recensione time for talk is over

Vitalità e controsensi della metropoli nell’ultimo lavoro di Garten

Recensione a Time for talk is over – di Garten

foto di Federico Ambrosi

Terzo appuntamento di Al Limite, festival di S.a.L.E. Docks alla sua prima edizione, Time for talk is over di Garten intercetta a pieno i propositi e gli interrogativi posti dalla rassegna stessa sui rapporti fra teatro e dimensione urbana, fra la creazione e il contesto in cui nasce e si sviluppa. L’ultimo lavoro del collettivo milanese che fa capo a Giorgia Maretta (coreografa e performer) e Andrea Cavallari (regista e video-maker) racconta con lucidità e leggerezza, spietato ma scorrevole, la storia della città contemporanea, dalle sue origini ai suoi eccessi, fino al suo esito post-industriale. Fuori da ogni intento didattico o documentaristico, con uno slancio politico che strizza l’occhio alle ultime sperimentazioni post-pop, Garten porta in scena la costruzione stessa della realtà metropolitana, come in una sorta di pianificazione urbanistica aperta al pubblico, in cui due performer (Andrea Rimoldi e Corrado Tagliabue) sono impegnati a posizionare grattacieli e abitazioni, strade e servizi in un plastico architettonico ricco di piccole sorprese che invade man mano tutto il palcoscenico. All’inizio i palazzi (semplici parallelepipedi in pvc auto-illuminati) sono due o tre, mentre qualche carta accartocciata a pavimento – il verde pubblico – funge da cuore pulsante del neonato agglomerato urbano. Timidamente la città cresce, i grattacieli aumentano e cominciano a essere popolati di abitanti, lavoratori, utenti (disegnati live dai due attori), assediando progressivamente il centro; si costruisce un ponte su cui scorrono sempre più veloci tante biglie scure, mentre il resto della scena si affolla di una crescente quantità di contenitori d’alluminio rovesciati – fabbriche o baracche che siano, invadono ogni spazio disponibile, intralciando anche i movimenti dei performer. Sei bottiglie sono appese a rappresentare le risorse (energetiche, spirituali?) che portano la vita in ogni angolo della metropoli, attraverso una fitta rete di tubicini percorsi da un liquido rosso.

foto di Federico Ambrosi

La città di Garten, sospesa fra mitologia metropolitana e critica diretta, slancio immaginativo e iperrealismo sintetico, cresce attraverso una partitura di movimenti che danno vita a una specie di sottilissima coreografia di sottofondo, costituita da gesti minimi e curati, fra la costruzione materiale dell’habitat urbano e il suo popolamento attraverso sovrapposizioni di disegni – scelta estetica capace di mettere in comunicazione alcuni spunti dell’avanguardia teatrale con i più recenti slanci della street-culture, con la sua grafica lo-fi e soluzioni di design che riassemblano elegantemente materiali di recupero. Trovate sceniche minimali ed estrema cura dei movimenti, un gran lavorio live di soundscape e di scenotecnica, insieme a una consistente delega alla fantasia dello spettatore – tutti tratti già accarezzati nel precedente I will survive, ma che trovano qui ulteriori sviluppi in linee di creazione ed esposizione ben più efficaci – fanno di Time for talk is over un esperimento performativo divertente ed intelligente. Esperimento che si può considerare anche prossimo al tentativo di reinserire le potenzialità un po’ datate del teatro politico all’interno della società, della cultura e della scena contemporanee. Capace di illuminare di una prospettiva d’ampio respiro l’intera ricerca del gruppo neo-finalista al Premio Scenario e forte della sua provenienza in parte extra-teatrale, lo spettacolo si dimostra un curioso impasto – ben calibrato ma esposto unicamente per frammenti – fra dimensione etica e ricerca scenica. Se alcuni elementi si possono ricondurre a tratti ormai ben accertati del nuovo teatro italiano, come il tentativo di recupero (e di revisione) della “piccola magia” legata all’artigianato teatrale (qui riproposto in chiave post-industriale) o la sovra-esposizione del processo creativo, altri vanno segnalati come spunti di lavoro originali – fra questi ultimi indubbiamente il consistente accento sulla dimensione ludica della rappresentazione.

Intanto quella che ormai è una metropoli cresce a dismisura, sotto gli occhi allo stesso tempo sereni e fatali dei suoi stessi silenziosi creatori. Ma la svolta post-industriale è alle porte: con il fumo denso che invade la scena, il rimbalzo delle biglie sempre più incalzante rimodellato live da Paolo Calzavara, il sovraffollamento che soffoca ogni via di scampo, la città smette di respirare e la sua linfa, nei piccoli tubicini che la percorrono, assume un’inquietante colorazione nero petrolio. Cataclismi di ogni genere si abbattono sulla metropoli ormai impotente – mostri creati dall’uomo stesso, ribellioni realistiche o immaginarie di una natura oppressa – fino al punto di non ritorno che dichiara: the end. Una fine secca, affidata a un cartello dal retrogusto brechtiano ma privato di ogni orientamento interpretativo, che non sa dire se la conclusione vada intesa in senso apocalittico o rigenerante. Sta evidentemente al pubblico deciderlo, all’apice di un gioco teatrale che gli richiede un gran lavoro di immaginazione e ne stuzzica sapientemente le aspettative per tutta la durata dello spettacolo. Tuttavia rimane il rischio implicito in tutte le deleghe così radicali alla co-autorialità spettatoriale: proprio come i due performer restano a fare da sfondo alla creazione della città, sospesi fra predestinazione e gioco, la dimensione ludica, in assenza di un’assunzione di prospettiva schierata e dichiarata, rischia di travolgere la critica politica, con la minaccia di rimanere intrappolata nella magia del gioco teatrale e di riuscire a incidere poco sull’immaginario dello spettatore, impegnato com’è ad aspettare la prossima trovata, la sorpresa successiva, il raccordo mancante.

Visto a Al Limite Festival, S.a.L.E. Docks, Venezia

Roberta Ferraresi

Gli elementi scenici sono, come nel precedente I will survive, al centro della drammaturgia, sostanziali protagonisti dell’azione. Ma nonostante tale dichiarata e ricercata centralità, la presenza performativa, nella ricerca di Garten, sembra essere assunta in una dimensione radicale: nascosti per tutta la durata dello spettacolo, ad animare la vitalità di costruzioni di scatoloni sempre in divenire, in I will survive, in questo nuovo lavoro i performer sono oltremodo esposti allo sguardo del pubblico, in una costellazione di atteggiamenti e movenze che manifestano una riflessione di rilievo sulla figura interpretativa. Spettatori qualunque che qualunque non sono, si staccano dalla platea al calare del buio in sala per salire sul palco e dare vita all’azione. Due uomini in abiti consueti, che con delicatezza e una precisissima cura……………   fewjfjelkfelwjflefj