recensione mi gran obra

Mi gran obra: uno spettacolo in miniatura

Recensione a Mi gran obra (un proyecto ambicioso) – ideazione e regia David Espinosa

«Cosa farei se avessi un budget illimitato?» È la domanda che si è fatto David Espinosa, tra i protagonisti della Biennale Teatro 2013, domanda che sta alla base di Mi gran obra, presentato in prima nazionale dal 3 al 10 agosto. La risposta? «Il più grande teatro del mondo, 300 attori in scena, un’orchestra militare, una rock band, gli animali, le auto e un elicottero». Questo è ciò che vorrebbe il regista catalano. Questo, in tempi di crisi, e con carenza di fondi, è un lusso. Ma Espinosa non rinuncia, porta avanti il suo ‘proyecto ambicioso’, mette in scena la sua utopia. Lo fa, però, in scala: ci invita a pensare di essere in uno spazio grande quanto tre campi di calcio e di vedere esibirsi centinaia di attori, anche se siamo in una piccola sala e i personaggi sono alti poco più di un’unghia.

Ci vengono a prendere all’ingresso di Ca’ Giustinian, siamo solo in venti, ci portano al primo piano, troviamo una valigia, rigida, un meccanismo, retrattile, una sorta di passerella per entrare in scena, e attori, tanti, in miniatura. Una voce registrata esce dall’altoparlante di gomma di un iphone per raccontarci il progetto, introdurci allo spettacolo. Nessun sipario, nessuna poltroncina, nessun palco: sediamo su panche, sedie, puff, abbiamo binocoli in dotazione. Davanti a noi un tavolo bianco, due casse, due mani a muovere i fili, le dita a comporre le scene.

coca_cola

Espinosa sistema l’orchestra, da un lato, e la band, dall’altro, la musica parte, e la vita di una coppia pian piano è tracciata, dalla nascita alla morte. Una striscia obliqua attraversa il tempo e taglia lo spazio scenico, un tappeto adesivo tiene i piccoli attori coi piedi ben saldati al suolo. C’è un ballo da fare stretti stretti, il primo bacio sulla panchina, al parco, il sesso sul divano, l’abito bianco, passeggini da spingere, figli che crescono e se ne vanno, una panchina da condividere in vecchiaia, la stessa, nello stesso parco, e infine la solitudine, lapidi bianche, un cimitero. L’età che avanza, la vita che scorre.
E poi suonatori mariachi, marito e moglie che soccombono sotto chicchi e chicchi di riso, palme sulla spiaggia, l’abbronzatura integrale, gli Eagles di Hotel California. Il peso del consumismo, targato Coca Cola, gli astronauti sulla luna, la polizia, il controllo, il corpo in vendita, la violenza che segna la quotidianità, Cristo in croce, uno stadio e una partita di calcio, qualcuno che attenta alla vita del Presidente. La morte e la falce, uomini e donne sull’orlo dell’abisso, l’ombra della dittatura, un cumulo di corpi inerti, e un uomo, solo, che va via mentre la luce di una lampada da ufficio scema.

Tante le trovate, dal phon che simula il vento e fa muovere le pale di un elicottero, al martello che battendo produce un su e giù per coppie di amanti, al chiodo come palo da lap dance. Molti i rimandi, sociali, religiosi, politici, storici. Tante le figure, dagli alti gradi dell’esercito al pontefice, dagli operai a Obama, dai personaggi noti di oggi agli ignoti di sempre.

Grandi numeri, fondi illimitati, ampie strutture, tanti attori, sono sempre sinonimo di grande opera? O piuttosto sono l’idea, l’originalità del meccanismo creativo, i temi messi in campo a fare la differenza? Riesce, Espinosa, a trascinarci su spiagge tropicali e in grandi piazze, a farci vedere matrimoni e funerali, a far volare elicotteri e fluttuare astronauti. Passa dalla nascita alla morte, da Betlemme a Babbo Natale, dalla Via Crucis ai genocidi in un batter di ciglia. Supera limiti spaziali e temporali, affronta, con una sola immagine, grandi tematiche, dal consumismo alle logiche del potere, dalle credenze religiose alle dinamiche dell’amore. Uno spettacolo da tavolo, un teatro in miniatura, che in un piccolo spazio tratteggia grandi eventi, attraversando la storia, e con piccole, anonime figure, mette in scena l’umanità.

Rossella Porcheddu