recensione antonio latella

Francamente me ne infischio di Latella, o dell’euforia infelice

Recensione a Francamente me ne infischio (1. Twins, 2.Atlanta, 3.Black) – di Compagnia Stabile/Mobile Antonio Latella

"1.Twins" - foto di Brunella Giolivo

“1.Twins” – foto di Brunella Giolivo

1936, Margaret Mitchell pubblica il romanzo Via col vento, che diventa immediatamente un caso: 180.000 copie vendute in quattro settimane. 1939, Victor Fleming trasforma il romanzo nel film campione di incassi, tuttora imbattuto nella storia dei botteghini degli Stati Uniti e vincitore di dieci premi Oscar. Via col vento è una porzione della storia e della cultura americane e, in quanto tale, assorbe e rifrange, amplificandoli, i limiti, le aspettative, la crudeltà e le contraddizioni di una nazione. Dopo Un tram che si chiama desiderio – altro saggio teatrale sugli Stati Uniti e la loro decadenza (leggi la recensione) –, Antonio Latella torna sul soggetto: ancora l’America, ancora Vivien Leigh, ancora uno spettacolo ispirato a un film. In un impianto scenico semplice – che vede l’allitterazione di gabbie/casine bianche, in cui si accendono grappoli di lampadine, e di bandiere a stelle e strisce che diventano siparietti, vestiti, coperte –, Latella muove i suoi personaggi sovrascrivendoli a una drammaturgia ragionatissima.
Francamente me ne infischio si articola in cinque movimenti indipendenti ma coerenti e liberamente fruibili, ai Teatri di Vita di Bologna, nel modo che si ritiene più adeguato (uno di cinque, tre di cinque, l’intera maratona): Twins, Atlanta, Black, Match e Tara. Chi ne scrive ha optato per la seconda formula.

Tre Rosselle e tutte in una sola: l’America.
Il primo episodio, Twins, ricorda la filastrocca sospirata da una bambina. La giovane Rossella (Valentina Vacca), Alice nello spaesamento delle meraviglie, abito a pois e scarpette rosse, sogna. Sogna due Bart Simpson – mascherine di paillettes –, due Marilyn – vestite di bandiera, nelle pose delle sue foto più famose –, Neil Armstrong che gioca alla conquista degli Stati Uniti, lui così fiero di aver fatto sua la Luna, e perde. Imbronciata, Rossella cerca il suo Ashley, mentre i gemelli Tarleton, in rima, le raccontano il suo stesso fallimento. E l’America scorre languida, quasi ancora docile e divertita, ma già capricciosa e irragionevole nella sua aspirazione alla grandezza (alla maturità?).

"2.Atlanta" - foto di Brunella Giolivo

“2.Atlanta” – foto di Brunella Giolivo

Il secondo movimento, è un canto funebre stonato da una vedova allegra. Rossella (Candida Nieri) è una moglie sopravvissuta a un marito mai amato, mosca che si immagina farfalla, madre senza volerlo essere, ancora monella indisponente, eppure malinconica. Ad Atlanta c’è il ballo, si finge il benessere e lei vuole essere bella, con il suo vestito verde-dollaro e il cavaliere che invita, invadente, dal pubblico. E l’America diventa una donna che finge dietro grandi occhiali alla Audrey Hepburn. Avida, cinica, lugubre, tinge di nero il suo vestito bianco di bambina in un catino di bronzo.
Black è un grido terrorizzato abbaiato da un rifiuto, una belva umana ferita divenuta incendiaria. Rossella, una straordinaria Caterina Carpio, è reietto – come l’indiana e la “serva negra” che la accompagnano –, le è stata usata violenza, le è stato dato un movente per far esplodere la sua furia. Non più infantile, ma essere umano maturato nel peggiore dei modi, sceglie la vendetta e, finalmente, fa emergere la sua anima nero-petrolio che, intravista fino a questo punto, ora tracima. Aver perso l’ingenuità, però, non vuol dire aver acquisito lucidità, anzi: la belva Rossella non ha più criteri, né valori, né affetti; la guidano solo la ricerca del suo benessere, l’espiazione delle sue colpe, il superamento del suo dolore. E l’America brucia, è a pezzi, è vulnerabile, eppure fa la voce grossa, si impone, pistola alla mano, sulle minoranze della sua Storia e prevale.

