roberto latini

Short Theatre 9: quale rivoluzione?

«Quali le parole che possono raccontare il nostro domani imminente (quello che sarà e quello che vogliamo)?» Se lo chiede, e ce lo chiede, Fabrizio Arcuri nel presentare l’ultima edizione di Short Theatre, che sceglie come leit-motiv La Rivoluzione delle parole, e intende porsi come occasione della domanda e della risposta, e come luogo che genera ulteriori domande.
A manifestazione finita, con un bagaglio di spettacoli visti e rivisti, proviamo a interrogarci sulle parole che sono scivolate via e su quelle che sono rimaste. In un percorso che non vuole restituire tutto, ma soffermarsi su alcuni momenti, forse costruire un arco temporale, che inizia con vicende universali per concludersi con episodi particolari.

A.H. ph Claudia Pajewski

A.H. – foto di Claudia Pajewski

Rimandano alla grande storia le parole di A.H., alla guerra, ai campi di concentramento, allo sterminio, alla dittatura, eppure in nessun momento questi vocaboli vengono pronunciati (da DreamCatcher2013 visioni e sonorità di A.H.). Perché non è un lavoro sul Terzo Reich, tanto meno sul Führer, è un lavoro sul male e sulla sua origine, è un lavoro sulla menzogna e il suo potere. È un solo in cui l’azione la fa da padrona, è un solo in cui la drammaturgia è calibrata, in cui i lemmi sono isolati, ripetuti, enumerati, fino a farsi suono, fino a sciogliersi nel corpo e lì dentro continuare a vivere.
Apre e chiude lo spettacolo menzogna, che rimanda alla falsità del linguaggio, e alla lingua come strumento di comando. Riecheggia Io, accostato a Europa – “Io sono Europa, Io ero Europa, Io sarò Europa” – a significare l’influenza di un unico uomo su un intero continente, con l’arco verbale e temporale che rende conto dell’ostinazione del male, della sua permanenza, e dei suoi, infiniti, strascichi. Sciabola. Balestra. Bombarola. Schioppo. Mitragliatrice. Sono elencate, una dopo l’altra, le armi che hanno minacciato, quelle che hanno ferito, quelle che hanno ucciso, una descrizione per oggetto che è determinazione ‘strumentale’ della guerra. Parole, quelle di Bellini e Latella, che stimolano una sorta di esercizio della memoria, per una necessaria, e collettiva, consapevolezza di ciò che è stato.

È un testo novecentesco quello scelto da Roberto Latini, I Giganti della Montagna, opera pirandelliana, metateatrale, mai finita. Campeggia al centro della scena, in uno schermo, immaginazione, come stimolo ad andare oltre un limite non fissato. Il primo atto di questo lavoro affascina per bellezza scenica, per abilità attoriale – perché Latini con la sua voce e la sua presenza è capace di evocare mondi –, stimola la nostra capacità immaginifica, ma forse non è la morbidezza di un campo di grano ciò che cerchiamo.

E allora ci risuonano nelle orecchie le parole di Handke, «non abbiamo bisogno di illusioni per farvi vedere delle illusioni». E in effetti non si vede niente in Insulti al pubblico dell’Accademia degli Artefatti –  nuova edizione di un lavoro del 2006 –  piuttosto si ascolta. Perché il dialogo tra due attori che non andranno mai in scena si nasconde dietro un sipario, o, quando è scoperto, ci arriva filtrato da un megafono. Non personaggi in una scena che non c’è, Daria Deflorian e Pieraldo Girotto discutono di ciò che potrebbe accadere, senza mai farlo accadere. La parola di Handke, parola politica di un tempo e di un luogo che non è il nostro, ci dice molto –  ancora adesso –  del rapporto tra palco e platea, tra spettatore (insultato) e attore (insultante); pone il pubblico, e necessariamente anche l’artista, in una condizione di attesa, di dubbio, e in una possibile (ri)definizione del rapporto.

