recensione marco d’agostin

Pose che si fanno danza in Viola di Marco D’Agostin

Recensione a Viola – di Marco D’Agostin

foto Marco Davolio

Viola – non tanto in omaggio al colore, ma piuttosto alla terza persona singolare del verbo “violare” – si apre su un momento preparatorio. Ma non è il training da palcoscenico che conosciamo quello con cui Marco D’Agostin (autore e interprete di questo solo che gli è valso il Premio GD’A Veneto 2010) introduce lo spettacolo: è un insieme, certo sovraccaricato, di quei rituali che predispongono e presentano il maschio di oggi: una camicia e un paio di jeans; mani sui fianchi, incedere deciso, una ripassata ai capelli; poi una lisciata di sopracciglia e via, via, una mano sul “pacco”, col colletto alzato incontro alla prossima conquista. La concentrazione estrema sulle posture è la chiave. Nella danza di questo giovane coreografo si incontrano tutti i cliché e gli stereotipi contemporanei legati all’idea di virilità, fra sopraffazione e irruenza, impostazione e inafferrabilità; così in Viola è possibile cogliere, seppur in questo caso declinate in una prospettiva differente, quegli elementi che hanno spiazzato e convinto alle finali del Premio Scenario, in cui D’Agostin, assieme a Francesca Foscarini e Giorgia Nardin, è fra le Segnalazioni 2011 con Spic & Span. Là, pur in tutt’altro contesto compositivo, si era vista una coreografia in cui diversi movimenti sintetici, direttamente attinti dalla gestualità quotidiana incontravano l’espressività teatrale, per dare vita a coreografie di un certo impatto visivo ed emotivo; in Viola, si possono intravedere alcune delle radici che possono aver condotto all’ultimo lavoro: dall’attenzione per i movimenti consueti, popolari e quotidiani, all’efficacia dell’azzardo comico – elementi che in entrambi i casi dimostrano una consistente coscienza dei dispositivi di comunicazione (teatrali e non) e una precisa ricerca nei confronti del pubblico. Perché tutta quella prima fase di Viola, in cui il danzatore appronta i suoi atteggiamenti e le sue pose secondo il (si fa per dire) “bon ton” del machismo contemporaneo, ammiccando e strappando qualche risolino, altro non è che una calibratissima trappola: D’Agostin tesse, gradualmente, un territorio di condivisione in cui l’osservatore, ritrovando frammenti caricaturali ed eccessi ben noti, ridendo e rilassandosi, può lasciarsi andare al meccanismo dello spettacolo. Ma non si tratta solo dei riferimenti a schemi comportamentali o stereotipi riconoscibilissimi (e risibili), quanto piuttosto di una piccola occasione che il performer offre allo spettatore, costruendo, per gradi, la struttura coreografica dello spettacolo davanti agli occhi di tutti; tanto in Viola quanto in Spic & Span, il danzatore riprende dichiaratamente delle sequenze di movimento consuete e, ripetendole e innestandole di micro-variazioni, e ripetendole ancora, le intreccia in danza in modo da permettere al pubblico di partecipare – anche se solo in parte e in un ambiente assolutamente controllabile e protetto – al dispositivo di creazione. In questo modo, quando il meccanismo “s’inceppa” – soglia davvero ben disegnata che divide e unisce il primo e il secondo momento dello spettacolo – lo spettatore è troppo dentro alla struttura drammaturgica per potersene tirare fuori: il danzatore è seduto per terra, reduce dall’arena delle pose e degli slanci di quella seduzione da discoteca che ha incalzato per tutta la prima parte dello spettacolo. Come intontito dal turbinio dei propri movimenti, si ferma, affidando lo sviluppo coreografico a movimenti minimi, più astratti, e a un’espressività mimica capace di catalizzare l’attenzione sul proprio volto. Qui cambia il registro, svaporano le risa per lasciare spazio a una concentrazione enigmatica. La seconda parte di Viola è legata a un’unica immagine, per la maggior parte del tempo immobile, che si presenta in una dimensione di grande pregnanza e, appena visibile, retrocede fino a fondo scena, gradualmente ma con decisione, fino a scomparire presto nel buio. È un’immagine che svela e rivela, destinata a tirare le fila di tutto il lavoro; indicibile a parole, contraddice e bilancia il primo momento: la violenza lascia il posto alla rarefazione, l’irruenza alla dilatazione, il machismo alla femminilità, così come il pop all’astrazione e il riso al silenzio. Il rischio, pur lievissimo, investe la dimensione compositiva e concettuale: lavorando per dicotomie, per elementi in opposizione, è possibile che la grande varietà di movimenti e di idee si risolva nell’impatto, visivo ed emotivo, dell’immagine finale, arma a doppio taglio che sottolinea certo una chiave di lettura dello spettacolo, ma arriva forse ad inghiottirne il potenziale dimostrato in termini di fascino e ambiguità.

In un soundscape vibratorio dalla presenza estremamente materica che lentamente si scioglie in un tessuto sonoro impercettibile, Marco D’Agostin porta in scena, con un minuzioso catalogo della gestualità quotidiana e una precisa coscienza teatrale, un articolato e ironico ragionamento sugli schematismi della virilità, coronato da un senso di mutazione, sorpresa, inadeguatezza che viene sprigionato soltanto negli ultimi istanti di spettacolo, nell’incidenza di una figura subito destinata a sottrarsi, ma ad ogni modo capace, con la sua efficacia visuale, di comprimere a sé tutta la partitura. In Viola si mostra una danza capace di emozionare, sì, ma anche – in linea con l’avanguardia coreografica contemporanea – di raccontare, non contaminando la danza con linguaggi differenti, ma analizzando e sviluppando la dimensione che le è propria, quella del movimento, secondo nuove ambizioni performative.

Visto a Kilowatt Festival 2011, Sansepolcro

Roberta Ferraresi