"3.Black" - foto di Brunella Giolivo

“3.Black” – foto di Brunella Giolivo

Non è difficile riconoscere i segni disseminati sul palcoscenico di Francamente me ne infischio da Antonio Latella, non lo è leggerli: il ritratto degli Stati Uniti è fin troppo esplicito, a volte, volutamente puerile, spesso paradossale, eccessivo, come la nazione stessa. E il fatto che Rossella se ne faccia metafora è manifesto. Ma ciò che veramente sconvolge, l’asse portante sul quale si avvita l’intero spettacolo, dal delineamento dei personaggi a quello della protagonista – ancora una volta, l’America –, è la drammaturgia. L’opera compiuta da Federico Bellini, Linda Dalisi e dallo stesso Latella è estremamente sottile e consapevole e prevede, oltre alle evidenti citazioni del romanzo e del film – alcune delle quali materialmente lette come didascalie –, una serie di innesti originali, come il discorso di ringraziamento dell’attrice che interpreta Mummy, vincitrice di un Oscar speciale, o le massime di grandi intellettuali di colore, in un preciso dialogo con eterogenei e originali materiali testuali all’insegna della decostruzione. Il tessuto verbale, insieme ad alcune felici soluzioni sceniche – rimane memorabile, nel terzo episodio, il cumulo di bandiere americane imbevute di Jack Daniel’s intorno alle quali, come in un sabba pop, si dimena per un tempo indefinito Caterina Carpio – sottraggono lo spettacolo alla facile accusa di parossismo di chi si domanda: non sarà troppa, tutta questa America?

Visto ai Teatri di Vita, Bologna

Nicoletta Lupia

Tra Molière e Frisch c’è Latella

Recensione a Don Giovanni, a cenar tecoCompagnia stabile/mobile Antonio Latella

Don GiovanniEach man kills the thing he loves cantava una struggente Jean Moreau in Querelle de Brest di Fassbinder. Un motivo che torna come un monito nel Don Giovanni, a cenar teco, spettacolo diretto da Antonio Latella, per ricordarci che in fondo, questa cruda frase, interpretata con voce roca e spezzata da un’attrice-specchio della Moreau, rappresenta la verità. Don Giovanni è l’uomo-archetipo che vive d’amore, rincorre la passione travolgente, la cerca e una volta ottenuta ne fugge; un uomo che semina cuori spezzati, amori interrotti che trascinano alla pazzia, alla cecità, spingendo le donne a una vita lasciva o addirittura alla morte.

Antonio Latella e Linda Dalisi scrivono una drammaturgia originale che passa da Molière e arriva a Max Frisch, attraversando Fassbinder. Un testo dove Don Giovanni si strugge dalla noia e persegue l’amore per affermare la vita, mentre al contempo cerca la statua del commendatore per poter asserire la presenza di dio e riempire di senso la sua vita. Don Giovanni, a cenar teco è un teorema matematico, fatto di calcoli per conquistare una donna e per dimostrare l’esistenza di Dio; ma la matematica può dimostrare ciò che è rarefatto e astratto come i sentimenti? La prima si basa su forme geometriche, l’altra su labili sensazioni che sfuggono. I conti non tornano mai.

Don Giovanni LatellaLatella, che firma anche la regia, scardina un’ingessatura del teatro, inteso nel senso più classico: ci mostra un protagonista-bambino che gioca con dinosauri di plastica e, con questi, ci racconta la storia pregressa, che muove come un filo tutta la trama seguente. Tutto è fortemente attaccato alla realtà, non ci sono presenze ultraterrene; non ci sono morti che dall’aldilà inghiottiscono Giovanni per la sua colpa, per il suo libertinaggio, per la sua miscredenza.
Durante tutto lo spettacolo il protagonista vorrebbe andare a cena – forse vorrebbe morire? –, cena che sa essere l’appuntamento ultimo con la vita; ma l’atto finale, tanto anelato, arriva solo quando Giovanni è ormai invecchiato e i suoi vestiti si sono fatti setteceschi, in una scena fatta di pura poesia.

