recensione lluis pasqual

Blackbird, il volo degli uccelli neri

Recensione a Blackbird di David Harrower – regia di Lluís Pasqual

foto di David Ruano

Le espressioni sul volto degli spettatori a conclusione dello spettacolo, denudate dal bagliore delle luci di fine scena quasi a voler mettere allo scoperto quel coinvolgimento (che sia sdegno o commozione) ben tenuto nascosto poco prima dal buio, la dicono lunga sulla qualità di cosa si è visto. Capita di buttare l’occhio frettolosamente sulla miriade di facce in platea e coglierne sfumature variegatissime. È il bello dell’arte, del teatro. Non suscitare emozioni “in serie”. Non rintuzzare la libertà d’opinione individuale (e collettiva) verso il pensiero unico.

Sabato 11 dicembre al Teatro India, per chi era in prima fila, voltarsi di spalle e osservare la platea, durante gli applausi, è stato un responso sullo spettacolo. Più che positivo. Blackbird dalla promettente penna dello scozzese David Harrower, messo in scena dal Piccolo Teatro di Milano, diretto da Lluís Pasqual e interpretato da Massimo Popolizio e Anna Della Rosa. La versione italiana è di Alessandra Serra, i costumi di Chiara Donato, le scene di Paco Azorín, le luci di Claudio De Pace. Vale la pena citarli tutti, sì. Perché quando uno spettacolo si traduce in emozioni vivide, quelle che fanno uscire da teatro col groppo in gola e gli occhi inumiditi, ognuno degli elementi umani, dietro le quinte o in proscenio, ha il suo merito.
E quando il teatro si fa in questi termini, apre la mente.

Il tema di Blackbird è scottante, d’accordo. Immorale, va bene. Perverso, ok. Qualche benpensante durante alcune scene si lascia sfuggire un commento scandalizzato.
La storia di un abuso su una minorenne. Dodicenne. Lui quaranta, quando successe. Ma adesso i due sono adulti, lei di anni ne ha 27, lui quasi sessanta. Lei lo riconosce, scherzo del fato, in una foto pubblicitaria di quarta di copertina di un rotocalco, insieme ai suoi colleghi d’ufficio. È cambiato, ha cambiato pure nome a sua insaputa, ma impossibile dimenticarlo. Lo cerca, lo trova, si incontrano. Nello scantinato dell’ufficio di Peter (che adesso è Ryan) – metafora, lo scantinato, di un viaggio negli abissi dell’anima. Dove è buio pesto, come il volo degli uccelli neri. Comunque un volo.

Certo, quando il dialogo diventa frenetico, l’andare incalzante, l’ardire insostenibile e quando si “vede” in scena, grazie alla magistrale interpretazione degli attori, l’abuso dettagliatamente raccontato dalla protagonista, ci si indigna. Si inorridisce. Si prova orrore. E tuttavia, il resoconto morale verso il reo Peter, non è di disprezzo, piuttosto di pena. Di compassione. Di pietà. Quella stessa pietà con cui si guarda la piccola protagonista, perché tale è rimasta benché trentenne, shockata da allora, ma shockata perché da allora non ha rivisto il suo Peter. Colpevole di averla abbandonata… Al punto che si rimane in bilico su chi sia il carnefice e chi la vittima…  Al punto che non si capisce bene ciò che è vero da ciò che è mentito…

Ciò che si racconta sul palco è una storia d’amore. Che non è mai finita. Che non doveva cominciare. Che non doveva finire.
E dall’altra parte del palco, noi che osserviamo con tutte le sovrastrutture di perbenismo inculcate come omogeneizzati, come potremmo credere alle buone intenzioni di un quarantenne verso una bambina! Peter è un uomo malato, uno psicopatico, che ha reso psicopatica anche lei.

E nel finale, quando appare in scena un’attrice dodicenne che lo abbraccia come fosse il papà il senso di smarrimento è forte.

Blackbird è il Teatro della verità. Il teatro scomodo. Il teatro che non dà risposte nitide, corrette, perfettine. Ma spiazza, contorce, attanaglia come una stretta allo stomaco. Avvertita per tutto il tempo dello show. Uno show nero, ma meraviglioso.