Mio figlio era come un padre per me

Mio figlio era come un padre per me

E poi ci sono lavori incollati al nostro tempo, spettacoli che parlano una lingua vernacolare, talvolta cantilenante, spesso imprecante.
«Tedio domenicale, quanta droga consumare, quanti amori frantumare»: si apre con una nenia Mio figlio era come un padre per me dei Fratelli Dalla Via, che partono dal microcosmo di Tonezza del Cimone (di cui, peraltro Diego Dalla Via è sindaco) per fotografare uno spaccato del nordest. C’è il miraggio del lavoro e della ricchezza, c’è il fallimento dei padri trasmesso –  come un virus –  ai figli, perché «il miracolo del nordest è la fotocopia smarrita del sogno americano», perché «la prima generazione ha lavorato. La seconda ha lavorato e risparmiato. La terza ha lavorato, risparmiato e sfondato… poi siamo arrivati noi».
I vincitori dello Scenario 2013 (qui una conversazione con Marta e Diego) ci raccontano, con cinismo e non senza un’amarezza di fondo, quella condizione perenne di figli che i 30/40enni di oggi conoscono molto bene, l’inabilità a decidere delle proprie vite, e la frustrazione dei padri, che finiscono per togliersi di mezzo gettandosi sotto un treno, gesto che è ulteriore privazione di azione, ultima etichetta di incapacità apposta sulla fronte dei figli.

E ancora di padri e di figli si parla nella prima apparizione di Jesus, dove ritroviamo Enrico Castellani e Valeria Raimondi alle prese con le domande dei figli, o meglio di Ettore, il più grande, interrogativi che hanno a che vedere con l’educazione, con la religione, che hanno a che vedere con la morte, e con la vita. Nel tentativo di spiegare c’è la difficoltà di mentire, lo sforzo di dire la verità, c’è lo scontro con la società cattolica, ma soprattutto quello che cogliamo (almeno in questa prima apparizione) è la bellezza e la fatica di essere genitori, oggi come ieri.

I Giganti della montagna

I Giganti della montagna – foto di Simone Cecchetti

Come si può pensare il futuro? Con un piena coscienza delle menzogne del passato? O con l’amarezza delle miserie dell’oggi? Ci salveremo con l’immaginazione? O sarà il disicanto a tenerci in piedi? Pirandello nei Giganti ci dice che «non bisogna aver paura delle parole». Latella ci racconta tutta un’altra storia.
Accanto a vocaboli secchi, diretti, violenti, che abbiamo voluto evidenziare, restano le sagome di due uomini (Roberto Latini, Francesco Manetti) accartocciati sul proprio corpo, che nella nudità si fa inerme. E questo ci parla di declino, di deterioramento, e, ancora una volta, di crisi.
A dare un senso di trasformazione, di rivoluzione se vogliamo, sono i corpi svestiti di Valeria e Enrico (Babilonia Teatri) che nell’abbraccio generano la vita.

Rossella Porcheddu

Collinarea 2013: tra solitudine, oppressione e follia

Ritmi ancestrali, sonorità arcaiche si diffondono. Fumo corposo si spande come nebbia. Maschere di maiale coprono volti, mani guantate muovono fili, animano personaggi. Una bici per due corre veloce, solcando strade per svelare vite. Tra mosse, contromosse, botte e risposte, pedine si muovono sulla scacchiera di Beckett, piccoli tossici di provincia abitano interni domestici, tra spaccio di marjiuana e tragedie familiari. Della XV edizione di Collinarea, che si è svolta a Lari dal 19 al 28 luglio, restano suoni, immagini, frammenti visivi o sonori, per una diversità di proposte, per un programma eterogeo, che ha invaso la rocca rinascimentale e il piccolo teatro, gli spazi aperti e quelli chiusi, che ha unito protagonisti della scena contemporanea e compagnie emergenti, sotto la direzione artistica di Loris Seghizzi, Roberto Bacci, Luca Dini, e con il contributo di Massimo Paganelli. Un festival il cui sottotitolo genius loci – mette in evidenza il legame con il piccolo borgo toscano, luogo fuori dal tempo. Un “figlio voluto; cresciuto grazie all’entusiasmo di un gruppo di persone che non si è mai sciolto, rendendo onore alla storia di Scenica Frammenti, una storia di compagnia teatrale a carattere familiare” – come si legge sul sito di Collinarea. Un’edizione, quella 2013, che propone due co-produzioni della Fondazione Pontedera Teatro, Il Guaritore del Teatro MinimoThanks for Vaselina di Carrozzeria Orfeo, le prime nazionali di Scenica FrammentiSogno di un Marinaio, ispirato a Il Marinaio di Fernando Pessoa, e 13 6 81, una matrioska di storie, entrambe con la regia di Loris Seghizzi, senza ricercare un’omogeneità tematica, ma tracciando un percorso di continuità con artisti che ormai si possono definire habituées del festival, e individuando molteplici traiettorie, che attraversano mondi surreali e realtà malavitose, conferenze tragicomiche e partite con la morte.

