di modalità contrattuali coerenti alle specifiche esigenze del settore e che tutelino i lavoratori; l’inaccessibilità agli ammortizzatori sociali (se pensiamo al sussidio di disoccupazione annullato/cancellato ad avvallo di una legge del 1935!). A sommarsi vi è la necessità di fotografare una realtà quale quella del settore che è tutt’ora molto sfuggevole e di difficile comprensione sia a livello strutturale che economico.

Innanzitutto vi è la consapevolezza della parzialità del campione preso in esame, legato anche alla tipologia di operatori che hanno promosso la ricerca, ai mezzi di comunicazione usati per promuoverla, e alla distribuzione geografica dei promotori che si sono impegnati a diffonderla. Fondamentale è il taglio che si è voluto dare, non a caso infatti la ricerca è stata concentrata prettamente sull’ambito delle arti performative che hanno a che fare con il contemporaneo, con la volontà di “contare” gli operatori impegnati in una sfera che non rientra, se non per vie traverse, nella suddivisione del FUS (la cui distribuzione è tutt’ora ancorata a modelli desueti).

La grande partecipazione (ben 1200 domande compilate) a un questionario del tutto volontario e anonimo a detta dei tecnici della Fitzcarraldo è un dato rilevante e decisamente da non sottovalutare, che dimostra anche una forte autocoscienza del settore.

Da grande farò lo stagista!
Tra i dati più rilevanti della ricerca vi è la giovane età dei lavoratori (tutti tra i 27 e i 35 anni) con una esperienza medio-lunga alle spalle, indicando un’età di introduzione al lavoro molto bassa (tra i 23-24 anni). Questo dato potrebbe avere sia un aspetto molto positivo – rilevando l’immagine di un settore che permette l’inserimento già in età scolare (più del 43% degli intervistati è laureata!); sia un aspetto negativo, in quanto non è detto che l’introduzione nel mondo del lavoro equivalga direttamente a un posto fisso con relativa paga al seguito. A dimostrazione di questa ipotesi vi è la bassissima percentuale di contratti a tempo indeterminato, l’alta percentuale di lavoro volontario e a rimborso spese (rispettivamente abituale per il 31% e il 38%). Non dimentichiamoci che l’università italiana ormai “obbliga” gli studenti a effettuare un tirocinio formativo presso strutture professionali prima del conseguimento della laurea. Lo stagista è diventato quasi uno status quo dei precari italiani, e un asso nella manica di moltissime aziende (non solo nel mondo dello spettacolo!) che con la scusa dell’inserimento professionale si risparmiano mesi e mesi di personale retribuito, assumendo raramente i tirocinanti e alimentando, invece, un continuo ricambio. Il confronto con i dati Enpals registra inoltre in rapporto una differenza di circa 10 punti percentuali riguardo al numero di lavoratori tra i 25 e i 35 anni. Questo indica che una buona parte dei soggetti in questione non sono registrati all’Enpals: usufruiscono di altri sistemi contributivi o addirittura non ne usufruiscono affatto. (approfondiremo in seguito)

