recensione velo nero del pastore

Il velo nero di Castellucci

Recensione a Il velo nero del pastore – regia di Romeo Castellucci / Socìetas Raffaello Sanzio
Articolo relativo alla versione della prova aperta di Senigallia vista in data 4/11/11 precedente al debutto a Romaeuropa Festival del 10/11/11

Non si rimane mai indifferenti davanti a un lavoro del regista Romeo Castellucci e della sua compagnia ormai storica Socìetas Raffaello Sanzio: usciti da teatro dopo aver visto Il velo nero del pastore aleggiano molte domande, si cercano le diverse strade interpretative, si tenta di sciogliere delle cripticità interne e costitutive di uno spettacolo che sconvolge a livello visivo per i grandiosi meccanismi scenici e lascia interdetti, alla ricerca di un significato che è forse nascosto proprio dietro l’atto stesso di ricercare.

Dopo Sul concetto di volto nel figlio di Dio (spettacolo che ha sollevato una grande protesta di alcuni cattolici francesi a Parigi, proprio mentre Castellucci stava mettendo a punto questo ultimo debutto), Il velo nero del pastore continua a indagare un campo dove la religione è intesa come l’atto di una comunità che si interroga su ciò che non riesce a spiegare, su un mistero che costituisce un buco nero della propria esistenza. Su questo punto si sofferma l’omonimo racconto del 1836 di Nathaniel Hawthorne da cui parte il regista – coadiuvato alla drammaturgia da Piersandra Di Matteo: un pastore decide di coprirsi la faccia con un doppio velo di crespo nero una domenica mattina fino alla fine dei suoi giorni; nessuno ne sa il motivo e tutti rimangono sconvolti da un’azione che non comprendono e che li mette a confronto con un mistero indicibile. Ed è proprio quest’ultimo quello che sembrano evocare le potenti immagini che regala Castellucci ai suoi spettatori: un mondo– che svela e nasconde, mostra e ritratta; l’orecchio si limita ad ascoltare dei suoni stridenti dato che la parola è assente; il regista si rivolge allo sguardo e a ciò che questo può attivare nell’uomo.

Se Sul concetto di volto nel figlio di Dio era contraddistinto da realismo e da uno svolgimento fin troppo didascalico, ne Il velo nero del pastore il gioco si fa completamente opposto: il lume della ragione sembra spegnersi, proprio come le nove lampadine che si frantumano secondo un particolare meccanismo all’inizio della messinscena. Mentre una musica liturgica lascia posto al noise di Scott Gibbons, che accompagna in un continuo crescendo le scene successive in cui sembra non esserci un reale collegamento, si ha un vero e proprio travolgimento sensoriale ed estetico. Gli impianti visivi si avvicinano a quelli lirici per la loro grandezza scenografica, ma anche a quelli cinematografici: è incredibile come il regista – qui anche scenografo aiutato alla progettazione da Giacomo Strada e dalle sculture/meccanismi creati da Istvan Zimmermann e Giovanna Amoroso – riesca a passare, attraverso dei montaggi incrociati, da uno straordinario effetto all’altro. Le oniriche immagini che Castellucci evoca si potrebbero ben trovare nei film di David Lynch come le tende che si aprono e si chiudono, indietreggiano con tutta l’intera struttura, provocando un vuoto scenico; o l’apparire, da un non-luogo, di una donna/farfalla che balla sensualmente in mondo dominato dal fumo, come se si trovasse nella periferia di una città pre-industriale. Ma ecco che il sogno a volte si scontra e si intreccia con la più cruda realtà e come all’inizio del ‘900 dalle pellicole dei Fratelli Lumière si fuggiva per paura che il treno uscisse davvero fuori dallo schermo, qui il fondatore della Socìetas dà corpo a quel meccanismo: si rompe la convenzione, la cornice ricreata e posta sul palco, e una vera locomotiva perfora le sovrastrutture sceniche ma anche quelle mentali.

Il meta-teatrale (potrebbe essere inteso come un tentativo di rito religioso?) si frantuma e non può che lasciar posto prima al vuoto e poi a una teca dove all’interno volano inarrestabili delle piume, formando residui e allo stesso tempo rimescolandosi in continuazione; l’uomo ne viene risucchiato e scompare, ricoperto da questa casualità centrifuga che come un vortice annulla tutto, anche la più piccola traccia di “eucariota animalia vertebrata tetrapoda mammalia” come recita la scritta del boccascena: ossia la più piccola traccia di essere vivente.

Come se per un’ora avessimo guardato oltre quel velo nero e al suo mistero indicibile che, infine, assorbe ogni cosa rendendola inafferrabile e affascinante, proprio come lo spettacolo di Castellucci.

Prova aperta del 4/11/11 vista al Teatro La Fenice, Senigallia (AN)

Carlotta Tringali