recensione città di ebla

The Dead: Città di Ebla fotografa Joyce

Osservazioni su The DeadCittà di Ebla

Ph. A. Boscato

Prosegue il lavoro di Città di Ebla sul racconto di James Joyce The Dead e l’indagine sulla fotografia a teatro: una ricerca complessa, che apre una molteplicità di letture disseminate in questo secondo studio presentato a B.Motion Teatro 2011. Un frammento che dimostra la necessità della compagnia di riprendere quel sezionamento delle potenzialità visive insite in pillole letterarie perfettamente compiute nella loro forma: la scrittura. Claudio Angelini, dopo La metamorfosi kafkiana, riprende un percorso di indagine rischioso, ma che — al di là del risultato scenico — permette di spostare la percezione dello spettatore, creando cortocircuiti interessanti nelle modalità interpretative ormai acquisite dal pubblico teatrale (o almeno da una parte di esso) contemporaneo: i linguaggi continuano ad incrociarsi sulla scena e non solo, dando luogo ad uno spazio in perenne movimento in cui far confluire il bisogno di rompere stilemi e moduli che inaridiscono la comprensione del reale. The Dead si configura come intervallo di sperimentazione profonda e coerente, ma soprattutto aperta ad accogliere, inglobare e sintetizzare codici, magari sedimentati, ma che trovano qui un interstizio per spingere il proprio confine “un po’ più in là”.

È ancora un ambiente intimo e privato che attira l’interesse di Città di Ebla: se per La metamorfosi l’azione si svolgeva in un bagno, qui ci troviamo ad osservare vouyeristicamente una stanza da letto dai contorni definiti, resa irreale da un controluce suggestivo e tecnicamente impeccabile. Un velo separa lo spettatore dalla realtà scenica, creando una distanza altamente significativa dal punto di vista drammaturgico. Lo svolgimento si mostra come un istante di quotidianità strappato dalla sua dimensione originaria, un’inquadratura fissa che conserva la profondità di campo di wellesiana memoria. Una prospettiva perfettamente a fuoco, incorniciata come un piano sequenza cinematografico che esaurisce in se stesso una narrazione apparentemente lineare, scandita da silenzi e musiche di Janis Joplin. Il Tempo scivola lentamente all’interno della rappresentazione di un quadro rubato da un universo interiore e personale, trascinando il pubblico in un limbo inizialmente rassicurante: la scena restituisce un’energia vitale, destabilizzante se associata alle scelte estetiche altamente evocative. Già a partire da questa frizione, si crea una rottura che lentamente introduce a una memoria traumatica: l’abbraccio della luce in scena si trasforma lentamente in trappola del ricordo, della staticità, della morte. Una dimensione, questa, cara alla fotografia, arte dell’istante e del congelamento, della vita fissata in un tempo immortale, che si inserisce prepotentemente sulla scena, trasformandola in un luogo di proiezione di fotogrammi e di sofferenza accennata. Il pubblico si trova catapultato in un limbo dalle svariate connotazioni, narrative, semantiche e temporali, in grado di produrre quello sfasamento tra la ricerca di un senso e una chiave di lettura che si situa tra i diversi linguaggi. La potenzialità insita nella scelta di proiettare una serie di fotografie (catturate in real time) è riscontrabile proprio nella decisione di rappresentare la memoria attraverso una forma espressiva che trova nei suoi risvolti temporali il proprio punto di forza: attraverso la staticità delle immagini si ripercorre un viaggio che riporta al punto di partenza, al momento scatenante quella rievocazione, e che cristallizza le fasi del lutto e della sua elaborazione. È possibile leggere all’interno di questo sviluppo, una riflessione sulle arti e i loro punti di contatto: se già in La jetée di Chris Marker (felice esperimento di un film costruito accostando freeze frames) il mezzo cinematografico veniva fatto collidere con la fotografia, a teatro l’operazione rivela tutto il suo potenziale. Costringere il pubblico alla fruizione di un’arte “morta” nel tempio della rappresentazione dal vivo, provoca un senso di spaesamento simile a quello che si prova nel momento in cui viene a mancare una persona amata, obbligando a risolvere traumi e sofferenze.

