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Gli Orazi e Curiazi secondo l’Accademia degli Artefatti

Recensione a Orazi e Curiazi – di Accademia degli Artefatti

foto di Futura Tittaferrante

Macerie, tracce più o meno riconoscibili, frantumi. Questa è l’immagine con cui si conclude Orazi e Curiazi, ultimo lavoro dell’Accademia degli Artefatti per la regia di Fabrizio Arcuri – un’istantanea residuale di dichiarata incidenza, destinata sia a tirare materialmente le somme di tutto ciò che è accaduto fino a quel momento, sia a rilanciarne i sensi, attraverso l’intuizione di nuovi e non previsti rapporti fra gli oggetti stessi o quel che ne resta. Sedie rovesciate e scheletri, banconote stropicciate e spaghetti in bianco; coriandoli che erano una tempesta di neve, tante tante bandiere, fiori finti e panna calpestata; foglie secche e vestiti, ingarbugli di cavi e megafoni… Elementi che vanno dalla calcata asetticità della scena inaugurale, in cui uomini in tuta anti-radiazioni perlustrano con tanto di contatore geiger quella che potrebbe essere una qualche sede del partito comunista in totale abbandono, al plastico della scena finale, una miniatura del campo di battaglia che vuole riepilogare l’accaduto assieme agli attori radunati sui banchi di scuola. Dal crollo del muro di Berlino a quello delle Torri Gemelle, facendo un salto di prospettiva a richiamare scansioni sociali, storiche e politiche ormai assorbite, perché proprio quel sopralluogo iniziale, fra l’archeologico e l’apocalittico, vuole forse andare subito a segnare la profonda cesura che separa la creazione di Brecht dal mondo post-ideologico in cui il suo testo è oggi messo in scena.
Apice del caos che si è progressivamente impadronito del palcoscenico nell’ora e mezza di spettacolo, quest’immagine così sovraccarica può essere collocata a emblema di un percorso che lavora proprio sulla “confusione”: una messinscena che auspica l’incontro di livelli semantici differenti e la proliferazione continua di sensi, fino a rischiare di frantumarsi nella molteplicità di informazioni che dominano la scena e nell’abbondante libertà delegata allo spettatore. In Orazi e Curiazi coesistono – si confrontano e si intrecciano – tanto l’estetica pop contemporanea che l’intervento politico, così come il proposito soggettivo e la negoziazione della prospettiva collettiva, filosofia post-strutturalista, rimpasti di sonorità new wave e feste di compleanno. Basti pensare alla guerra, in cui entra tanto l’attualità della politica nazionale, fra arbitri corrotti e schieramenti che si scambiano di ruolo in continuazione, quanto l’immaginario ludico dei giochi di ruolo e quello del tifo da stadio. O a «molte cose sono in una cosa sola», slogan straripetuto in cui si avverte tutto un dispositivo di comunicazione che va dalla tradizione retorica al motto della saggezza popolare, fino a No logo di Naomi Klein; o, ancora, al guerriero che auto-riprende in video la propria battaglia, una vertigine percettiva e concettuale che intreccia l’autorialità fai-da-te di youTube ai film di Rambo.

