recensione muerte y reencarnacion garcia

Rodrigo García a confronto

foto di Christian Berthelot

Doppia recensione a Muerte y reencarnaciòn en un cowboy – di Rodrigo García

Al 41. Festival Internazionale del Teatro di Venezia abbiamo assistito a Muerte y reencarnatiòn en un cowboy di Rodrigo García. Qui si provano a mettere in luce due percezioni e punti di vista differenti, positivi e negativi di uno spettacolo che indubbiamente fa discutere e provoca. Sentimenti, analisi, idee nel segno dello stile (estetico, politico) dell’artista ispano-argentino, che sa sempre dividere il proprio pubblico.

Perché NO

Violenza, dilatazione, retorica: sono queste le parole che vengono in mente dopo aver visto Muerte y reencarnaciòn en un cowboy di Rodrigo García. Divisibile in due sezioni ben distinte tra loro e intramezzate dall’apparizione in video di una attrice muta vestita da geisha, questa pièce del regista ispano-argentino provoca sicuramente, ma lo fa in maniera didascalica. Corpi nudi sul palco se ne sono già visti abbastanza, di anarchica crudeltà pure e anche di sentenze sin troppo moralistiche; senza sperimentare niente di nuovo per riuscire a scandalizzare, García ormai sa bene quali sono le corde da toccare per indignare il proprio pubblico, che non fa altro che prendere parte al suo gioco, accontentandolo.
Ma andiamo con ordine: nella prima parte due performer si scatenano sul palco distruggendo chitarre elettriche, saltandosi addosso con piglio eroico e giocando con le loro parti intime; il tutto in una eccessiva dilatazione temporale. Viene in mente Jackass, il programma statunitense dove gli stuntmen si feriscono volutamente, ridendo in continuazione. Anche qui i due cowboy se la ridono, ricoprendosi il corpo – nel loro delirio gratuito – addirittura con dei pulcini; ecco uno dei punti nevralgici dello spettacolo, ecco che si entra nel gioco di García: sul palco non potevano certo mancare gli animali cari al regista, ormai buon conoscitore del pubblico subito pronto a scandalizzarsi per un maltrattamento inesistente e a chiamare la polizia per il pronto intervento. La provocazione facile è servita su un piatto d’argento, è un gioco di assi vincente che già si conosce e che, d’altra parte, può essere visto effettivamente come del tutto inutile: oltre suscitare l’indignazione degli animalisti, infatti, non ha scopi concreti. Quei poveri pulcini potevano anche rimanere con mamma chioccia e non essere spiati da gente curiosa che a fine spettacolo si preoccupava solo della loro incolumità.
Ma lasciamo gli animali e volgiamo di nuovo lo sguardo alla messinscena; finita la parte goliardica, i due ragazzotti, ormai divenuti dei borghesi, dialogano sui massimi sistemi con in mano una birra: una ‘paternale’ fatta di discorsi infiniti che risulta sfociare in una morale patetica.
L’unica immagine che rimane – davvero divertente e geniale – è l’eutanasia regalataci attraverso l’utilizzo di una brioche che muore su un lettino di formaggio dopo un’iniezione letale.

Carlotta Tringali

Perché SÌ:

Muerte y reèncarnacion en un cowboy non è certo il capolavoro di Rodrigo García: un incipit fisico troppo lungo e ripetitivo, riferimenti anti-global all’acqua di rose, un minimalismo scenico e culturale – sentimenti da macho che sorseggiano un long drink, il toro meccanico, un’orientale che presiede una seduta pseudo-bondage – che ha poco a che fare coi precedenti spettacoli dell’autore e regista ispano-argentino. Ma questo lavoro, quasi sottotono ai clamori di Ronaldo o agli scandali di Matar para comer, può dire molto: sia del teatro di García che del suo instancabile lavorio sull’immaginario contemporaneo.
La chiave di questo spettacolo si può trovare in quel “palco nel palco”, che è una specie di stanza il cui contenuto è celato all’immediatezza della visione (è chiusa da pareti su tutti i lati) e svelato attraverso proiezioni che ricordano quelle dei circuiti di videosorveglianza. Svelato si fa per dire: non è dato sapere se quello che vi accade all’interno sia live o pre-registrato – elemento che pone l’accento sulla condizione fictional del teatro, come altri disseminati in tutto lo spettacolo. Prendiamo ad esempio il “maltrattamento” dei pulcini iniziale, per il quale numerosi spettatori hanno abbandonato la sala e altri addirittura hanno richiesto l’intervento delle forze dell’ordine: i due attori (Juan Lorriente e Juan Navarro) prendono a calci uno scatolone, mentre si sente un audio di pigolii; una volta dietro la parete, dunque occultati alla vista, parte un video in cui aprono la scatola e ne esce una gran quantità di pulcini. Ancora: i suddetti pulcini, a un certo punto, sono collocati in una teca trasparente, al centro della quale viene posizionato un bel gattone; altri spettatori se ne vanno da teatro. Inutile dire che si trattava di teche concentriche e, di più, ideate in maniera tale che non solo il felino non potesse divorare i poveri volatili, ma, con la giusta illuminazione, gli animali non potessero nemmeno vedersi l’un l’altro.
Con questa smodata forma di (non)straniamento, del tutto originale – in cui si iscrivono anche le altre scelte estetico-politiche alla base dello spettacolo, come l’inaccettabile lunghezza dell’incipit – l’artista chiama direttamente in causa il pubblico, lo interroga sui propri giudizi e pregiudizi. Fonda un magistrale percorso fra la realtà della vita e la finzione del palcoscenico, che gioca tanto con l’immedesimazione che con lo straniamento. È sempre un piacere vedere quanto il teatro possa ancora incidere sui propri spettatori, aldilà di ogni ragionevole debito ai suoi innumerevoli trucchi ormai svelati da secoli. Non è altrettanto gradevole – sembra echeggiare García – che i cittadini, scandalizzati, abbandonino la sala per dei pulcini forse presi a calci dentro una scatola; mentre nessuno contesta il proprio governo, nonostante tutto quello che, piccolo o grande, vediamo accaderci intorno ogni giorno. Nella realtà, non su un palcoscenico.

Roberta Ferraresi