Visto al Teatro India, Roma

Emilio Nigro

Sulla precarietà dei lutti contemporanei

Recensione a Donna Rosita nubile − regia e adattamento di Lluís Pasqual

Foto di Attilio Marasco

Inevitabilmente la storia di una separazione è la storia di un lutto. La scomparsa di una persona non necessariamente coincide con la morte di questa: è la sua incidenza nella realtà di qualcuno a definirne la presenza o l’assenza, e quindi la vita o la morte per ciascuno di noi. Parlando di distacco tornano alla mente le diverse fasi del lutto, teorizzate dal medico e psichiatra Elisabeth Kübler Ross: negazione, rabbia, patteggiamento, depressione e, infine, accettazione. Situazioni sempre più frequenti, al mondo d’oggi, in una realtà dove la ricerca di un lavoro, di una possibilità, di un modo diverso di vivere portano le persone a separarsi, indipendentemente dai sentimenti e dai legami che si creano. Ed ecco che allora la vicenda di Donna Rosita nubile, nell’adattamento e con la regia di Lluís Pasqual, non è una storia d’amore d’altri tempi, ma la cruda e amara verità di tante coppie attuali: persone costrette ad abbandonare non solo la propria casa, ma anche gliaffetti e, tante volte, lo stesso compagno (ocompagna), nella speranza di un ricongiungimento. Così Rosita, interpretata da una delicatissima Andrea Jonasson, diventa simbolo di una generazione: precario è infatti il termine con cui vengono (o forse farei meglio a dire “veniamo”) definiti i giovani d’oggi. Sempre in attesa di qualcosa di stabile, esattamente come la protagonista del Poema granadino del Novecento − scritto da Federico García Lorca nel 1935 − aspetta il ritorno del suo amato cugino, il quale le ha promesso, vent’anni prima, che l’avrebbe presa in sposa. Eppure, sebbene lo sguardo delle ultime generazioni sia rivolto da una parte al passato come modello e al futuro come speranza, il testo di Lorca è un’opera tutta intrisa di memoria, di un ricordo in grado di creare una prospettiva a ritroso che si sviluppa in un tempo già superato e non in quello a venire: è la storia di una “reclusa”, Rosita, che solo nella propria mente e nelle sue illusioni trova la forza non di andare avanti ma di rimanere bloccata, cristallizzata in una condizione che la protegge, esattamente come lo zio di lei (Gian Carlo Dettori) cura e accudisce i fiori nella sua serra. Eppure se Elisabeth Kübler Ross disse che «le persone sono come le vetrate. Scintillano e brillano quando c’è il sole, ma quando cala l’oscurità rivelano la loro bellezza solo se c’è una luce dentro», alle parole della zia di Rosita che invitano la domestica a far entrare la luce in casa si viene catapultati in quel passato che è stata l’origine della sofferenza della nipote. Così Pasqual, sin dall’inizio della pièce, traccia la rotta di un viaggio, un percorso che dal presente ci scaraventa direttamente in un tempo anteriore, immobile, come lo spazio in cui si svolge la rappresentazione. Le scene di Ezio Frigerio ben si prestano a restituire questo senso di staticità artificiale e, allo stesso modo, artificiosa: un ambiente, quello del salotto domestico, che sprigiona da una parte quel senso di protezione casalingo − in alcuni casi addirittura asettico − ma cheè anche il luogo per eccellenza dell’apertura verso coloro che vengono dall’esterno, elementi in grado di destabilizzare con la loro perfidia, e, perché no, con la loro ingenuità, la fragilità di equilibri faticosamente costruiti. Eppure, se la sensibilità di Rosita è messa a dura prova dalle visite delle amiche e dai discorsi sentiti sul passeggio e che la dipingono come una “vecchia zittella”, anche all’interno della casa la zia di lei e la domestica − rese da due brillanti interpreti come Franca Nuti e Giulia Lazzarini − creano percorsi e labirinti in grado di mantenere la “povera” Rosita congelata nella sua parte di amante in costante attesa di un ritorno, che tutti sanno non avverrà mai, inclusa la protagonista stessa. E così la sua bellezza appassisce ancora prima che se ne possa godere, così come la rosa mutabilis gelosamente custodita nella serra dello zio.

È una teca di vetro quella entro la quale si consuma la vicenda di Donna Rosita nubile: un tentativo di depennare il passare del tempo, che però si conclude inevitabilmente con l’accettazione di una realtà amara, per Rosita e per la stessa zia di lei, costretta a vendere la casa in cui custodisce i ricordi più cari, legati all’ormai defunto e amato marito. Eppure, nonostante l’estrema sensibilità e abilità delle prove attoriali, la messa in scena sembra quasi ricreare quel torpore tipico delle serre che anziché avvicinare il pubblico alla scena lo porta ad osservare la vicenda con una sorta di distacco, a discapito dell’estrema attualità del tema trattato. E così anche i brevi intermezzi comici, sempre funzionali a restituire il senso di isolamento della protagonista, perdono in qualche modo la loro forza, assumendo i toni di una breve pausa necessaria per poter seguire lo snodarsi delle sue variazioni d’animo: una rosa, come la mutabilis, che modifica le proprie tinte e muore in 24 ore, senza poter mai godere della luce diretta del sole e che consuma il proprio splendore in solitudine. Una distanza dal mondo, quella di Rosita, tesa alla conservazione di un’apparenza, di una dignità, ma che allo stesso, come una forza entropica, tende a ulcerare ciò che la circonda.

Visto al Teatro Verdi, Padova

Giulia Tirelli