Interpretato da Daniele Fior, Giovanni è umanissimo nei suoi dubbi e vive soprattutto di luce riflessa, di proiezioni che le donne costruiscono su di lui: per la maggior parte del tempo il protagonista non c’è, ma tutti ne parlano. Alla base dello spettacolo, un gioco fatto di continui svelamenti, come quando tutte le donne si riuniscono per parlare del loro amato, sfogandosi mentre le luci della platea si accendono, rivelando l’ipocrisia di quest’uomo, il suo essere truffatore: la natura di Giovanni viene così mostrata. Il proiettore si muove a vista, i personaggi si vestono e si svestono di fronte agli spettatori, un solo piccolo lembo di tessuto appeso rimanda al ‘700: ma è destinato a cadere come un macigno sopra Charlotte, interpretata da Caterina Carpio, poiché il suo corpo non regge la finzione dell’amore e quindi la povera donna muore, inadatta all’artificio.

Con Don Giovanni – realizzato nel 2010 –, Antonio Latella, con la sua compagnia Stabile/Mobile, ha compiuto un passaggio importante che lo ha poi portato sempre più verso uno sradicamento del meccanismo teatrale che ha visto il suo apice ne Un tram che si chiama desiderio. Il proiettore che segue i personaggi facendo luce su momenti oscuri, assieme il mix di prosa, poesia, lirica, danza, karaoke ci introducono in uno stile che affastella materiale per uscire dai canoni fissi del teatro, rompendo i confini in cui spesso è relegata la prosa; e mettendo così il proprio pubblico di fronte a domande a cui deve provare a rispondere, una volta tornato a casa.

Visto al Teatro Annibal Caro, Civitanova Marche

Carlotta Tringali

Il Tram di Latella: realtà, finzione e America

Recensione a Un tram che si chiama desiderio – regia di Antonio Latella

foto Brunella Giolivo

Antonio Latella, in una bella intervista curata da Patrizia Bologna che correda il libretto dello spettacolo, dice che al cuore della propria versione di Un tram che si chiama desiderio c’è una frase di Blanche, protagonista del dramma di Tennessee Williams: «Non lo voglio il realismo». Si può partire da qui per parlare dell’allestimento e del lavoro di un artista che, negli anni, continua a confermarsi fra le eccellenze della regia e che in questo caso ha portato in scena, con una compagnia di generosissimi attori, uno spettacolo paradossalmente essenziale, fondato sulla pressione della parola – gestuale e feroce, scarnificata più che incarnata – che agisce su un palcoscenico ingombro di icone malandate, sostenuta dall’incredibile lavoro vocale degli attori in scena.