E se dunque i materiali, i registri, le fonti, sono troppi per poter essere ognuno inseguito in un percorso fruitivo lineare, può essere interessante osservarli nella dimensione in cui tutti si incontrano e si esprimono: ovvero quella performativa. Perché viene da chiedersi come mai una compagnia di ricerca nota prima per una cifra fortemente performativa e poi per un lavoro sulla nuova drammaturgia internazionale, vada a scegliere proprio un dramma didattico – Brecht diceva che servivano solo come esercizio per gli attori – e, per altro, neanche uno dei più celebri. Così, non a caso, sul palco viene dedicato in pratica più tempo all’esposizione e alla demistificazione dei dispositivi scenici che alla rappresentazione vera e propria, fino a rischiare che il gioco attoriale si riveli talmente denso da chiudersi al pubblico, invece che coinvolgerlo. L’indicazione è chiara, l’occasione curiosa: lo statuto dell’attore-performer è (può essere) il centro autentico della messinscena diretta da Fabrizio Arcuri (leggi l’intervista). Così Orazi e Curiazi potrebbe essere un momento per fare i conti con il percorso compiuto finora dagli Artefatti che si risolve, in coincidenza a una svolta etica ed estetica decisiva, nella messa a punto di quell’atteggiamento attoriale che ormai è la cifra distintiva dei lavori della compagnia: il testo di Brecht non è stato toccato (se non per l’aggiunta dell’epilogo), i canoni epici applicati fin nel dettaglio e ogni attore è comunque presente allo stesso tempo come persona e come performer, impastando le parole che deve pronunciare con una precisa contestualizzazione individuale fatta di intonazioni e sfumature, qualità differenti di presenza e di adesione rispetto a quel che fa e a ciò che accade in scena. Se il V-Effekt brechtiano prevedeva una distanza critica da parte dell’attore nei confronti di quello che diceva, ora, in epoca post-ideologica, l’individualità del soggetto è nuovamente chiamata in causa in un intreccio consapevolmente indistricabile di immedesimazione e distacco, tanto che si potrebbe parlare di straniamento nell’epoca dell’iper-reale.

Visto e rivisto a Santarcangelo 41 e a Teatri di Vita di Bologna

Roberta Ferraresi

Indagini fra teatro e realtà. Intervista a Fabrizio Arcuri

L’Accademia degli Artefatti a metà novembre è stata a Bologna, a Teatri di Vita, con Orazi e Curiazi, ultimo lavoro della compagnia che sembra segnare una svolta: a inizio anni Novanta ha fondato un’estetica fortemente performativa legata all’immagine e, diventata poi celebre per il percorso fra gli autori inglesi contemporanei, ora affronta i drammi didattici di Brecht. Ma quello che sembra una grande novità, in realtà decanta da tempo nella modalità che la compagnia adotta nel lavoro attoriale, drammaturgico-registico e di relazione con il pubblico. Certo è che il teatro degli Artefatti sembra, oggi, più vicino a intenti politici e civili, che alle dinamiche che ne avevano caratterizzato i primi lavori. Ne abbiamo parlato con Fabrizio Arcuri, che dirige il gruppo fin dalla sua fondazione…

