recensione io sono figlio

La bellezza della crisi d’identità secondo Sanpapié

Recensione a Io sono figlio – di Sanpapié

foto di Federica Lissoni

Il teatro non dà risposte, dice Peter Brook, lascia nudi davanti alle domande. E le domande, quelle esistenziali, quotidiane, hanno cercato di esplorarle i performer della Sanpapié, nello spettacolo Io sono figlio sulle tavole del Teatro dell’Acquario. Terzo e penultimo appuntamento della rassegna Islotes en red (isole in rete), che ha portato a Cosenza punti di vista diversi, internazionali, sul fare e intendere teatro. E farlo arrivare in platea. Perché il succo di una buona riuscita sta nell’emozionarsi del pubblico. E c’è da dire che la rassegna di emozioni ne ha suscitate parecchie, positive e contrastanti. Offrendo ai cosentini – e calabresi – la possibilità di sbirciare sul lavoro e la ricerca di realtà europee. Differenti stilisticamente e lontani dalla nostra concezione del mettersi in scena. Da cui non si può che arricchirsi. Foraggiando quel nutrimento culturale utile all’apertura mentale, all’emancipazione di mentalità. Insomma, un’idea ragguardevole.

Dopo i Valenciani e i Portoghesi, è toccato all’ensemble milanese, seguendo le comuni tracce tematiche del progetto pilota della rassegna: l’identità. L’identità di un’Europa in crisi, in cui ci si ritrova nelle stesse condizioni pur se abissali geograficamente e culturalmente; l’identità di un uomo ritornato umano e non pezzo di una catena di montaggio o agente di consumo; l’identità del passato reggente a un presente-futuro spersonalizzato. È toccato a Lara Guidetti (che insieme a Marco Di Stefano è la creatrice di Io sono figlio), Francesco Pacelli, Federico Melca, che a Milano sono giunti da centro e sud Italia, creare coinvolgimento, dissenso, stupore, rilassamento, suggestione, tra il pubblico dell’Acquario. Attraverso l’onirismo evocato dai movimenti e la grammatica del corpo, linguaggio sofisticato di cui la gradevolezza oscilla su filo sottile tra apoteosi e disprezzo, dipendente dalla caratura dei performer. Attraverso la metrica di una coreografia contemporanea, favorente una fruizione stratificata e dall’eccellente livello estetico. Attraverso cenni teatrali di una resa pulita e pressoché perfetta, giocata sull’immagine immediata e senza intromissioni tecnologiche, sulla leggiadria di corpi in movimento e i tumulti, le indignazioni, le riflessioni del proposto. Poesie silenti. E dialettiche forsennate, nella semplicità dei costrutti venuti su da idee e vivificati dalla pelle. E il teatro, per dirla alla Spregelburd, tanto più è moderno quanto è meno tecnologico.

Io sono il figlio è uno spettacolo superbo. Incasellato in un determinato genere, quello del teatro-danza, squisita mistura di arti e contemporaneità. Bello. Senza paura di usare un termine considerato banale dal giornalismo colto e accademico. Bello. Della bellezza dei corpi scolpiti dall’esercizio quotidiano, dal lavoro. Della bellezza del bianco, dominus in scena, tono di simmetrie, oggetti e figure danzanti. Della bellezza dell’espressività elementare, artigianale, e ricca di significato perché cucita a pennello con il resto del complesso audio visivo.
Gli spettatori entrando in platea trovano tre corpi nudi a metà mascherati, sdraiati sul palco. Prendono vita, col respiro materializzato sotto ventre, sguazzano come pesci fuor d’acqua, si fanno quadrupedi, bipedi, bimbi e poi uomini. Alle prese con lo sfavillare di una società sfarzosa e vuota, consumistica e anonima. Con il cuore uccello in gabbia di un corpo strumento d’apparenza. Anestetizzato da convenevoli e imposizioni sociali, passerelle, pornografia, deliri d’eroismo. Si domandano da dove vengono, chi sono, nel tentativo di comprendere il loro tentativo di nascita. Lasciandoci nudi, davanti alle domande.

Visto al Teatro dell’Acquario, Cosenza

Emilio Nigro

Pubblicato su Il Quotidiano della Calabria