spettacoli arturo cirillo

Nell’immaginazione di Otello

Recensione a Otello – regia di Arturo Cirillo

foto di Tommaso Le Pera

Luogo della finzione, il teatro dà vita a qualcosa che eternamente oscilla tra l’essere e il non essere, tra una realtà illusoria e una finzione allusiva; una sorta di patto instabile tra due mondi lontani, posizionati su diverse orbite che su di un palcoscenico intrecciano la loro rotta, rendendo sottile lo scarto tra vero e falso. Nella messa in scena dell’Otello del regista Arturo Cirillo, questa doppia natura è portata verso un apice: la verità a cui ci si potrebbe aggrappare, e ben visibile agli occhi, è messa in discussione da una immaginazione fervida che apre a un universo nuovo, sconosciuto che come un buco nero risucchia tutto ciò che gli gravita intorno. La tragedia shakespeariana che vede il Moro protagonista si gioca su sfere differenti, avvolta da un’ambiguità che pende durante il corso della tragedia sempre più verso le sovracostruzioni fantasiose create ad hoc dalla pura arte oratoria, usata con perfidia. E se nella rappresentazione, quasi priva di azioni, il letto, su cui addirittura entrano in scena i personaggi, diventa simbolo di immobilità e dissolutezza, la parola ne è il contraltare centrale: usata in modo egregio e convincente dall’antagonista Iago, è questa a instillare un dubbio inconsistente ma presente come una polvere nociva che viene respirata inconsapevolmente. La traduzione di Patrizia Cavalli restituisce in versi uno Shakespeare concentrato e denso, in alcuni tratti sibillino e non di così semplice fruizione; ma d’altra parte è proprio grazie a questa sua natura di testo ambiguo che Otello si lascia trascinare in quel mondo immaginifico dove l’amata Desdemona lo tradirebbe con il suo luogotenente e caro amico Cassio.

È il dubbio più che la gelosia a divorare il Moro interpretato da Danilo Nigrelli: egli è lo straniero, con la faccia pitta a metà, bianca e nera; la sua è una presenza che si discosta dagli altri personaggi, per l’andatura quasi trascinata, per la voce retorica e padronale che solo nei dialoghi con Iago si scardina per arrivare a sputare parole dettate da rabbia; ed è proprio in seguito al confronto con il suo alfiere che i diversi colori sul suo volto non conoscono più confine e si mescolano, perché in fondo i sentimenti umani, travolgenti, non sanno cosa sia la diversità. Otello non ha più integrità, si aggira stando in piedi a fatica, crolla in terra per una crisi epilettica e accusa gratuitamente sua moglie trattandola da prostituta. Se è il protagonista stesso ad alimentare ciò che pur inconsciamente era già dentro di lui, ossia la paura di essere tradito, trascinandosi da sé dentro quel buco nero senza possibilità di ritorno, è un’anima innocente e pura invece Monica Piseddu che dà vita a una Desdemona incredula e sottomessa al suo amore, incapace di comprendere quel lato oscuro di Otello che la porterà alla morte. Non può vivere in quel mondo falso e infetto dove la perfidia dilaga ed è instillata da uno Iago che tutto muove, pur stando immobile per gran parte del tempo con le mani dietro la schiena e la testa alta. Ed è il regista Cirillo ad indossarne egregiamente i panni: la gestualità del suo corpo e i versi per lui tradotti dalla Cavalli incarnano in maniera impeccabile l’animo infido di quel personaggio dalla lingua biforcuta ma affascinante come una serpe. L’alfiere sembra essere la vera contrapposizione di Desdemona: se lei è mossa da un amore ingenuo e privo di ogni ambiguità, Iago brucia di una malignità incondizionata e a suo stesso modo pura; è come una piccola ombra già presente nell’uomo che si alimenta di dubbio. È lui a tessere tutta la trama in uno spazio dell’immaginazione dove l’intelligente scenografia, illuminata suggestivamente da Pasquale Mari, si risolve in due gelide mura mobili create da Dario Gessati: e vengono spostate proprio da Iago, Otello e da Roderigo, il perfetto credulone Luciano Saltarelli, di cui l’alfiere si serve per muover la vicenda. Venezia e Cipro sono quindi solo evocate: le maschere – tipiche della Commedia dell’Arte – con cui si apre la pièce rimandano già a un mondo intaccato da finzione e ambiguità, dove anche gli altri bravissimi attori Michelangelo Dalisi, Sabrina Scuccimarra, Salvatore Caruso e Rosario Giglio si inseriscono perfettamente. I vestiti di Gianluca Falaschi, che restituiscono un esercito non definibile, ben creano una sospensione in questo non-tempo, che è allo stesso modo anche un non-luogo in cui le musiche di Francesco De Melis rimandano a un intreccio mistico tra Oriente e Occidente. E l’immaginazione di Otello non può che trovare un ampio sfogo di esistenza in un mondo non plasmato dalla realtà, in bilico tra il vero e il falso.