L’Accademia degli Artefatti si è distinta, in questi anni, per un lavoro sulla drammaturgia contemporanea e, anzi, forse possiede addirittura il merito di aver importato in Italia una certa scrittura teatrale inglese: Sarah Kane, Martin Crimp, fino a Crouch e Ravenhill… Come siete arrivati a Brecht?
La verità è che siamo partiti da Brecht: circa una decina di anni fa, abbiamo sentito la necessità di cercare delle suggestioni diverse. Sentivamo che il teatro che stavamo facendo aveva raggiunto un limite: l’immagine e la dimensione di costruzione simbolica della realtà non riuscivano più a leggere il contemporaneo. Credo che nel momento in cui la realtà supera quello che simbolicamente fino a quel momento l’aveva rappresentata, non ci si può permettere – perché in fondo l’artista ha molti più doveri che diritti – di perdere quel messaggio, perché altrimenti si rischia di riflettere una realtà che non esiste già più. Come artista, penso sia fondamentale riflettere e cercare di capire quali siano le coordinate che questa realtà sta dettando. E quindi capire dove bisogna spostarsi per cercare di continuare a rappresentarla, ad apprenderne degli elementi per poi restituirli in domanda, in riflessione, in materiale di indagine.
Dunque abbiamo pensato che dovevamo fare un po’ piazza pulita. Siamo intorno agli inizi degli anni Duemila. Abbiamo cominciato a studiare, soprattutto saggi e teorie teatrali di chi era partito da un punto di vista politico e civico, nel contesto di un tentativo di utilità del teatro all’interno della società: Brecht e Pasolini, poi tutto quello che da loro è partito come Müller o Lehmann… Suggestioni e suggerimenti su come il teatro possa essere un atto politico in senso più specifico: è ovvio che un corpo in scena con un atteggiamento politico di rifiuto, prima poteva essere il suo silenzio e la sua stasi, mentre oggi dev’essere qualcos’altro. Quindi abbiamo cominciato a cercare dei testi diversi, con un duplice obiettivo: da una parte, che ci permettessero di allontanarci da un’idea di teatro legata all’immagine e al simbolo ma che, dall’altra, non rappresentassero un percorso di ricerca legato alla parola, alla narrazione. A quel punto abbiamo incontrato la drammaturgia inglese contemporanea, con autori che ci permettevano di trovare un interstizio interessante: il vuoto, la pausa tra una parola e l’altra all’interno di una narrazione non lineare che si apre su diversi livelli. Oggi siamo abituati costantemente a vivere a tanti livelli di realtà diversi: il nostro rapporto diretto con le cose è minimo e paradossalmente facciamo molte meno esperienze individuali, ma allo stesso tempo attraverso i mezzi di comunicazione veniamo a conoscenza di molte cose. Ogni mezzo, tuttavia, per linguaggio e gestione, ci racconta solo un aspetto della realtà, che è autentico soltanto nella sua parzialità: queste porzioni di realtà possono essere vere solo se riescono a tenere in considerazione anche le altre. Penso che questa sia la fatica più grande per il cittadino contemporaneo – occorre abituarsi a contenere simultaneamente tutti i livelli di realtà che si ricevono, altrimenti si rischia di avere una visione parziale – e penso che sia anche l’impegno più grande per un artista: allenare lo sguardo e il pensiero a contenere i diversi livelli di realtà che ci rappresentano.

Vorrei chiederle, se possibile, di “sbirciare dietro le quinte” del vostro lavoro, nell’atelier mentale e materiale che presiede la creazione, dalla scelta dei testi al lavoro con gli attori alla messinscena… Esiste un processo, un metodo?
No, non c’è un processo, c’è una sorta quasi di casualità. Ad esempio, quando abbiamo deciso di affrontare Brecht, perché sentivamo che era arrivato il momento di chiudere un cerchio rispetto a un certo modo di stare dell’attore nei confronti del testo e dello spettatore, non abbiamo individuato immediatamente un testo: ne abbiamo praticati diversi, scoprendo lentamente quale poteva essere rispetto all’urgenza. Quindi la scelta dei testi, si potrebbe dire, che è abbastanza casuale – e comunque mai troppo preconcetta.
Quello che chiamo “atteggiamento”, invece, fa parte di un percorso di ricerca, di affinamento e di verifica che portiamo avanti da diversi anni. Ma non è un metodo, secondo me non esiste un metodo – anche se, in effetti, ha una presenza molto forte.
Chiedo agli attori di avere un atteggiamento molto preciso: per me è impensabile che, dovendo entrare in comunicazione con il pubblico, l’attore parta sapendo di più dello spettatore, per cui chiedo sostanzialmente un azzeramento e di credere alla più piccola cosa possibile, senza mai dare nulla per scontato. La cosa più piccola a cui si può credere, chiaramente, è a se stessi come persone e alla relazione che si instaura in quel momento. Da qui comincia una verifica del testo, che si sviluppa attraverso la griglia della possibilità o meno di aderenza: per me è fondamentale che gli attori abbiano una responsabilità molto grande, quella di aderire o meno a quello che stanno dicendo, in funzione di quello che sta succedendo in quel momento e di quello in cui credono veramente. Si tratta di mantenere, per l’autore, la possibilità di esprimere se stesso, ma al contempo conservare la medesima opportunità per gli attori. È fondamentale rispettare le parole, ma i sensi, siccome non è dato saperli, si aprono nell’azione.
I modi di aderenza al testo, ovviamente, vanno anche comunicati allo spettatore – questo è un atteggiamento riconoscibile per chi vede i lavori degli Artefatti. È un atteggiamento che rifiuta un’interpretazione di carattere interiore o neutrale: dico delle parole perché devo o perché ci credo; le dico, certo, perché devo, ma nel frattempo all’interno ci finisce tutto quello che succede, compreso magari il fatto che non ho voglia di dirle. È chiaro, poi, che andiamo a cercare dei testi che in qualche maniera lo consentono. Poi, ogni volta che si affronta un testo, occorre capire con chi ce l’ha l’autore, chi sta facendo parlare con chi, la costruzione della triangolazione col pubblico…
Questo è il tipo di lavoro che facciamo: la forma e il modo con cui affrontiamo ogni lavoro risulta sempre come conseguenza dell’attivazione di questi meccanismi, di queste chiavi di indagine del testo.