C’è uno stridore di fondo, a volte di difficile sopportazione, che richiama sempre lo spettatore al palcoscenico: abbagliato fin da prima che cominci lo spettacolo si destreggia, come gli interpreti, fra il labirinto di mobili e la jungla di cavi che è la casa dei Campi Elisi in cui si svolge tutta l’azione; con le luci in sala quasi sempre accese, il rumore bianco “a palla” ogni volta che c’è una lite, la colonna sonora dei Sistem of a Down e una recitazione sempre sull’orlo del proscenio, lo spettacolo provoca allo stesso tempo un inquietante ispessimento della quarta parete e le sue numerose fratture. Come il grande attore della tradizione o come i performer delle arti visive, quelli del Tram si rivolgono sempre al pubblico, quasi sfacciatamente; mentre tutto è allo stesso tempo descritto e previsto dalla “didascalia vivente” (Rosario Tedesco), cifra ormai distintiva del lavoro di Latella: il curioso cortocircuito di realtà e finzione richiama in causa continuamente lo statuto di essere e non essere personaggio e attore, sovraccarica l’attenzione dell’osservatore. Solo che l’interprete non prende posizione nei confronti di quello che sta dicendo o accadendo. Non si tratta di straniamento alla Brecht, nonostante ne siano presenti diversi elementi: l’immedesimazione dell’attore nel personaggio è un processo che avviene in scena, che cala sordidamente con la follia che coglie Blanche DuBois (Laura Marinoni), benestante del Sud che, ormai decaduta va a vivere dalla sorella Stella (Elisabetta Valgoi) e il cognato. Se all’inizio dello spettacolo nessuno esegue ciò che dice la didascalia e si resta immobili a guardarsi in giro, man mano ci si adegua e si concretizzano quei dettami. Dal minimalismo quasi astratto dell’inizio, le azioni si fanno sempre più mimetiche e realistiche, addirittura emotive, fino a sfiorare il melodrammatico nel secondo atto, quando anche l’abbigliamento, inizialmente pop, lascia spazio a costumi più “adatti” all’America degli anni Cinquanta: prima con i doppiopetto di Stanley (il marito di Stella, Vinicio Marchioni) e Mitch (Giuseppe Lanino), poi con l’elegante vestizione di Blanche e la gravidanza di Stella che, prima fatta da un cuscino, si converte in un pancione dichiaratamente di cartapesta… Si potrebbe dire che il Tram si concretizza, si materializza – ed è proprio questa la follia di Blanche, proprio per lei che non voleva realismi. L’esito è uno spettacolo straziante, sempre ai confini fra realtà e finzione, che se da un lato, con tutti quegli accorgimenti, impedisce di seguire dall’interno la disgregazione individuale e relazionale dei protagonisti, dall’altro trascina lo spettatore nei meandri stessi della follia rappresentata. Dopo scene e scene quasi interamente “rassicuranti” sulle linee dell’astrazione, ci si trova assorbiti nel mondo di Blanche, intrappolati a lottare con un’immedesimazione inaspettata, a trovare dannatamente fuori luogo quei tocchi di realismo, senza sapere bene il perché.

foto Brunella Giolivo

E poi c’è l’America. E non (o non solo) perché questo sembra esser diventato quasi un nodo del suo lavoro più recente – si pensi al ciclo dedicato a Via col vento – ma per l’intensità della concentrazione che il regista e i suoi attori dedicano all’immaginario pop americano, alla sua sempre sorprendente disgregazione, al suo disfacimento. «Io sono americano, nato e cresciuto nel più grande paese della terra e me ne vanto»: Stanley, il macho della situazione, lo balbetta a fatica. Sembra di barcollare in un quadro di Roy Lichtenstein. Sulle t-shirt di tutti ci sono Marilyn e Marlon Brando, la bandiera americana e Obama; ovunque, una quantità infinita di brillantini, strasse e paillettes. C’è il riferimento al cinema, alle sue tecniche (loop e repeat) in un palcoscenico che sembra un set, zeppo di microfoni e con le luci a occupare tutti i mobili; e poi musical e strobo, coca-cola e pop corn. Per non parlare del precisissimo tessuto sonoro, che va da Happy Birthday al Joe Cocker di 9 settimane e mezzo, dai Led Zeppelin ai Sistem of a Down.

Tanto ci sarebbe da dire sui rapporti fra (quel che resta dello) straniamento ed estetica pop, fra l’anti-immedesimazione più vibrante e l’horror delle icone che popolano ormai come fantasmi l’immaginario post-capitalista, in disfacimento quanto il dispositivo socio-economico che l’ha prodotto. E, pure, delle relazioni che queste polarità etiche ed estetiche si trovano a volte a intrattenere con le punte d’eccellenza della regia – che sembra anch’essa, come ogni canone del secolo scorso, carezzare una crisi di una certa consistenza. La risposta, in questo caso, si potrebbe trovare nell’esito di questa triangolazione che, nel pieno della messa in discussione del ruolo delle figure di mediazione (come il manager, il broker o, appunto, il regista), trova rinnovate formule di rapporto con il pubblico – al di là della ormai tradizionale opposizione fra immedesimazione e straniamento – e con la propria attualità, tentandone di mettere a punto i nodi e di inseguirne le tortuose genealogie.

