recensione mauro astolfi

Relazioni impossibili, secondo Spellbound Dance Company

Recensione a Le relazioni pericolose – Spellbound Dance Company / regia e coreografia di Mauro Astolfi

foto di Cristiano Castaldi

“Relazioni impossibili” o “dell’impossibilità dell’amore”, si potrebbe sotto-intitolare questo bellissimo quanto sofferente lavoro di Mauro Astolfi, che ha debuttato al Verdi di Pisa.

Cupo e inquietante sin dall’inizio, con tagli di luce abbaglianti sul pubblico e danzatori neri che si aggirano nella platea, tutto lo spettacolo è avvolto da un’oscurità da incubo, un dolore irrisolto. La forza convulsa degli eccezionali danzatori della Spellbound Dance Company è il contraltare visivo di un’impalcatura sonora poco indulgente, intessuta dalle vibrazioni basse e tormentose di Notfromearth.

Difficilissimo danzare, tra i suoni distorti di un soundtrack dal ritmo irregolare, e tra i molti segni scenici, sedie, tavoli, elementi d’arredo di un tinello senza tempo, dove si raccolgono le solitudini contorte del dolore amoroso. Alcune immagini tentano una drammaturgia che vuol ricordare il romanzo settecentesco di Choderlos de Laclos, da cui è tratto il titolo dello spettacolo. Lettere segrete, scritte rapidamente in bianchi fogli imbustati e consegnati al tavolo vicino, sono l’appiglio narrativo di un discorso affettivo, che qui va oltre l’incontro e la speranza, mostrando le conseguenze devastanti di un’assenza, di una delusione, dell’ennesimo tentativo fallito di restare insieme. Se da un lato i molti, troppi abbracci spasmodici e respingenti affaticano il cuore, dall’altro la bravura degli interpreti sublima anche l’impazienza dell’happy end. Che non arriva, spiace dirlo, nemmeno per illudere gli spettatori.

L’ardore dei passi a due vive del contrasto con questa musica aspra, quasi astrale: gli amanti si cercano e si respingono, si accucciano l’uno nell’altro e poi si separano con scatti ora isterici ora affettuosi. L’unico momento di sollievo, o di amore felice per quanto transeunte, è sottolineato dal soave violoncello, che interrompe la sequenza di abbandoni con la melodia del pianoforte.
Ma per una forza misteriosa ed estranea quell’amore non può durare.

Una porta in scena introduce i nuovi personaggi, con improvvise entrate e uscite dei ballerini, spezzando il respiro del disegno coreografico, che si sbroglia in apnea.

Micro e Mega Photo

Si intrecciano storie di tre, quattro, o anche più. Il nervosismo dei muscoli e la rapidità dei movimenti ben suggerisce il pericolo delle relazioni d’amore. Eppure ci si lascia andare, come nelle belle scene di gruppo in cui i danzatori ondeggiano al suon del vento, in una nave alla deriva fatta di corpi roteanti, tutti vestiti diversi, ma sempre neri, grigi o antracite, di inattesa sensualità. Pochi i tratti di luce calda dalle finte tapparelle di un pomeriggio d’estate: la dolcezza è sempre passeggera, e le donne, menadi a tratti pietrificate dal dolore, irrequiete e bellissime, si sfogano con gesti ripetitivi, sghembi e apparentemente disordinati.
Inevitabile il senso di inessenzialità e ripetitività del debutto, dove si ha già l’impressione che qualche oggetto scenico e qualche contorsione sparirà, in uno spettacolo dove tutto il nero dell’anima denuda il cuore fino allo strazio. Tra suoni spezzati, effetti noise da decollo aereo e sprazzi di violini stridenti, non c’è clemenza, non c’è speranza.
Forse solo nella bellezza. Di una costruzione coreografica ossessivamente asimmetrica, dei nove ballerini impossibili da accoppiare; nel guizzo di un braccio che sbuca da un tavolo.

Si affaccia alla fine un’incursione sonora dalla scena di un film, a sottolineare la ricerca interpretativa del coreografo romano Mauro Astolfi, formatosi nell’America della modern dance e del jazz, ostinatamente gotico nella sua visione del balletto contemporaneo, sempre sfuggente alla narrativa. La voce di una lei da doppiaggio Anni ’60 lascia un lui, nelle distorsioni di un ricordo. Lui, semplicistico, le chiede: «Ami un altro?». «No, non puoi rendermi felice». Le relazioni pericolose fa rimpiangere l’armonia perfetta leggera e salvifica di Stati Comunicanti, o lo spumeggiante e boccoluto Don Giovanni. Ma coerente e coraggioso Astolfi propina la secchezza ineluttabile del dolore dell’amore, nessun romanticismo, piuttosto un’atmosfera aliena e liquida da Blade Runner. Niente di più umano.

Visto in prima nazionale al Teatro Verdi, Pisa

Fabiana Campanella