Foto di Andrea Casini

Finale di partita – Foto di Andrea Casini

Resta la piacevole convivialità che ha accompagnato The living room, lavoro del Workcenter of Jerzy Grotowsky and Thomas Richards, ma quel viaggio iniziatico che si compie durante lo spettacolo non riusciamo a farlo nostro, come ricordiamo la violenza delle spranghe e la velocità nella corsa di due adolescenti, in frammento da tandem – in anteprima nazionale  di Lo Sicco-Civilleri, ma le loro storie non restano impresse. È poetico, emozionante, oscuro, carico di tensione e sapienza artigianale, Finale di Partita del Teatrino Giullare, spettacolo pluripremiato, produzione del 2006 di cui molto si è detto e scritto. E poggia su una drammaturgia cruda ma ironica, ha un ritmo incessante con pause di respiro drammatico, Thanks for Vaselina di Carrozzeria Orfeo, presentato in forma di studio (leggi qui l’intervista a Gabriele Di Luca), “controcanto degli ultimi al mondo del benessere”. Solitudini esistenziali, fragilità umane, sono quelle che attraversano i lavori di Roberto Latini, di Ciro Masella e di Andrea Cramarossa, visti tra il 25 e il 27 luglio.

Foto di Andrea Casini

Noosfera Museum – Foto di Andrea Casini

Esterno castello, buio, vento. Tintinnare ferroso, sangue che cola sul mento, schiena ricurva sulla sedia, bottiglia in un mano, parole amare sulle labbra, Roberto Latini in Noosfera Museum  terzo capitolo del progetto Noosfera, prodotto da Fortebraccio Teatro  è un naufrago su un’isola deserta, dove la parola è cantilenata, il gesto è dondolato, la figura umana risucchiata e la mente offuscata da densità materiche.  C’è un vibrare di chiavi che non aprono nessuna porta, una patina dorata sugli occhi, quasi a celare lo sguardo, c’è l’incedere incerto dell’ubriaco, un blaterare ripetuto e sconnesso, e quel ‘mettere la strada sotto i piedi’ senza andare in nessun posto, girando intorno a una vita che si riavvolge su se stessa. Un lavoro di cui si è parlato in occasione di Primavera dei Teatri, dove è stato presentato in prima nazionale (leggi qui), uno spettacolo metaforico, che stimola diverse visioni e molteplici interpretazioni.

Foto di Andrea Casini

Kafka nel regno dei cieli – Foto di Andrea Casini

Sempre esterno, ancora castello: bava alla bocca, occhi di carta, Andrea Cramarossa (Teatro delle Bambole) affronta Kafka nel regno dei cieli  spettacolo per un attore solo  mascherando volto e sguardo dietro figure antropomorfizzate, utilizzando vecchi mangianastri che sputano voci del passato, accendendo e spegnendo luci domestiche che ondeggiano all’oscillare degli stati d’animo. È un padre duro e esigente, un figlio ricurvo e malaticcio, una madre un po’ sbiadita. È la famiglia che accerchia e soffoca il singolo, la società che calpesta l’individuo. Mescola l’autobiografia kafkiana con brani tratti da La metamorfosi, Il digiunatore, Nella colonia penale, l’attore pugliese, per uno spettacolo cupo, che se riesce  in alcuni momenti  a schiacciarci con un senso di oppressione, a suscitare un disagio, un malessere, in altri resta intrappolato, chiuso in se stesso, non rende palpabile fino in fondo l’angoscia dell’esistenza.

Muro - Foto di Andrea Casini

Muro – Foto di Andrea Casini

Interno, teatro, claustrofobia, la luce della luna che squarcia il buio di uno spazio angusto. Reclusione e immaginazione, solitudine e follia. Quella di Nannetti Oreste Fernando, tratteggiata nella pièce firmata da Ciro Masella e Kantestrasse, meglio noto con lo pseudonimo di N.O.F.4., dove quattro sono i luoghi che ne hanno imprigionato il corpo ma non la fantasia: un orfanotrofio, un carcere, due manicomi. Una biografia, quella del “colonnello astrale, scassinatore nucleare, astronautico ingegnere minerario” incisa con la fibbia della cintura sul muro del padiglione Ferri nell’ospedale psichiatrico di Volterra. Una storia, quella del viaggiatore, del visionario, dello psicotico, raccontata da quattro attori, e da molte (forse troppe) parole. Se Muro riesce a restituire il vociare interiore, l’affollamento mentale, l’asfissia psichica, quel frastuono che rende l’uomo folle e geniale al tempo stesso, si sente la mancanza  di tanto in tanto  di un’incisione che sia silente, di un solco muto, di un fragore sordo, che possa lasciare spazio all’inquietudine, al turbamento, e infine al sogno.

Rossella Porcheddu