Visto al Teatro Due, Parma

Roberta Ferraresi

La foresta urbana di Antonio Latella

Recensione a Die Nacht Kurz vor den Wäldern – di Antonio Latella

Antonio Latella e Clemens Schick - Ph. Daniele Fior

È una voce nell’oscurità quella che accoglie gli spettatori all’ingresso al Teatro Carignano di Torino, per l’inaugurazione della terza edizione del festival Prospettiva, che in onore dei 150 anni dell’Unità di Italia sottotitola “Stranieri in patria”. In scena, Clemens Schick per la regia di Antonio Latella interpreta il testo del francese Bernard-Marie Koltès Die Nacht Kurz vor den Wäldern (traduzione dal francese di Simon Werle). Un testo forte, in cui le parole sanno trafiggere e trapassare nonostante l’estraneità della lingua: la drammaturgia penetra per la forza della recitazione dell’attore tedesco, che usa la propria lingua madre, creando un distacco tra sè e il pubblico che assume connotazioni interessanti se si considerano i flussi migratori che caratterizzano la nostra epoca. La bravura di Latella risiede proprio nel saper gestire questo incontro polilinguistico e, di conseguenza, culturale, in modo da creare un impasto che sappia restituire il senso di un’indignazione forte e potente che coinvolge donne e uomini di ogni nazione, stato ed etnia. Ne siamo stati testimoni durante il fine settimana passato con le manifestazioni che si sono tenute in tutta Europa, e che in Italia hanno segnato un ulteriore passaggio di una storia che, ogni giorno, si fa più dolorosa. Le battaglie si inaspriscono perché le persone perdono fiducia: si sente il bisogno di saper ritrovare quel senso di appartenenza che sta svanendo sotto la spinta di classi politiche e categorie economiche egoiste e disinteressate nei confronti dei popoli di cui si trovano alla guida o di cui amministrano i beni. In questo senso (e in questo momento storico) è difficile analizzare la messa in scena della nuova compagnia di Antonio Latella senza tenere in considerazione il clima sociopolitico attuale, considerato nelle sue declinazioni più emotive. Il sentimento sociale sembra infatti coincidere sempre di più con lo stato d’animo del protagonista, che ricorre ad un linguaggio talvolta scurrile e crudo per riferirsi alla condizione in cui si ritrova ingabbiato a causa del suo essere “straniero” (basti pensare a quando afferma che «quelli che ce lo mettono in culo» sono ovunque, anche tra i politici, i poliziotti e i ministeri).