Visto al Teatro Goldoni, Venezia

Carlotta Tringali

Tutti per Arpagone, Arpagone per sé

Recensione a L’avaro – Arturo Cirillo

L'avaro di Arturo Cirillo, foto di Marco Ghidelli

Da registi di tradizione come Luigi De Filippo (la sua versione è in programma questo dicembre al Teatro Argentina come “spettacolo di fine anno”), alla rilettura del Teatro delle Albe, L’avaro di Molière continua ad essere testo teatrale che vive in scena e ad affrontarlo questa volta è Arturo Cirillo. Il suo confronto con l’opera si dichiara fin da principio di forte impatto emotivo: la scenografia “parla” di un tunnel fisico e psicologico, un corridoio prospettico che allude ad una profondità non tangibile. Oltre. E poi frammentazione, passaggio e ostacolo. Vuote “cornici” scenografiche come incise da pennellate astratte. Accompagnata dalla musica di un carillon distorto, una figura nera e ricurva percorre questo spazio, avanza dal fondale, si siede, rivolge un gesto di devozione/possessione verso la cassetta che tiene in braccio e scompare nell’oscurità del proscenio, luogo a noi più prossimo, zona franca e angolo della casa in cui, scopriremo, nessuno dovrebbe poter accedere. Il vecchio Arpagone rivolge uno sguardo verso il fondo della scena, diviene spettatore. L’interprete è svelato. L’avaro messo in scena da Arturo Cirillo (con traduzione del testo di Cesare Garboli) trova nel regista anche il personaggio principale dell’opera. Cirillo, come già nell’Otello in cui aveva vestito i panni di Iago, riserva per sé il ruolo del personaggio con maggiore consapevolezza del disegno generale, quello che lui stesso ha definito, in riferimento all’opera shakespeariana, “il regista della vicenda”.

Povero Arpagone pieno di sé! L’avarizia ha fatto di lui un uomo dubbioso di tutto e tutti – pure della sua stessa figura – ma agli occhi degli altri la sua insicurezza risulta come onnipotenza. Arpagone calcolatore, padre che per denaro concede in sposa la propria figlia Elisa (Monica Piseddu) al vecchio Anselmo – che «se la prende senza dote, capite quanto risparmio?»–  ed impone al figlio Cleante (Michelangelo Dalisi) una ricca vedova. Poveri figli! Ancora peggio poi se Arpagone decide di risposarsi con Mariana, la giovane amata da Cleante. Ad alimentare questo caos sentimentale si inseriscono le figure di servi, cuochi-cocchieri e la furba Frosina (Sabrina Scuccimarra), intermediaria degli intrighi amorosi del vecchio e complice abbindolata dallo splendore del denaro, da nessuno mai promessole ma infinitamente desiderato. Le singole cornici scenografiche, poste su binari e agite a mano (e a vista), concorrono alla caratterizzazione dei diversi componenti della casa: i personaggi vengono raggruppati in base al sentimento che li lega all’avaro. Una movimentazione che, grazie alla bravura degli autori, Dario Gessati per le scene e Badar Farok per il disegno luci, consente di assegnare rilevanza ad ogni passaggio della partitura drammaturgica. Arpagone è accerchiato da persone che dipendono da lui, che di lui sparlano ma che sempre a lui ritornano. Un’ossessione, la sua, che è divenuta malattia. La vecchiaia ha riposto nell’avarizia la propria piaga: un ripiegarsi dell’uomo in se stesso, una curvatura fisica che appare come il prolungamento dell’immagine di Arpagone privato della cassetta alla quale ama così tanto avvinghiarsi. Il male ha ormai penetrato ogni singola parte del suo corpo, organi, ossa, fino alla superficie di stoffa che segue la silhouette e cade pesantemente a terra. Come una statua privata dell’oggetto significante, il vecchio mantiene la sua postura ma con il vuoto creato dalla sottrazione. Arpagone è stato derubato della cassetta, è stato commesso il crimine più grave che si sia mai verificato. E lui, senza denaro, muore. Nessuna tragedia si sviluppa in scena perché la cassetta viene ritrovata, ogni intrigo viene sciolto ma proprio al momento dell’happy-end tutti si ritrovano, come sempre, accanto all’avaro.

L'avaro, foto di Marco Ghidelli

Molière 2010. La rilettura de L’avaro presentata da Arturo Cirillo apre ad una riflessione più ampia che si interroga sulla presenza, da qualche anno a questa parte, di opere del drammaturgo francese nelle stagioni teatrali. A contestualizzare il “tormentone” molieriano – senza cadere in letture meramente commerciali della programmazione dei cartelloni – accorrono le parole dello stesso Cirillo intervistato da Laura Palmieri per Radio3: «soprattutto in questi anni si constata che la cultura non fa parte di un paese. Se quest’anno si fa tanto Molière è perché in qualche modo si vorrebbe educare lo Stato a concepire che la Cultura è parte integrante e forse è veramente l’unica narrazione del Paese. Io trovo Molière molto, molto attuale». Al malessere profondo del teatro italiano Arturo Cirillo risponde spiattellando in faccia al pubblico uno dei vizi di cui il capitalismo si è servito maggiormente per la sua affermazione. L’avarizia viene mascherata dietro al velo dell’individualismo di cui soffre la società contemporanea; sfiduciati e indifferenti verso possibili soluzioni ci lasciamo trascinare dalle posizioni dei potenti e, come tanti figli di Arpagone, non possiamo fare a meno di loro. Poveri noi!

Visto al Teatro Sperimentale, Ancona

Elena Conti