“Benedetta” sia la ritenuta! Tempo indeterminato un sogno per pochi.
Ora che l’Enpals è stato fuso con l’Inps, non vi saranno più molti dubbi sulla scelta del sistema contributivo… O tutto o niente! Il 78% degli intervistati ha dichiarato di essere iscritto all’Enpals, l’11% ha dichiarato di non essere iscritto ad alcun ente previdenziale. Ma anche coloro che sono iscritti non sempre sono assunti con forme contrattuali che garantiscono il versamento dei contributi. Se andiamo ad analizzare le più utilizzate: il contratto a progetto e la prestazione occasionale la fanno da padroni! Ben il 41% e il 50% dei lavoratori li utilizza abitualmente. Queste sono infatti le tipologie contrattuali che più si confanno all’intermittenza lavorativa che caratterizza questo settore. Possiamo supporre, infatti, che il tempo indeterminato sia utilizzato quasi esclusivamente dagli amministrativi alle dipendenze di grandi strutture, mentre che la ritenuta d’acconto sia il metodo abituale per pagare lunghi periodi di lavoro – come le giornate di prove – evitando al datore di incorrere in tassazioni pesanti (ricordiamo il 33% per l’assunzione contro il 20% della ritenuta).
Incrociando questi dati con quelli sull’utilizzazione degli ammortizzatori sociali (disoccupazione, infortuni, malattia, maternità) il quadro sembra ancora più inquietante. Se infatti lo stipendio più basso è quello degli under 26 e si aggira intorno ai 5500 euro annui (circa il 38 % del campione) e la retribuzione media totale è tra i 10.000 e i 20.000, stupisce che l’82% dei lavoratori dichiari di non aver usufruito del sussidio di disoccupazione nel 2010. Del restante 18% quasi la totalità ha usufruito della disoccupazione a requisiti ridotti (pari al 22% della paga delle giornate lavorate effettivamente l’anno precedente).
Possiamo dedurre quindi che una parte di questi lavoratori, non abbia raggiunto/dichiarato il numero minimo di giornate lavorative che garantiscono la disoccupazione (78 effettive), o che le abbia effettivamente lavorate ma che siano state retribuite con forme contrattuali quali la ritenuta (di cui sopra), il rimborso spese o – in casi estremi – senza alcun tipo di contratto.

foto Rossella Viti

Bianco o nero? Quando l’Italia è una Repubblica fondata sul volontariato!
Alla fine quel che conta non è la qualità del lavoro e neanche la quantità: “l’importante è lavorare!” In tempi di crisi questo è il ritornello. Accade dunque che per farlo si accetti qualunque condizione dando adito a un circolo vizioso che mette in difficoltà a lungo termine sia i dipendenti che i datori di lavoro. Parliamo del lavoro nero: un termine che non può essere certo utilizzato senza incorrere in gravi problematiche – per questo motivo non è stato adoperato dai rilevatori della Fitzcarraldo, che hanno preferito definirlo “lavoro volontario coatto”. Per lo stesso problema non è stato possibile porre agli intervistati una domanda esplicita su questa modalità retributiva. Incrociando alcuni dati è però possibile risalire a una percentuale che indica che almeno il 23% delle giornate lavorate sono al di fuori di quelle dichiarate all’Enpals, e rientrano dunque nella “sfera nera”. Un altro dato disarmante direttamente collegato riguarda le imprese di spettacolo e tutto il lavoro svolto e del tutto non retribuito. Analizzando il format: su 171 imprese per un totale di 3000 lavoratori dichiarati ve ne sono altri 800 volontari. Un numero impressionante che equivale quasi a un terzo del totale. Questo indica come il settore sia estremamente fecondo ma manchino le risorse per alimentarlo al pieno della sua attività.

Inutile sottolineare come una ricerca del genere smuova profondamente gli assi socio-politici del settore, soprattutto perché l’evidenza del dato sarà strumento utile a tutti coloro che intendano perseguire delle azioni volte al rinnovamento dei sistemi di finanziamento e alle pratiche di welfare per tutte le categorie di lavoratori coinvolte. Lo stesso C.Re.S.Co. ha messo in atto un dialogo con il MIBAC – Settore Teatro e con singoli deputati della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati e della Commissione Cultura della Camera dei Deputati. Auspicabile sarebbe che ricerche del genere venissero condotte anche in altri ambiti lavorativi, e più che da privati venissero promosse da enti pubblici, osservatori nazionali che monitorassero davvero lo stato dell’economia e “la salute” dei lavoratori italiani.

In questa analisi ho cercato di riassumere i punti fondamentali della ricerca riguardanti i lavoratori, per l’intero resoconto potete scaricare il pdf oppure andare sul sito www.progettocresco.it o www.fitzcarraldo.it.

Camilla Toso