recensione the end

Babilonia affronta la fine

Recensione a The endBabilonia Teatri

“Non possiamo abituarci a crepare
/ neppure un asino che da noi si racconta l’ha potuto/ 
siamo gente paziente
/ non possiamo abituarci a morire/ 
noi vogliamo vivere/ 
perché la vita ci piace
/ abbiamo il gusto della vita/ 
con le mani che hanno tirato su tutto.”

Scriveva queste parole il poeta recentemente scomparso Luigi Di Ruscio nel suo Non possiamo abituarci a morire. Nello stesso giorno in cui si spegneva a Oslo, il gruppo veronese Babilonia Teatri andava in scena a Venezia con l’ultimo lavoro The end. Coincidenze della vita, o della morte. Proprio quest’ultimo è infatti il tema affrontato dall’ormai affermata compagnia veneta che per la prima volta vede sola sulla scena una sempre impeccabile Valeria Raimondi che, senza sosta, tratta con parole dirette e crude, senza alcun ricamo, quello che nessuno di noi può evitare. Se negli altri lavori la drammaturgia scritta dalla Raimondi e da Enrico Castellani era più affine a una sorta di blob teatrale, con l’accostamento di materiali diversi, schegge impazzite che lo spettatore aveva poi il compito di assemblare, con The end l’accusa alla società e alla realtà che ci circonda è ancora più diretta, esplicita. Con una veste laminata che ricorda una corazza, l’attrice sembra una paladina medievale dei nostri tempi che senza mezzi termini prende una posizione netta, precisa: “voglio il mio boia/ voglio affittarlo/ prenotarlo/ comprarlo ora/ voglio che viaggi con me/ sempre/ fedele al mio fianco/ voglio sia scritto nero su bianco/ sono il tuo boia/ sono il tuo boia”. Proprio in questi giorni al Parlamento si sta votando per una legge che apparentemente sembra regolare l’accanimento terapeutico e il biotestamento – ma che in realtà complica ancor di più la burocrazia che regola l’azione eventuale di “staccare la spina” o interrompere le cure. Babilonia Teatri con questo ultimo lavoro è più che attuale: passa dalla paradossale ironia pungente e critica nei confronti dell’occultamento della morte e della eterna giovinezza, alla ferma posizione per cui non si vuole vivere una volta che si è “morti” per la società e la propria famiglia. Alla vecchiaia e alla malattia spetta infatti un posto di marginalità, un parcheggio in carrozzina davanti alla sala tv di un ospizio, la condivisione di un’agonia infinita con gli altri ospiti della struttura deputata dove si attende la propria fine. Il testo dei Babilonia non chiama in causa la religione, ma la evoca: alle spalle di Valeria Raimondi un Cristo in croce incombe; dopotutto il cristianesimo fa parte del nostro retroterra culturale, coabita in noi: sarà il Padreterno a decidere quando chiamare a sé il nostro corpo, non è previsto un boia personale ed è difficile pensare a lui come a una soluzione finale. Se inizialmente l’attrice sciorina un’infinità di esempi grotteschi, che potrebbero sembraresurreali – tanto sono fantasiosi o assurdi – ma che sempre di più oggi si avvicinano alla realtà, successivamente arriva a un climax dove l’ironia lascia posto alla rabbia. Si va dall’agghiacciante “chiedo un decalogo per la morte/ per la vita ho tempo/ la imparo da sola” alla mitizzazione della giovinezza perenne, alla non vecchiaia, ai genitori che non si ammalano, al campo santo dove “si riposa”. Perfino sulla terminologia si ricama per trovare parole che rendano poetica quella fine così scomoda e lontana da noi che sembra non dover arrivare mai. Ma è lì, c’è sempre stata e ci sarà sempre: “non ci si può abituare a morire” è vero; ma non ci si può neanche abituare a vivere una volta che si dipende esclusivamente da una macchina artificiale.

Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Carlotta Tringali