recensione festival santarcangelo

Un coro sul riso tra forma e coscienza

Homo Ridens - locandina di Rojna Bagheri

Nell’ultimo fine settimana di Santarcangelo 41, in linea con il susseguirsi di cori che hanno costituito il programma del Festival (sotto la direzione artistica di Ermanna Montanari), una pluralità di voci apre ad una riflessione attorno al riso: dall’atto inteso come reazione del singolo tanto alla Storia quanto agli accadimenti politici, culturali e sociali dell’oggi, all’azione del ridere in sé, con le sue modificazioni tonali e facciali. Ad inaugurare questo momento – così in successione come visto – è stato Teatro Sotterraneo con Homo Ridens, la nuova produzione della compagnia fiorentina che ha debuttato lo scorso giugno a Castiglioncello. Il lavoro si presenta come creazione site-specific sul tema della risata: ogni tappa rinnova lo spettacolo interagendo e confrontandosi con il precedente. Homo Ridens è un test sul pubblico, sulla sua reazione di fronte a immagini e scene crudeli e violente: fotografie di un mondo arido e povero, tragedie che conosciamo solo perché trasmesse e rese note dalla televisione; realtà così distanti o non appartenenti a questa frazione di Terra tali da scontrarsi con il cinismo e l’indifferenza dell’uomo. I quattro performer in scena ricercano – e sembrano sollecitare – questa reazione, una risata incondizionata e superficiale che dovrebbe caratterizzare le nostre vite. La provocazione lanciata da Teatro Sotterraneo è intelligente ed efficace nella messa in discussione del limite tra teatro e vita. Dal test che definisce gli spettatori come “obiettori di coscienza imperturbabili” alla sequenza in cui Sara Bonaventura sperimenta molteplici modi per morire o essere uccisa, la scena si struttura nel continuo altalenare tra ciò che potrebbe essere la realtà e ciò che invece è finzione, stiamo assistendo solo ad una rappresentazione. Ma a fare quasi da contraltare, il lavoro presenta soluzioni più semplici che fanno uso di luoghi comuni o stilemi popolari come la barzelletta sul bunga bunga (intenzionalmente non divertente!); elementi che affievoliscono la struttura drammaturgica e limitano il linguaggio poetico del gruppo pur considerando l’aspetto performativo di Homo Ridens. In questo momento storico si fa sempre più necessario lo sviluppo di un pensiero che sostituisca all’alternativa una possibilità non più circoscritta in quanto contraria ad altro ma aperta anche nella più modesta constatazione di un fatto, smettendo così di alimentare un sistema che procede secondo i concetti di giusto e sbagliato.

Ridere - foto di ©Marc Domage

Lontanissimo dal linguaggio di Teatro Sotterraneo è il lavoro dell’artista Antonia Baehr. Ridere è il titolo dello spettacolo che la coreografa e filmmaker tedesca ha presentato a Santarcangelo, portando nuovamente noi spettatori a indagare la materia “riso”. Baehr adotta un approccio totalmente tecnico, ripensa all’atto in sé liberandolo da ogni accezione relazionale e slegandolo da meccanismi di causa-effetto. Sulla scena in abito e posa da concertista, l’artista esegue una serie di partiture sulla risata (scritte per lei da suoi conoscenti) concependo questa esternazione unicamente come suono e forma. La creazione, di grande virtuosismo vocale e attoriale, può divertire l’osservatore, ma lo stimolo è involontario, non finalizzato e la performance si inserisce nel programma del Festival come a fornire un’ampia gamma di possibilità dell’atto puramente materiale, una dichiarazione poetica incisiva e a tratti ironica anche se percettivamente limitata dall’operazione di autoriflessione.
Molteplici modi per approcciarsi al riso, ai fattori che lo hanno generato e a ciò che comporta quest’espressione. Eresia della felicità è un lavoro che non tocca direttamente la tematica ma in qualche modo la possiede intrinsecamente. Una creazione a cielo aperto per Vladimir Majakovskij (come recita il sottotitolo) guidata da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari che, con il Teatro delle Albe, hanno chiamato a raccolta a Santarcangelo 200 dei giovani che hanno preso precedentemente parte a laboratori della non-scuola nei diversi paesi d’Italia e non solo (da Scampia a Mazara del Vallo, da Diol Kadd in Senegal a Rio de Janeiro in Brasile). Eresia della felicità è energia pura e semplice che non genera grasse risate ma sorrisi che il corpo non riesce a trattenere di fronte alla manifestazione di un’emozione. Eresia è incontro e confronto di culture, è amore e apertura verso l’altro: ce lo dicono le grida sincere dei ragazzi quando reclamano Caffè, un adolescente brasiliano, quale propria guida nella sequenza del Diluvio (tratta dalla scena I del Mistero Buffo di Majakovskij) in cui il rumore della pioggia viene simulato con il solo, e poetico,  movimento corale di mani e piedi, in un crescendo che porta il gesto a trasformarsi in danza; così come  il candore della voce di Egle mentre ripete «Risplendi sole nel buio, ardete stelle di notte, ghiaccio sotto di noi spezzati». Caffè, Egle, Franceschino, sono solo alcuni dei nomi dei partecipanti; Martinelli lascia che ognuno di loro si presenti al pubblico riunito – o capitato – allo Sferisterio; una scelta che a prima istanza risulta quasi eccessiva, ma che nel suo svilupparsi consente di cogliere la stratificazione culturale dell’incontro e la distanza che intercorre tra i vari ragazzi fino a rendere evidente quanto la cultura mediatica del nostro Paese influenzi la gestualità e le parole della “tribù” italiana.

Eresia della felicità - foto di Claire Pasquier

Giunti al decimo giorno di lavoro (pubblico) su Eresia, Martinelli coordina le azioni conservando tutta la freschezza di quegli adolescenti in calzoni neri e blusa gialla – come recitano i versi di Majakovskij ripetuti dai ragazzi. A noi, che finora ci siamo sentiti osservatori, viene chiesto di avvicinarci allo spazio in cui si sviluppa l’azione (come a evidenziare l’insita volontà dell’uomo a mantenere una certa distanza),  i loro occhi si rivolgono direttamente ai noi, le parole  penetrano i nostri corpi. Diveniamo testimoni di una creazione, acquisiamo un ruolo e veniamo infine chiamati a partecipare, a unirci a loro «per essere tanti, ma tanti».

Contenitore esplosivo dei temi finora affrontati è Orazi e Curiazi dell’Accademia degli Artefatti. Il dramma didattico di Bertolt Brecht recupera, con la regia di Fabrizio Arcuri, uno stato di necessità di messinscena; la battaglia tra i due gruppi è fatta di parole e racconti come a rifuggire da una violenza dalla quale siamo mediaticamente anestetizzati, è uno scontro in cui si procede grazie alla corruzione e all’astuzia, lasciando risuonare ininterrottamente un sottofondo sullo stato di azzeramento di ideologia (di sinistra) che domina a questi tempi e alla quale sappiamo rispondere unicamente con una risata. Ma che cosa c’è da ridere? A battaglia chiusa una voce fuoricampo spezza il divertimento, interrompe la nostra fuga verso una vittoria, un correre che non può portare da alcuna parte. «La vita, la morte, tutto senza motivo…  E si ride. Perché abbiamo così paura di stare seri? Stiamo seri, guardiamoci in faccia. Basta ridere».

Visto a Santarcangelo 41, Festival Internazionale del Teatro in Piazza

Elena Conti