Antonio Latella - Ph. Anna Bertozzi

Il testo scelto da Antonio Latella ben esprime questo disagio, che non è più solo il malessere di una nazione isolata, ma di molte persone, legate le une alle altre dalla necessità di far sentire la propria voce e dalla speranza che questa venga raccolta ed ascoltata. Non importa da chi, basta uno sconosciuto. Ed è infatti ad un passante che parla il protagonista del testo di Koltès: uno straniero come tanti, dall’abbigliamento dismesso nel suo completo grigio indossato sopra un petto nudo. Il movimento continuo e la corsa sul posto a cui l’attore è costretto per quasi tutta la durata dello spettacolo, mettono alla prova fisicamente l’interprete tedesco che si ritrova a vomitare il proprio disagio politico, interiore ed emotivo. Una scelta dolorosa, ma che grazie all’interpretazione di Schick sa penetrare nel pubblico, lasciandosi alle spalle le differenze linguistiche: sono corpo e  voce che, attraverso inclinazioni minime e millimetriche, riescono a scatenare quel senso di affanno che si prova quando tutto ciò che rimane è la speranza (unica prospettiva che si apre in un momento di disperazione, in seguito ad episodi di violenza e di delusioni). Attraverso le parole del protagonista purtroppo filtrate da sopratitoli che non riescono a dare atto della complessità del testo, restituito attraverso un’interpretazione veloce e tagliente si scivola all’interno di una città avvolta dal buio, in grado di abbracciare quell’oscurità che si accumula nelle viscere di chi ha avuto una vita di soprusi e felicità mancate. Koltès/Latella ci parla di una politica senza nazione, eppure reale e concreta, di un’umanità degradata che richiama alla mente i soggetti di Kirchner e di Grosz, di una sensualità che nasconde il marcio di una società (come non pensare alle nostre veline-ministre-parlamentari-assessori?). Ed è la bravura tecnica di Schick che riesce a rendere il senso di uno sprofondamento che dalla denuncia sociale passa ad un’intimità segretamente corrosa, senza mai ricorrere a passaggi bruschi e artificiosi. Eppure la voce lontana che si ode ancora prima che la rappresentazione abbia inizio, altro non è che la voce di un Signor Nessuno: un suono soffocato, che a malapena si riconosce nel brusio di una società che pare essere insofferente al dolore altrui. Un lamento che può essere inghiottito in qualsiasi momento, come testimoniano le pause che scandiscono le fasi del monologo. Latella sceglie infatti di far scomparire il protagonista – e con lui le sue parole – non nell’oscurità, bensì in una luce accecante, abbagliando così il pubblico in sala che del protagonista non riesce che a scorgere la sagoma. Una scelta che rivela la potenza di una società in cui l’equilibrio instabile passa attraverso la gestione dei mezzi di comunicazione di massa: televisione e radio si pongono come strumenti di controllo del potere, come ai tempi delle propagande dei vari nazismi e fascismi europei, ma non solo. Ed è infatti in questo clima che oscilla tra la situazione politica attuale e i tempi delle grandi dittature che si inseriscono le scelte registiche di Antonio Latella. L’intelligenza dell’interpretazione del testo si incarna proprio nell’abilità non solo di muoversi tra gli slittamenti emotivi e semantici legati agli episodi narrati, ma soprattutto di creare quell’incertezza temporale in grado di far vacillare la percezione dello spettatore: alternativamente  ci si riconosce nelle parole del protagonista e, con la stessa intensità, nell’indifferenza di quel passante senza volto che è necessario rincorrere per trovare l’ascolto di cui si sente il bisogno nei momenti di sconforto.

Nonostante gli ostacoli imposti dalla fruizione di uno spettacolo in una lingua sconosciuta – che ben si adatta alla durezza del testo – Antonio Latella riesce a calibrare con precisione alchemica le giuste dosi di critica sociale e sconforto personale: la messa in scena lascia attanagliato lo spettatore in una morsa mista di dolore, desolazione e sconforto, senza mai far cadere Clemens Schick nel patetismo di una recitazione caricaturale dei diversi stati d’animo. Complici la drammaturgia di Catherine Schumann, le musiche di Franco Visioli, le luci di Simone De Angelis, i costumi di Graziella Pepe, i movimenti di Francesco Manetti e la traduzione italiana dei sopratitoli di Luca Scarlini. A fine rappresentazione, si rimane sconvolti dalla familiarità con cui si è stati in grado di seguire la vicenda di un tedesco (di dove? di quale nazione? e dove si trova?) che per una notte intera ha percorso l’oscurità, per poi scomparire urlante e tremante in quella luce che anziché portare chiarezza scatena quesiti che rimangono senza risposta, sulle note di un pianoforte che accompagnano la dissolvenza finale.

Visto al Teatro Carignano, Torino (Prospettiva 150)

Giulia Tirelli

La povera patria di Latella

Recensione a Le nuvole – regia di Antonio Latella

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Spesso si rimettono in scena gli antichi classici rivendicandone l’universalità dei temi, e quindi il loro eterno valore; ma quando si tratta di una commedia di 2500 anni fa sull’educazione delle nuove generazioni e sulla corruzione morale quale è Le nuvole di Aristofane – riallestito da Antonio Latella per il Festival dei 2Mondi di Spoleto lo scorso anno– forse la spiegazione di tanta attualità sta in un ben più amaro: “nulla è cambiato”. E il regista campano suggerisce che, anzi, la situazione è peggiorata.

