recensione spettacolo roberto andò

La compostezza della Storia di “Leonilde”

Recensione a Leonilde – regia di Roberto Andò, con Michela Cescon

foto di Lia Pasqualino

foto di Lia Pasqualino

Sulla scena, immersi in una luce fredda, un tappeto di cappelli di varia foggia, una sedia impagliata, quattro gambe di un tavolo troppo grande e senza piano, una valigia, libri, una cappelliera e, brechtianamente appesi, un antico magnetofono e uno smisurato cappotto logoro. Sullo sfondo, in trasparenza, tre file di sedie sospese a mezz’aria, come in attesa di essere animate da chissà quale burattinaio aereo, tutte diverse, tutte vuote: seggi vacanti.
Appare una figurina minuta, una ragazza in abiti di campagna, scalza. La figurina è Michela Cescon che dà voce alla Nilde Iotti descritta da Sergio C. Perroni in Leonilde, monologo alla base dell’omonimo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile di Catania, per la regia di Roberto Andò – attualmente nei cinema con Viva la libertà.

È una ragazza, si diceva, e tale rimarrà per tutto il corso del breve spettacolo, lungo quanto un sospiro, in cui alla Nilde sulla scena risponde, in controcanto e sovrapposta, una Nilde-voce registrata. Non le somiglia, per un’esplicita volontà dell’attrice che, durante l’incontro della rassegna “In contemporanea”, con Laura Mariani ed Enrico Pitozzi, ha dichiarato di rifiutare l’imitazione, prediligendo l’interpretazione di “questa regina che era la Iotti” – come di Rachele Mussolini, in Vincere di Marco Bellocchio, o di Licia Pinelli, in Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana.
«Sono cresciuta in fretta, io – dice la Iotti-Cescon –, neanche il tempo di essere ragazza, ed ero già donna». Eppure il tono, il timbro, il volume della sua voce dicono tutt’altro e parlano di una lucida ingenuità, di una rispettosa riservatezza, quelle di una giovane di formazione cattolica, tesserata del Partito Comunista durante la Resistenza, parlamentare a ventisei anni e membro della Commissione dei 75 di quel glorioso ’46 in cui nacque la nostra Costituzione, e anche (ma non soprattutto) compagna di Palmiro Togliatti, inizialmente sposato e con un figlio. Nel vivere lo scarto, alla ricerca del giusto equilibrio, tra la dottrina di dio e la fede comunista, la Iotti snocciola sulla scena alcuni degli avvenimenti chiave del nostro Novecento in uno spettacolo creato tre anni fa ma lungimirante – pensando a quanto sta avvenendo oggi nella politica italiana – e già nostalgico. Ci si smarrisce un po’ nelle curve del secolo breve tracciate sulla scena, perché le informazioni fornite sono tante, tutte fondamentali e velate di autobiografismo. Per cui vediamo svolgersi il doppio livello del racconto: il livello dell’esperienza del singolo e quello del mutamento di una nazione al quale lo stesso singolo ha preso parte. Da piccole cose vere – la valigia sempre pronta della donna che vive un amore precario; il cappotto rovesciato regalatole dal padre; un accenno a Romagna mia – si transita verso grandi avvenimenti storici: l’attentato a Togliatti, con la puntuale descrizione del suo crollare sulle ginocchia, la testa tra le mani di lei mentre, sullo sfondo, si concretizza il rischio della guerra civile; il leit motiv “Stalin voleva…”; le contraddizioni di un partito che si dice comunista e si rivela bigotto nell’Italia degli anni Sessanta. La Nilde della Cescon racconta, piange, danza, ma, soprattutto, si contiene e non scade mai nell’eccessiva paura dell’opinione del partito, nel pianto funebre per la perdita del suo uomo, nella forsennata corsa alla politica e si difende con violenza solo all’accusa di realpolitik che minaccia e travisa la fatica delle sue scelte.

La mancanza dell’eccesso, la misura, la compostezza sconvolgono e immalinconiscono lo spettatore contemporaneo che assiste alla miniatura di una grande esistenza. Leonilde non è un pigro inno al “com’eravamo”, non una chiamata alla armi, né una celebrazione dell’antico rigore della diplomazia, è solo la storia di una donna che, silenziosamente e destreggiandosi sul crinale tra il pubblico e il privato, insieme a tanti altri, fonda la cosa pubblica muovendo da un’inevitabile necessità.
Dopo un lamento di Bella ciao che ha il gusto dell’accessorio, mentre si affievoliscono le luci, la Cescon indossa una parrucca simile alla capigliatura della protagonista e sta in piedi, fiera ma ancora elegantemente modesta, al centro dei suoi oggetti inanimati, segni di una regia leggera e cinematografica. Intanto, scorre la melodia dello scrutinio che, con una schiacciante maggioranza – ancora straniante per lo spettatore contemporaneo –, elegge la Iotti Presidente della Camera. “Iotti – Iotti – Iotti”, l’iterazione del suo cognome si fa pioggia commovente, mentre la Cescon storce le labbra e, quasi al buio, si concede un momento di imitazione riconoscente.

Visto al Teatro Pubblico di Casalecchio di Reno (Bo)

Nicoletta Lupia