recensione danza padova

Tra rose, spine e corpi violati a Variazioni Impreviste

Recensione a Gonzago’s rose – di Compagnia Tardito/Rendina e Will – di Valentina Buldrini e Martina La Ragione

Si è concluso il 29 marzo il festival Variazioni Impreviste, felice esperimento ambientato a Padova e condotto da Sandra Zabeo per seminare la giovane danza d’autore in una città la cui politica culturale sembra essersi sedimentata sulla logica del grande nome e del grande evento. All’interno della rassegna ospitata dai Carichi Sospesi e dal Teatro delle Maddalene non sono mancati appuntamenti importanti, tra cui lo storico Gonzago’s rose della Compagnia Tardito/Rendina  e Will di Valentina Buldrini e Martina La Ragione, progetto vincitore del Premio Equilibrio 2011. Quattro corpi per due spettacoli in cui la figura umana si presta come territorio per la creazione di scenari al limite tra erotismo e violenza.

Ph. Sandro Carnino

Gonzago’s rose nasce nel 1999 dall’incontro dei torinesi Federica Tardito e Aldo Rendina e dalla volontà dei due di confrontarsi con la creazione d’autore in seguito a quello che loro stessi definiscono un «nomadismo professionale» che li ha portati a lavorare con alcuni dei maggiori coreografi della scena nazionale e internazionale. Lungi dall’essere un leggero divertissement, lo spettacolo riesce a strappare al pubblico sorrisi – e talvolta vere e proprie risate – che del comico conservano solamente gli schemi interpretativi. L’attraversamento di quadri che rimandano alla vita di coppia – domestica e non – si carica di un erotismo crescente, capace però di celare la violenza che sottende i rapporti di genere tra i due protagonisti, Gonzago (Aldo Rendina) e Rosalina (Federica Tardito). In quella che appare come una caricatura della cavalleria romanzesca, lo spazio della scena accoglie una concatenazione di nonsense che assume la forma del flusso di coscienza, in un susseguirsi di sketch pubblicitari dal tono demenziale. Tra coreografie e melodie farsesche, si nascondono però le amarezze di una vita di coppia logorata dal passare del tempo, in cui la passione riesce a rivivere solo grazie alla memoria di vecchie danze a cui i protagonisti sembrano aggrapparsi con una leggerezza che lascia intuire la caducità di un amore consumato e di cui si conservano le sole apparenze. La potenza della regia di Gonzago’s rose si rivela tutta nell’abilità con cui i due performer tessono sotto gli occhi di uno spettatore trascinato dalle risate la storia di due universi distinti e distanti, nascondendo la tragedia di una donna costretta a rifugiarsi in un mondo di illusioni pur di mantenere vivo il ricordo di una felicità che è oramai svanita. Una fiaba rovesciata, in cui c’erano una volta un principe e una principessa felici e di cui rimangono una bella addormentata e un cavaliere che da molto tempo si è allontanato dalla torre in cui lei giace.

E se in Gonzago’s rose l’ironia cela una violenza dalle tinte domestiche, Will di Martina La Ragione e Valentina Buldrini sembra invece sondare le pieghe di un corpo che trascende la sua umanità, per rivelare la bellezza di una carne erotica, aggressiva, animalesca. Le performer – intrappolate in una gabbia che pare fatta di organza – non temono di far correre lo spettatore su un filo che – in qualsiasi momento – potrebbe farlo precipitare in una zona oscura, sepolta sotto secoli di buone maniere e dècor. Martina La Ragione e Valentina Buldrini giocano con il desiderio del pubblico, plasmando i propri corpi su di un erotismo grottesco, angosciante, in grado di tracciare le linee di un vuoto all’interno di musiche che sembrano voler aggredire l’orecchio per insinuarsi nelle fessure delle meningi. I contorni delle due figure si compongono, spezzano e ricostruiscono costantemente, muovendosi tra i limiti dell’umano e  del non-umano, e – perché no – del troppo-umano: difficile, se non impossibile, definire la natura delle creature in scena, costruite come sono su di una trama di provocazione, consapevolezza e lussuria. Una cupidigia tessuta su un immaginario intermediale, capace di richiamare alla mente le puttane della milleriana Città Vecchia di Sin city, la sensualità dei più socialmente accettati night club con le loro lap-dancer, i corpi dei video di Chris Cunningham e dei film di Cronenberg fino a quelli deformati del videogioco di culto Silent Hill, per attraversare poi i colori e le forme degli horror giapponesi. È in questo immaginario diviso tra vita quotidiana, comics, cinema, videogame e rave party che sembrano snodarsi le linee di ricerca di uno spettacolo la cui eccellenza è da attribuire alla capacità di creare scorci in cui mai i gesti eccitanti scadono nella mera provocazione. La sinuosità e la potenza della muscolatura femminile si rivelano infatti strumenti ideali per indagare i tratti di una società che ha costruito se stessa sulla perfezione di corpi destinati a essere violati, fisicamente e psicologicamente: lo spettacolo sembra infatti ripercorrere le tappe di un percorso dall’alba all’oscurità, dal risveglio/nascita a una maturità in cui l’esibizione di zone erogene non lascia spazio ad alcuna analisi psicologica, per perdersi nell’ancestralità di un desiderio sessuale che risuona a ritmi ipnotizzanti di nastri magnetici consumati. La costrizione, a cui sono sottoposti i sensi, si insinua quasi fastidiosamente in ogni parte del lavoro, rivelando però la potenza di movimenti ossessivi che esplodono in un quadro finale liberatorio: un arrivederci che fa scivolare lentamente i corpi all’esterno dell’elegante gabbia in cui hanno abitato durante lo spettacolo, mentre il pubblico si lascia abbracciare da un quanto mai significativo Goodbye di uno dei più affermati musicisti della scena elettronica internazionale. Ed è sulle note di Apparat che infatti le danzatrici abbandonano la scena, lasciando che il riverbero dei bassi accompagni il decadimento di una tensione che solo a scena vuota lascia spazio a una pietas di umana memoria.

Visti al festival Variazioni Impreviste, Padova

Giulia Tirelli