Nonostante la pertinenza e la profondità di analisi che nasce da una lettura filosofica e visiva dell’opera e della biografia di James Joyce, l’attrito provocato dalla giustapposizione delle due parti di cui si compone The dead risulta ancora troppo forzato, forse a causa del mascheramento del rapporto tra performer (Valentina Bravetti) e fotografa (Laura Arlotti). Una relazione interessante, che tuttavia non si percepisce in questo secondo studio, ma che − se sviscerata − potrebbe contribuire a rafforzare quell’idea di ombre che riemergono modificando la percezione del presente e restituendo il senso di un passato in continuo movimento. Una questione decisamente intrigante, sulla quale Città di Ebla si sta ancora interrogando e di cui continua a ricercare una compiutezza formale ed estetica.

Visto a B.Motion Teatro 2011, Bassano del Grappa (VI)

Giulia Tirelli

Affascinante Metamorfosi

Recensione a La Metamorfosi – Seconda MutazioneCittà di Ebla

La Metamorfosi - Città di Ebla

L’antefatto kafkiano è noto: Gregor Samsa scopre di aver subito una metamorfosi, ritrovandosi ad assumere le sembianze di uno scarafaggio. Uno dei testi più celebri dello scrittore di Praga, nonché uno di quei capolavori immaginifici e concettuali difficili da pensare in una trasposizione teatrale, è stato affrontato con temerarietà e forza visionaria da Città di Ebla. La MetamorfosiSeconda Mutazione è un lavoro essenziale, esteticamente ineccepibile e sonoricamente coinvolgente, che non si limita a tradurre in immagini l’omonimo racconto di Franz Kafka al quale si ispira, ma, al contrario, lo vive nella sua forza più vitale in scena, aprendo a nuovi, possibili significati.

Ideato e diretto da Claudio Angelini – curatore, anche, di un’illuminazione di grande effetto e accuratamente studiata –, lo spettacolo diviene pulsante grazie all’incredibile performer Alessandro Bedosti: un corpo puro, totalmente presente e protagonista, vibrante, potente, in grado di comunicare, con una coreografia corporea poetica e credibile, la metamorfosi subita da Samsa.

Rinchiusosi in bagno per fuggire all’assillo di una segreteria telefonica sintomatica di una vita alto-borghese fatta di rapporti formali, doveri professionali e obblighi famigliari, la sua metamorfosi assume i tratti di una rinascita. Fuggendo alla propria immagine riflessa nello specchio, è nella vasca che il protagonista trova rifugio per poi uscire dall’acqua cambiato. Un’acqua che comincia a trasudare dalle pareti stesse della stanza perfettamente ricostruita in scena: una sorta di liquido amniotico che, avvolgendolo sempre più, lo accompagna nel difficile e sofferto processo di trasformazione. Ma quando la metamorfosi è giunta a compimento, il bagno-box che lo ha protetto ma anche chiuso per tutto il tempo diviene claustrofobico, opprimente, stretto: l’insetto può e deve venire completamente alla luce. Può così abbracciare la nuova forma che ha assunto – non scelto, ma nemmeno subito – nell’immagine ingigantita e scultorea di un insetto, mentre la parete-vetrina della stanza da bagno si tinge di un liquido coagulato che staglia un’ombra sinistra sul finale di quello che sembrava essere un processo non solo di trasformazione ma anche di liberazione. Una conclusione criptica, dalle molteplici possibilità interpretative, chiude un lavoro sicuramente complesso ma che probabilmente non chiede di essere capito – e quindi interpretato – ma semplicemente sperimentato, sentito, percepito. Perché va a sondare negli anfratti più oscuri dell’essere umano e della sua disumanizzazione, nel senso di divenire – o tornare a essere – animale, pura energia corporea, pulsazioni vitali: essere vivente. La vera larva è quella dell’inizio, l’uomo in giacca e cravatta, in poltrona, tediato dalla routine; un corpo sgonfio, vuoto, oppresso: forse il vero “mostro” della storia, nel quale si è trasformato lentamente, senza potersene rendere conto, per poi esplodere in una seconda mutazione.

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari

Silvia Gatto