robe dall’altro mondo critica

Robe di questo mondo: lo spettacolo a strisce di Carrozzeria Orfeo

Recensione a Robe dell’altro mondo – Carrozzeria Orfeo

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foto di Andrea Casini Lari

«La realtà ha un odore insopportabile» dice, in finale di spettacolo, un pontefice in abiti civili, in fuga dalla folla e dalle responsabilità. Simbolo di una società in crisi, vittima di paure e fobie, schiacciata da meschinità e pregiudizi. Racconta il nostro tempo Carrozzeria Orfeo con Robe dell’altro mondo – reduce da un passaggio romano ai Teatri di Vetro e da alcune date milanesi al Teatro Out Off – le nostre città sempre più povere, economicamente e culturalmente, i suoi abitanti sempre più gretti, sospettosi, intolleranti. E per farlo attinge alla science fiction, dialoga con il fumetto, utilizza tecniche cinematografiche, non si priva del movimento, e poggia su una drammaturgia originale, firmata da Gabriele Di Luca, per uno spettacolo che dalla commistione di diversi linguaggi trae energia e equilibrio.

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foto di Andrea Casini Lari

Una struttura circolare, un susseguirsi di quadri che compongono man mano la storia, tra flashback e flashforward, un intersecarsi di vicende che attingono a piene mani all’attualità, l’alternarsi di dodici personaggi, tutti interpretati da quattro attori, i cui volti restano celati dietro maschere di lattice, che nascondendo la fisionomia reale modellano tipologie umane.
Apre lo spettacolo il primo di una serie di notiziari, con l’annuncio dell’arrivo degli alieni, che mai compaiono in scena, che rappresentano l’altro, il diverso, visto con diffidenza e stupore dalla comunità, portatore di speranza all’inizio e responsabile di ogni male alla fine.
Il palco, abitato da pochi elementi scenografici, si fa di volta in volta spazio esterno e ambiente interno, accogliendo dialoghi che nell’ironia nascondono la critica a un’Italia solcata da ansie economiche, tensioni razziali, inquietudini politiche.
Avviene per strada l’incontro tra due vecchietti: le chiacchiere sulle spese fatte, i consigli sulle piante da curare, le lamentele sugli acciacchi da sopportare, e pian piano la conversazione scivola nel litigio per futili motivi, e sfocia in una lotta danzata che ricorda la capoeira.
Vivono in un appartamento nei pressi della stazione Adel e Said, iraniano l’uno egiziano l’altro, coppia gay vessata da grottesche ronde padane, ‘omaggiata’ dagli amici alieni con una neonata che appaga il desiderio di famiglia.
Sono le stanze del potere religioso quelle in cui viene soppresso, con un’iniezione, il Papa, in un immaginario cupo che ricorda il visionario Dark City di Alex Proyas.

foto di Andrea Casini Lari

foto di Andrea Casini Lari

Si consultano in un centro estetico un politicante volgare e il suo galoppino, ometto insulso, tra un massaggio orientale e una telefonata che rivela degradati e drammatici scenari domestici.
Zucchero filato tra le mani, sguardi bassi per la timidezza, due adolescenti siedono l’una accanto all’altro sulla panchina di un luna park. Teneri e ingenui approcci amorosi lasciano spazio a discorsi da bambini cattivi, tra egoismo e perbenismo.
C’è, nell’orazione di un uomo solo davanti alla collettività, in quell’infilare parole per riempirsi la bocca, senza dire niente di compiuto, il delirio di un’autorità farneticante, la pochezza della politica attuale. Si riconosce, in quei bollettini radiofonici che danno rilievo a fatti inconsistenti tralasciando le notizie importanti, il peggioramento della qualità della comunicazione. Si legge, nell’immagine dell’orso bianco e della lattina di Coca Cola, il dilagare del consumismo e l’influenza della pubblicità.
Ha, questo spettacolo ‘a strisce’, l’immediatezza del fumetto, un fascino filmico e fantascientifico, un dialogare fresco e un’atmosfera a tratti straniante, che facendoci assaporare una realtà ‘altra’ tratteggia, sapientemente e delicatamente, le aberrazioni della contemporaneità, quelle cui assistiamo al supermercato o al parco, che vediamo nelle nostre strade e viviamo sulla nostra pelle. Robe di questo mondo.

Visto al Teatro Palladium, Roma

Rossella Porcheddu