Per tornare al discorso del pubblico: il teatro di Brecht, oltre a un radicale modello d’attore, propone una altrettanto forte riflessione sul ruolo dello spettatore… Che tipo di relazione intendete fondare con il pubblico?
Ho sempre in mente un passaggio del manifesto di Pasolini in cui dice che gli attori non vogliono dare scandalo presso gli spettatori, ma che il pubblico è complice. Penso sia un po’ la nostra utopia: cercare un rapporto di complicità dialettica. E credo anche di onestà, dando allo spettatore la possibilità di vedere la costruzione del percorso, non lasciandolo mai nella possibilità di non sapere.

Ci sono passaggi di Orazi e Curiazi in cui è impossibile stabilire se la Didascalia serva a descrivere gli eventi che accadono o se sia essa stessa a crearli. Questo ci porta al territorio dei rapporti fra teatro e realtà: il teatro rappresenta quello che succede o forse lo produce anche?
In Orazi e Curiazi, ci sono due ordini di didascalie: la prima indica cosa devono fare gli attori, l’altra commenta ciò che è successo. Sempre nel contesto di un rapporto di onestà col pubblico, abbiamo deciso di rivelarle entrambe, mettendo lo spettatore a conoscenza che Brecht opera questa doppia modalità, di come l’attore si rapporta alla descrizione di quello che sta accadendo e, d’altra parte, di come dovrebbe reagire.
Pensare che il teatro possa da un lato descrivere la realtà e dall’altro modificarla sia una grande utopia di Brecht. Ma che l’arte possa trasformare la realtà credo sia un punto fondamentale: se in qualche modo potesse non essere vero, staremmo tutti perdendo seriamente del tempo.

Nelle note allo spettacolo, si legge una citazione da Jean-Luc Nancy sul concetto di contemporaneo: idea che, sganciata dal radicamento cronologico, consiste in «qualcuno del quale riconosciamo che la voce, o il gesto»… Chi considera suoi contemporanei?
Abbiamo scelto quella citazione proprio perché mette in crisi il concetto di contemporaneo e di attualizzazione, in cui non crediamo più di tanto: ci sono cose che mi colpiscono, dandomi la possibilità di aprire un pensiero e una riflessione. Sono elementi disseminati nelle diverse epoche, e poi dipende anche dal momento: se mi avessi fatto questa domanda quindici anni fa, avrei detto Bacon o Deleuze, figure importanti da cui raccoglievamo molte suggestioni. Oggi, per motivi molto diversi e senza per forza condividerne anche l’estetica, potrebbero essere Beuys o Cattelan, è molto difficile. Il gusto personale è un elemento che non faccio entrare in gioco e l’approccio emotivo mi dà fastidio, perché, se non è funzionale, credo sia un metodo un po’ pornografico, che è sempre una trappola. Credo che in questo momento le persone che sento più vicine siano quelle che lavorano nell’onestà e nel rivelare, per quanto possibile, i meccanismi e non abusarne per farne delle armi di seduzione.