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La porta del pensatoio, dove Socrate istruisce i suoi adepti, si è rimpicciolita e ha preso le forme di un boccascena con tanto di siparietto rosso: l’ingresso al sapere è diventato più ristretto, ostico; la cultura  si è trasformata in intrattenimento e il filosofo (un eccezionale Massimiliano Speziani) in un predicatore/majorette che cantando “follow me!” raccoglie proseliti. Insieme a Speziani, che dà anche voce o movenze al pupazzo di Fidippide, figlio fannullone (o bamboccione) del vecchio Strepsiade, in scena altri due clown (che conservano di questa magica figura circense solo le smisurate calzature): Annibale Pavone, che interpreta con grazia e bravura l’anziano padre, e Marco Casciol, irriverente e convincente discepolo della scuola. Maurizio Rippa, infine, in tutù e ventaglio di piume, diverte con le sue movenze da improbabile soubrette e incanta con le sue incursioni musicali. Ma dire che la commedia aristofanea – tradotta da Letizia Russo sia stata riadattata per soli quattro attori sarebbe, per questa messa in scena, riduttivo: giocato tutto tra ribalta e platea, lo spettacolo si fa forte di una metateatralità che coinvolge il pubblico in prima persona. Alla ricerca di una relazione che è forse il vero, unico lieto fine dell’amara commedia.

Antonio Latella, grazie anche all’incredibile versatilità dei suoi attori, costruisce un lento e fortissimo climax di significato che fa di questo suo nuovo lavoro uno spettacolo divertente, leggero, poetico, amaro e profondamente e sottilmente  intelligente. Se il primo impatto è cabarettistico, clownesco ed irriverente, traducendo con originalità ma coerenza i toni dell’antica commedia, al ritmo di scheletri che, scendendo lentamente dalla graticcia,  riempiono l’aria in scena come nuvole, tutto si fa più sinistro e serio. Il desiderio di Strepsiade di far apprendere al figlio l’arte per eludere la giustizia, richiamando alla memoria personaggi attuali ben noti, fa incrinare l’atmosfera festaiola: un mondo in cui tutto diviene relativo, perché l’arte oratoria e un gran sorriso assicurano il successo nonostante processi e appurate illegalità – e questo si insegna ai giovani – non può che garantirsiun inesorabile declino. Se poi anche il “discorso giusto” sull’educazione – quello che dovrebbe rifarsi ai principi della tradizione, dell’austerità e del rispetto, in contrapposizione al “discorso ingiusto” più lascivo e vizioso – risuona come un ben meno condivisibile proclama fascista, lo spettatore, in luce ed eletto a giudice dell’agone, non sa proprio

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più cosa scegliere. L’unica cosa che gli resta da fare è tornare in silenzio nel buio della platea, a constatare il lento abbruttimento dell’uomo: gli scheletri, in posture che dipingono in scena una sorta di giudizio universale, si involano; sul palco appaiono tre scimpanzé, di cui uno con la fascia tricolore. La figura umana è vitale nella sua immagine di morte, e bestiale e disumana nelle sue forme in vita. Maurizio Rippa al microfono, con la sua voce delicata, intona una canzone (Povera Patria di Battiato) dolce e atroce, come una ninnananna che culla l’assonato popolo italiano nell’ossimorico tentativo di risvegliarlo. Un lungo letargo, e intanto “nel fango affonda lo stivale dei maiali. Me ne vergogno un poco, e mi fa male vedere un uomo come un animale”.

Una scena finale magistrale, toccante, che chiude uno spettacolo impegnato nel senso più profondo del termine, perché si assume la responsabilità di ricercare un rapporto più umano e diretto con la platea senza, per questo, appiattire o semplificare nulla. L’idea che alla gente comune si debbano dare divertimenti leggeri, semplici, perché “se no non capisce”; il pregiudizio che il popolo sia ignorante e superficiale: ciò lo rende tale. Una spirale di instupidimento che inverte l’evoluzione umana verso la barbarie, e che questo spettacolo cerca di minare obbligando il suo pubblico a fare qualcosa che da tempo, ormai, non gli viene più richiesto: pensare.

Visto al Teatro Verdi, Padova

Silvia Gatto