Roberta Ferraresi

Storia che viene. Storia che va

foto di Andrea Cravotta

La grottesca giostra della Storia continua a porre in luce conflitti di una civiltà  che contrappone buoni a cattivi, libertà a sottomissione, trovando nella guerra l’accentuazione di tale opposizione. Il teatro risponde a questo attacco continuando a parlarne. Parla di guerre l’Accademia degli Artefatti, diretta da Fabrizio Arcuri, e lo fa partendo da  Shoot/Get Treasure/Repeat di Mark Ravenhill. L’origine di quest’opera, ormai nota e mitizzata, vide, nel 2007, il drammaturgo inglese comporre 17 pièces revisionando in chiave contemporanea alcuni testi classici sul tema della guerra, da Omero a Euripide, da Dostoevskij a Brecht. La saga teatrale viene ripresa da Arcuri. Dieci sono i frammenti che l’Accademia degli Artefatti mette in scena. Appare abbastanza complesso tutto il meccanismo e per non mandarlo in tilt, il Teatro Metastasio Stabile della Toscana ha proposto una kermesse di due giorni nella quale presentare consecutivamente le dieci pièces di Spara, Trova il tesoro e ripeti.

Il secondo ciclo si è aperto con la rappresentazione di Delitto e castigo seguito da Paradiso Perduto, Nascita di una nazione, Terrore e miseria per chiudersi con l’Odissea. Gli episodi si sviluppano in un susseguirsi fluido di contrasti umani. La pazzia della guerra prende le mosse da situazioni specifiche come nella prima pièce. Delitto e castigo racconta di un interrogatorio di guerra che nel suo evolversi sprofonda nella psiche umana, nella crudeltà dell’invasore che, giustificato dalla sua missione di aver portato libertà e democrazia in un Paese, pretende che gli venga riconosciuto il diritto di appropriarsi di ciò che ha

foto di Andrea Cravotta

liberato. Ma la vittima, sembra dirci il regista, non è solo colui che si trova in territori occupati.  Come in un processo dai labili confini, vittima diviene anche il soldato sottoposto a decisioni a lui superiori, decisioni incontestabili che gli faranno perdere ogni contatto con la vita. L’ipocrita logica dei portatori di pace, la messa in scena di un’ipotetica giustizia sfumata di razzismo e repressione, si fa dettaglio per addentrarsi nelle frustrazioni della vita di una famiglia borghese con Terrore e miseria. Se un ingannevole spiraglio di salvezza viene dichiarato in Nascita di una nazione nell’appellarsi dell’uomo all’arte come ultima via d’uscita,  Arcuri non tarderà, con Odissea, a riportare in auge domande quali Chi porta la libertà a chi? Chi ha così tanta democrazia da poterne regalare un po’? Con lo sguardo rivolto sempre verso lo spettatore, gli attori  sembrano voler rendere ogni soggetto consapevole delle proprie colpe e della propria inerzia. Il regista ci lascia al di qua della scatola scenica che si fa “specchio” del pubblico, come in Delitto e castigo, ma allo stesso tempo ne definisce il limite del suo intervento. Illusorio coinvolgimento è ciò che emerge da ogni pièce. Gli attori si muovono tra le gradinate del teatro, consegnano carta e penna agli spettatori (Nascita di una nazione), lasciano che questi si sentano chiamati in gioco, responsabilizzati, per poi annullarne ogni valenza, tornare alla messa in scena, alla distanza e passività dello spettatore. Nella drammaturgia frammentata le parole si fanno portatrici delle più varie sfaccettature anche se non viene mai meno la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un conflitto tra Occidente e Oriente raccontato dalla posizione di un occidentale. Come in una battaglia navale, la kermesse ha visto un dileguarsi di persone nel susseguirsi delle rappresentazioni, come a volerci ricordare il limite di accettazione delle nostre responsabilità o sopportazioni.

Visto al Teatro Fabbricone di Prato il 31 gennaio 2010

Elena Conti